La legge di bilancio per il 2023 affronta il problema della casa prorogando alcune misure e recuperando qualche vecchia norma. Sono incentivi deboli e riguardano solo le case di proprietà, mentre servirebbe un piano di edilizia residenziale pubblica.
Interventi solo per i proprietari
Per affrontare il problema della casa, la legge di bilancio per il 2023 (197/2022) ha prorogato alcune misure già operative, oppure ha recuperato qualche vecchia norma. L’esame ne evidenzia la scarsa efficacia nel contenere il disagio delle famiglie in difficoltà a soddisfare la loro domanda di servizi abitativi alle condizioni offerte dal mercato della casa, ovvero quello che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni misura di politica in questo campo.
Gli interventi previsti dalla legge di bilancio riguardano esclusivamente le case in proprietà. Le azioni attivabili, da un lato, mirano a contenere il rischio che i soggetti che una casa già l’hanno possano perderla per l’insorgere di difficoltà nel pagamento dei mutui; dall’altro, si propongono di favorire l’acquisto di un’abitazione da parte di coloro che ancora non ne hanno una.
La lotta impari con l’inflazione
L’aumento dell’inflazione può creare gravi problemi alle famiglie che sono diventate proprietarie sottoscrivendo mutui a tasso variabile. L’importo delle rate (mensili o con altra periodicità) è legato all’andamento dell’Euribor, che è il tasso di riferimento per il calcolo dell’ammortamento; quello a tre mesi, nel 2022 è stato negativo per la prima metà dell’anno e ha superato il 2 per cento alla fine. Nel grafico 1 è riportato, come esempio, l’importo della rata mensile di un mutuo a tasso variabile di 125mila euro sottoscritto a gennaio dello scorso anno. In dodici mesi l’aumento è stato rilevante tanto in percentuale quanto in valore assoluto; e non è previsto che si fermi a breve. Un certo numero di famiglie potrebbe non essere in grado di pagare il nuovo importo delle rate.
Grafico 1 – Andamento nel 2022 dei tassi di interesse e della rata di ammortamento
Il governo ha ritenuto di affrontare il problema riattivando, fino al prossimo 31 dicembre, una disposizione contenuta nel decreto legge 70/2011, che consente di completare l’ammortamento a tasso fisso di un mutuo a tasso variabile, a condizione che il capitale originario non superi i 200 mila euro, il mutuatario abbia un Isee non superiore a 35 mila euro e sia in regola con il pagamento delle rate. Si tratta di una misura a costo zero per il bilancio pubblico, che deve essere applicata dalla banca. Date le condizioni da soddisfare, è possibile che la platea che potrà accedervi non sia molto ampia. Ed è anche probabile che gli stessi mutuatari possano avere dubbi sul beneficio del passaggio dal tasso variabile al fisso. L’applicazione di quest’ultimo al capitale residuo garantisce che fino alla fine dell’ammortamento le rate resteranno dello stesso importo, ma non che esso diminuisca rispetto all’ultima cifra calcolata con il tasso variabile. Anzi, potrebbe anche aumentare, pur restando inalterato lo spread applicato dalla banca, perché l’Eurirs (il tasso di riferimento dei mutui a tasso fisso) è, generalmente, più alto dell’Euribor.
Il provvedimento non sembra comunque efficace per affrontare il problema di un eventuale aumento del numero di famiglie non più in grado di pagare puntualmente le rate a causa dell’aumento dei tassi di interesse variabile. Al riguardo, in un articolo con Francesco Vella, commentando la proroga per tutto il 2023 (art. 1 c. 74 let. a della legge di bilancio) della possibilità di accedere al fondo Gasparrini anche da parte di lavoratori autonomi, liberi professionisti e imprenditori individuali, abbiamo proposto di ammettere alla moratoria del pagamento delle rate anche i mutuatari che diventano morosi a causa dell’aumento dei tassi variabili.
Gli incentivi deboli
Si può dubitare dell’efficacia anche delle politiche riproposte o prorogate dal governo per favorire l’acquisto della prima casa. Il comma 76 dell’articolo 1 della legge 197/2023 dà tempo fino al 31 dicembre prossimo per beneficiare della detrazione dall’Irpef del 50 per cento dell’Iva pagata per l’acquisto dall’impresa che l’ha costruita o da un organismo di investimento collettivo del risparmio (Oicr). La detrazione va distribuita in dieci anni e si applica alle abitazioni di classe energetica A e B. L’importo annuale dello sconto fiscale dipende dal prezzo di vendita dell’abitazione e dalla sua destinazione a prima casa (Iva al 4 per cento) o ad altra destinazione (Iva al 10 per cento). Il beneficio è di poche centinaia di euro ogni anno, cioè di qualche decimo di punto percentuale del prezzo di un’abitazione di 200-300mila euro di valore. Difficile che un’agevolazione tanto debole possa attivare una domanda aggiuntiva rispetto a quella alimentata dalle famiglie che possono acquistare una casa, soprattutto se più costosa delle altre, come è quella con i più elevati standard energetici. Lo stesso governo non sembra riporre troppa fiducia nell’efficacia della misura: ha quantificato in 1,5 milioni ogni anno, per dieci anni, il minor introito dell’Iva dovuto alla sua applicazione; peraltro, l’esecutivo è stato “bacchettato” dal Servizio del bilancio del Senato per le scarse informazioni fornite su come si è arrivati alla stima dello stanziamento.
La legge di bilancio proroga altri due interventi, entrambi a favore dei giovani con meno di 36 anni che vogliono acquistare la loro prima casa. Fino al 31 marzo 2023 possono ottenere una fideiussione dal Fondo di garanzia per la prima casa sull’80 per cento del capitale mutuato, contro il 50 per cento previsto per i restanti soggetti che possono beneficiare della misura (art. 1 c. 74 let. b della legge di bilancio). La proroga di soli tre mesi è singolare. Ma la misura in sé non cambia sostanzialmente l’importo delle rate per l’ammortamento dei mutui.
Se l’acquisto avviene entro la fine dell’anno, i giovani, con Isee fino a 40 mila euro, sono anche esentati dal pagamento delle imposte indirette: 2 per cento sulla rendita rivalutata oppure ottengono un credito d’imposta del 4 per cento sul prezzo, a seconda che il venditore sia un privato o un’impresa, oltre che dalle altre imposte sulle compravendite immobiliari (art. 1 c. 74 let. c della legge di bilancio). Si tratta del beneficio più consistente tra tutti quelli previsti in questo campo dalla legge di bilancio. Il suo importo è sempre relativamente modesto: poco più di 3 mila euro per una compravendita tra privati di un’abitazione valutata 150 mila euro come prezzo-valore (più basso del prezzo pagato); nel caso di acquisto da un’impresa il beneficio sale a 8 mila euro per una casa di 200 mila euro. Non sono però molti i giovani con un reddito sul quale pagare un’Irpef almeno pari alla detrazione.
Il problema richiede più attenzione
L’esame di queste misure evidenzia nel complesso la loro scarsa efficacia. L’obiettivo del comma 76, che regolamenta la detrazione dell’Iva del 50 per cento per l’acquisto di abitazioni classe A e B, dovrebbe essere, secondo il suo titolo, quello di “favorire una ripresa del mercato immobiliare”. Va però detto che il mercato delle compravendite di immobili residenziali non è in sofferenza: nel 2021 sono state poco meno di 750 mila e nei primi nove mesi dello scorso anno quasi 600 mila. In ogni caso, non sarebbe questa misura a rimetterlo in moto: con il minore gettito previsto, può essere agevolata la vendita di 3.750 prime case o di 1.500 seconde case del valore unitario di 200 mila euro.
Le altre misure contenute nella legge di bilancio non offrono agevolazioni sufficienti a raggiungere, ognuna nel proprio ambito di intervento, l’obiettivo che si propongono. I benefici erogati non sono tali da spingere una famiglia ad acquistare una casa, se già non era nelle condizioni economiche di farlo; né consentono l’acquisto a giovani che non abbiano l’aiuto delle loro famiglie.
Il poco tempo a disposizione per elaborare la legge di bilancio per il 2023 può costituire una parziale attenuante nelle scelte fatte dal governo. Sulla casa, però, il governo Meloni appare di continuità con i precedenti; i quali, tuttavia, avevano finanziato, seppure in misura insufficiente, anche i fondi di sostegno degli inquilini in difficoltà.
Il nuovo governo dovrebbe dedicare alla questione delle abitazioni molta maggiore attenzione e più risorse di quante gliene siano state riservate finora.
Ciò che occorrerebbe per affrontare il diffuso disagio abitativo è l’elaborazione e l’attuazione di un piano casa, se non come quello Fanfani, almeno come quello decennale del 1978 (legge 457). Più nello specifico, servirebbe un piano che prevedesse interventi di edilizia convenzionata e agevolata, per aiutare le famiglie con redditi medi a diventare proprietarie delle loro case; e di edilizia sovvenzionata, per incrementare l’offerta di case popolari, per le famiglie che una casa non possono comprarla neanche con un aiuto pubblico. Ci vorrebbe, in definitiva, un piano di edilizia residenziale pubblica, un’espressione che magari suona un po’ d’antan, ma che è risultata socialmente molto più efficace del più alla moda social housing.
Certo, servono rilevanti finanziamenti, ma fare o no un piano casa è una scelta politica.
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Polo
Sono piacevolmente sorpreso dalla “svolta” di questo giornale. È sempre più frequente trovare articoli che parlano di pianificazione pubblica (seppur senza nominarla esplicitamente) quando non addirittura di “lotta di classe”. Dopo anni passati a gridare “fate presto”, a invocare il contenimento della spesa, l’arretramento dello stato, le “liberalizzazioni” e chi più ne ha più ne metta finalmente ci si è accorti che il paese è in una situazione drammatica, che il mercato non può risolvere.
Speriamo che questa voce “nuova” contribuisca alla definizione di proposte politiche che perseguano attivamente obbiettivi concreti di crescita, anche mettendo in discussione i tabù degli ultimi anni.