“Dipartimenti di eccellenza” premia la ricerca già realizzata e i progetti di sviluppo. Rispetto alla prima edizione, c’è un forte rinnovamento tra i dipartimenti ammessi alla selezione e tra i vincitori. Oltre a un leggero riequilibrio territoriale.
Come funziona il programma
Si è conclusa a dicembre la seconda tornata di assegnazione dei finanziamenti per i “Dipartimenti di eccellenza”, iniziativa introdotta dalla legge 232 del 2016, con l’obiettivo di individuare e finanziare, con cadenza quinquennale e nell’ambito delle 14 aree scientifico-disciplinari del Consiglio universitario nazionale, i migliori 180 dipartimenti delle università statali. Lo scopo del provvedimento è di finanziare l’attività di ricerca universitaria laddove essa risulta affermata in termini di qualità della ricerca prodotta e dei progetti di sviluppo dipartimentale. Si tratta di finanziamenti significativi per gli standard nazionali: una media di 1.5 milioni di euro per dipartimento assegnatario, ripetuto sull’arco quinquennale 2023-2027. Fondi utilizzabili principalmente per reclutamento straordinario, ma anche per acquisto di attrezzature, laboratori e sostegno a formazione avanzata (lauree magistrali e dottorati).
Si tratta anche di un’innovazione significativa rispetto ad altri finanziamenti ministeriali, che in massima parte affluiscono agli atenei, mentre nel caso di questo programma i destinatari delle risorse sono i dipartimenti stessi. Un secondo importante elemento di innovazione è che il finanziamento assicura certezza di risorse su un arco di tempo più lungo rispetto ad ampio di altri programmi di finanziamento della ricerca, che spesso hanno entità e tempi variabili, e a volte difficilmente prevedibili.
In questa sede vogliamo confrontare le due tornate di assegnazione (2018 e 2022), chiedendoci se l’iniziativa abbia avuto effetti diversi nelle varie aree disciplinari e a livello territoriale. Il processo di valutazione dei dipartimenti che accedono al finanziamento avviene in tre stadi distinti: al primo stadio sono ammessi 350 dipartimenti (la metà circa di quelli attivi presso le università statali), ordinati sulla base dei punteggi (standardizzati) ottenuti nella valutazione della qualità della ricerca (Vqr). Dalla prima fase sono quindi esclusi altrettanti dipartimenti, che in alcuni casi rappresentano la totalità di un ateneo, che quindi non potrà beneficiare del finanziamento. Sono esclusi anche i dipartimenti finanziati nel ciclo precedente che abbiano ricevuto una valutazione negativa dalla stessa Commissione di valutazione. Relazioni finali e valutazioni dei risultati conseguiti, in particolare per quanto riguarda il reclutamento, non sono resi pubblici dal ministero dell’Università e Ricerca.
Nel secondo stadio i 350 dipartimenti ammessi presentano un progetto di sviluppo e un piano finanziario quinquennale. La legge prevede che ogni ateneo non possa candidare al finanziamento più di 15 dipartimenti. Cadono così una quarantina di candidati potenziali, localizzati prevalentemente nei grandi atenei (nell’ultima edizione 6 a Bologna, 8 a Milano Statale, 14 a Padova, 8 a Roma Sapienza e 3 a Torino).
Il terzo stadio prevede che una commissione nominata dal Mur valuti i progetti presentati e assegni un punteggio in trentesimi, che si somma al punteggio di ammissione basato sulla Vqr ed espresso in settantesimi. La somma dei due determina il punteggio finale, sulla base del quale viene compilata la graduatoria dei dipartimenti assegnatari.
Vi sono tuttavia due garanzie di salvaguardia: un numero massimo di finanziamenti per area disciplinare, garantendo a ciascuna una rappresentanza adeguata alla sua dimensione, e una garanzia di finanziare almeno un dipartimento per ogni ateneo, se ammesso al primo stadio e se ottiene una valutazione almeno sufficiente del progetto di ricerca (i cosiddetti “campioni locali”). Nell’ultima edizione, un terzo dei dipartimenti vincitori (57 su 180) ha usufruito di questa clausola di garanzia.
I risultati della seconda edizione
La procedura ci appare complessivamente ben disegnata, benché i diversi stadi di valutazione e i relativi esiti potrebbero riflettere anche diversità di valutazione in diverse aree disciplinari, composizioni e dimensioni diverse della numerosità dei dipartimenti tra atenei, selezioni da parte degli atenei di “campioni locali” non distribuite uniformemente tra aree disciplinari, e così via. Vale quindi la pena di confrontare gli esiti per verificare quali siano gli effetti della selezione sulla distribuzione delle risorse tra aree territoriali e disciplinari, e al contempo verificare gli effetti dei correttivi di garanzia previsti dalla legge.
Tabella 1 – Descrittive dei processi di selezione nelle due edizioni
La tabella 1 riporta dati di sintesi relativi alle due edizioni, ordinando i dipartimenti ammessi al primo stadio secondo Ispd (il punteggio standardizzato ottenuto nella Vqr, riferita al periodo 2011-14 nella prima edizione e 2015-19 nella seconda edizione). Nell’interpretare i dati, occorre tenere presente che disponiamo solo del punteggio tra i 350 ammessi al primo stadio, ma non tra i non ammessi.
Il primo dato che si osserva è che la clausola di salvaguardia dei “campioni locali” sembra aver operato efficacemente in entrambe le edizioni: salvo poche eccezioni, le università sono presenti con almeno un dipartimento tra i 350. Si nota anche che tra le due edizioni la distribuzione del punteggio Ispd tra gli ammessi è più spostata verso i punteggi alti. Il numero di punteggi massimi sulla base della Vqr (100, che si traduce in 70 nel terzo stadio di valutazione) passa da 119 nel 2018 a 144 nel 2022. Si alza anche il punteggio medio degli ammessi (93,3 nel 2018 e 96,0 nel 2022) e dei vincitori (97,7 nel 2018 e 98,8 nel 2022). Ciò indica che la disuguaglianza tra i dipartimenti ammessi e non ammessi è cresciuta, e che i criteri per accedere al finanziamento sono diventati più stringenti.
Tuttavia, quanto più si comprime verso l’alto la distribuzione dei punteggi del primo stadio (basato sulla Vqr), tanto più importante per il risultato finale diventa la valutazione del progetto da parte della Commissione di selezione (il secondo e soprattutto il terzo stadio). Se si ordinano i dipartimenti sulla base del Ispd, tra i primi 180 in graduatoria, in entrambe le edizioni 133 risultano vincitori e 47 esclusi. D’altronde, vi è una bassa correlazione tra punteggio Ispd e punteggio del progetto (0,26 nel 2018 e 0,12 nel 2022), a indicazione del fatto che la Commissione nel processo di valutazione non si è fatta influenzare dall’indicatore Ispd, ma ha considerato i contenuti dei progetti presentati. La bassa correlazione indica anche che – almeno per quanto riguarda i progetti vincitori, di cui disponiamo di Ispd e punteggio del progetto – la Vqr è soltanto uno degli indicatori della qualità complessiva di un dipartimento.
Tabella 2 – Dipartimenti vincitori per area disciplinare
Una seconda osservazione emerge dai dati della tabella 2, che riporta la distribuzione dei dipartimenti vincitori per area disciplinare, e riguarda un possibile effetto di polarizzazione prodotto dalla distribuzione dei fondi premiali. L’indicatore Ispd (fase 1) e la valutazione dei progetti da parte della commissione (fasi 2 e 3) hanno prodotto invece un notevole turn-over tra i dipartimenti vincitori. Solo 80 dipartimenti su 180 (il 44 per cento) sono stati finanziati in entrambe le nelle due edizioni dell’iniziativa. Interessante notare che la persistenza è nettamente maggiore nelle aree umanistiche (dove si arriva a 80 per cento nell’area 14 delle scienze politiche e sociali) e con maggior rotazione nelle scienze della vita. Il massimo turn-over si raggiunge nelle scienze mediche, con soli 6 dipartimenti su 20 vincitori in entrambe le edizioni (30 per cento). Una possibile spiegazione delle differenze tra aree è la maggiore omogeneità in termini di risultati conseguiti e qualità dei progetti dei dipartimenti di area medica. Un’interpretazione alternativa è che in alcune aree di ricerca, in cui sono maggiori le opportunità di finanziamento, i dipartimenti prestino meno attenzione al programma, ad esempio in fase di scrittura del progetto.
Tabella 3 – Dipartimenti ammessi e vincitori per area disciplinare, area territoriale e anno
Una preoccupazione che ha accompagnato l’avvio dell’i questa iniziativa era il potenziale effetto di progressiva polarizzazione territoriale prodotta dalla distribuzione di fondi premiali. Osservando i dati della Tabella 3, questo rilievo ha avuto un riscontro nella prima edizione, nella quale i 350 dipartimenti ammessi alla prima fase di selezione erano localizzati per il 57,7% nelle università settentrionali, quota che saliva al 63,9 per cento tra i vincitori. Nel Mezzogiorno i dipartimenti ammessi alla prima fase nel 2018 erano il 15,3 per cento, ma soltanto il 13,9 per cento tra i vincitori. Nella seconda edizione questi andamenti si invertono: le università del Nord perdono un punto percentuale nel passaggio da ammessi a vincitori (da 56,6 a 55,6 per cento), mentre quelle del Mezzogiorno ne guadagnano tre (da 15,7 a 18,9 per cento). Tra i dipartimenti vincitori si riduce la quota degli atenei settentrionali (dal 63,9 al 55,6 per cento) e cresce la quota di quelli del centro (dal 22,2 al 25,6 per cento) e del Mezzogiorno (dal 13,9 al 18,9 per cento). In termini assoluti, il numero di dipartimenti finanziati nelle regioni settentrionali passa da 115 a 100, mentre aumenta di 6 unità nel Centro e di 9 nel Mezzogiorno. Nel passaggio tra il primo e secondo ciclo si nota quindi un leggero riequilibrio territoriale, dovuto in buona parte ai risultati della Sapienza e della Federico II). Si nota anche una specializzazione del Mezzogiorno nell’ingegneria industriale (area 9) e nelle scienze giuridiche (area 12), aree in cui la quota di dipartimenti vincitori del Sud è, rispettivamente, 47 per cento e 33 per cento. Allo stesso tempo, cinque aree disciplinari nel Mezzogiorno usufruiscono in modo limitato del programma (un solo dipartimento finanziato o nessuno).
L’inversione di andamenti trova ovviamente riscontro quando si analizza il rapporto tra ammessi e vincitori, anche se il rapporto è distorto dalla presenza dei “campioni locali”, che in molti casi riflette decisioni strategiche dei grandi atenei. In generale, il rapporto tra vincitori e ammessi sale da 0,51 a 0,62 nelle università meridionali, trainati dalle aree 9 e 12. Una variazione in senso opposto si riscontra nelle università settentrionali (dove la quota dei vincitori scende da 0,57 a 0,51), con risultati inferiori alla media di area nelle scienze fisiche (area 2), nelle scienze mediche (area 6) e in ingegneria industriale e dell’innovazione (area 9).
In sintesi, l’analisi evidenzia diversi spunti interessanti. In primo luogo, la procedura di valutazione sembra ben disegnata, in quanto premia significativamente sia la ricerca già realizzata, sia i programmi di sviluppo dei dipartimenti. Il confronto tra i due cicli di valutazione evidenzia un notevole turn-over, sia tra i dipartimenti ammessi alla selezione, sia tra i vincitori, con una tendenza a un leggero riequilibrio delle dinamiche territoriali.
Appendice – Dipartimenti ammessi e vincitori per area disciplinare, area territoriale e anno (consistenze)
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Luca Salvatici
Sarebbe interessante poter allargare l’analisi alla mobilità tra dipartimenti ammessi e non ammessi che temo sia in diminuzione visto che la disuguaglianza tra i due gruppi è cresciuta.
La procedura di valutazione è disegnata bene ma non benissimo soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento delle variazioni relative nella qualità della ricerca: ad esempio, un dipartimento che avesse raddoppiato il proprio ISPD, passando da 30 a 60, non sarebbe stato neanche ammesso.
Peppe Sacco
Non credo che statistiche e analisi possano giustificare un’idea balorda. L’eccellenza non deve supplire alla decenza ma deve essere un valore aggiunto. In molti degli attuali dipartimenti di eccellenza sappiamo tutti che ci piove, che i bagni sono sporchi e gli arredi delle aule in condizioni pietose. Gli studenti sono trattati come parte dell’arredamento e entrano in gioco solo come elementi di una spartizione che nulla a che fare con la qualità dell’azione educativa. Tutti sappiamo che la qualità si costruisce per controllare la varianza ma che si deve sempre partire da una media adeguata. La media è pessima e si pensa di poter supplire a questo con la retorica dell’eccellenza. Da membro di un dipartimento di eccellenza sono pienamente cosciente di come questo programma non serva a nulla se in aula trovo gessi di qualità talmente pessima che non riesco neanche a cancellarne il loro uso sull’ardesia.