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La sofferenza capitale delle banche

Perché le banche tornino a sostenere l’economia reale è necessario ripulire i loro bilanci dagli attivi di peggiore qualità e contemporaneamente immettere capitale. Purché sia “capitale vero” e non creato in modo fittizio dalle regole di Basilea, con il meccanismo dell’autovalutazione del rischio.
UN EQUILIBRIO INSTABILE
In un recente intervento su lavoce.info, Giovanni Majnoni ha posto a confronto due tesi che cercano di individuare le ragioni della restrizione creditizia fronteggiata dalle imprese italiane. La prima è quella di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che vedono nell’insufficiente capitalizzazione delle banche italiane il problema principale (“A corto di idee e senza capitali”, Corriere della Sera, 3 aprile 2013). La seconda è quella illustrata in alcuni miei precedenti interventi, sempre su lavoce.info (“La coperta corta delle banche italiane” e “Le sofferenze bancarie frenano il credito”), nei quali ho posto l’enfasi sul peggioramento del portafoglio crediti come fattore determinante del restringimento del credito.
In realtà, le due tesi possono essere interpretate come due facce della stessa medaglia. Dall’analisi del Fondo monetario internazionale, citata anche nelle recenti considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, si rileva come l’industria bancaria italiana sia ben capitalizzata, tanto da poter essere in grado di resistere a condizioni economico-finanziarie particolarmente avverse. In altri termini, secondo il Fmi, il capitale attualmente disponibile è adeguato per mantenere in vita, senza grandi preoccupazioni per il futuro, il settore bancario domestico. Dagli stress test condotti dal Fmi non si può però desumere quali siano le capacità del settore produttivo, soprattutto quello con buone prospettive di crescita nel medio-lungo termine, di sopravvivere senza l’opportuno sostegno finanziario da parte delle banche. In questo ambito le due tesi citate si intrecciano e possono essere così riassunte: l’ingente peso dei crediti dubbi nel portafoglio non permette di erogare ulteriore credito perché altrimenti si comprometterebbe l’equilibrio (non molto stabile) raggiunto in termini di coefficienti patrimoniali bancari. Per sciogliere il circolo vizioso, l’unica strada è liberarsi della “palla al piede” che ostacola la ripresa del credito, cedendo i finanziamenti in sofferenza o attraverso la costituzione di una bad bank, ovvero rilanciando le cartolarizzazioni, anche grazie alle possibili soluzioni che la Bce sta studiando. In ogni caso, se la valutazione di questi crediti verrà effettuata a valori di mercato, le banche dovranno sostenere perdite rilevanti che andranno a erodere il capitale accumulato, da cui discende l’esigenza di ricapitalizzazione. Ciò che forse sperano gli istituti di credito, e che li induce a temporeggiare, è invece un supporto esterno “benevolo”, del tipo di quello ottenuto dalle banche americane nel 2008-09, quando fu lanciato il Troubled Asset Relief Program (Tarp), che permetta loro di cedere i crediti rischiosi a valori più elevati di quelli di mercato.
IL MECCANISMO DEI COEFFICIENTI DI PONDERAZIONE
Escludendo l’intervento “benevolo”, l’unica via per tornare a sostenere l’economia reale è quella di ripulire i bilanci dagli attivi di peggiore qualità e contemporaneamente immettere capitale, “capitale vero” e non creato in modo fittizio, quasi per magia, dalle regole di Basilea. Infatti, le attuali regole consentono di aggiustare i coefficienti di ponderazione utilizzati per l’autovalutazione del rischio delle attività detenute dagli istituti di credito (i cosiddetti risk-weighted asset) per migliorare, sulla carta, i livelli di patrimonializzazione. Nell’ultimo Financial Stability Review la Bce ha approfondito il tema confrontando i diversi coefficienti di ponderazione utilizzati dalle principali banche dell’area euro, tra il 2010 e il 2012, per la valutazione del rischio di credito verso imprese e famiglie. Se è vero che i coefficienti di ponderazione per il rischio delle varie istituzioni possono essere radicalmente differenti (grafico 1, parte a), in quanto può incidere il rating, il modello di business adottato e l’area geografica di riferimento, quel che è degno di attenzione per la Bce è la variabilità di questi pesi (grafico 1, parte b). Per definire i coefficienti di ponderazione dovrebbero essere utilizzate serie storiche sufficientemente lunghe, che non possono quindi essere influenzate da variazioni di breve termine, evitando in tal modo anche un’eccessiva pro-ciclicità del meccanismo pensato a Basilea. La Bce rileva, però, che negli ultimi due anni i coefficienti di ponderazione sul rischio di credito hanno osservato delle forti oscillazioni, ben superiori a quelle che ci si poteva attendere e che implicano una potenziale sottostima dell’attuale rischiosità degli attivi bancari. (1) Ciò desta non poche preoccupazioni sul fronte della stabilità finanziaria dell’Eurozona, soprattutto se si pensa che da una precedente situazione di sottovalutazione dei rischi, quella che ha coinvolto in particolare le società di rating che elargivano giudizi tripla A sui titoli con sottostante mutui subprime, è scaturita la crisi finanziaria che stiamo ancora affrontando.

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Grafico 1

In definitiva, il meccanismo di autovalutazione del rischio pensato con Basilea II, e perpetuato in Basilea III, si è basato su un presupposto abbastanza semplice e solo apparentemente condivisibile: chi, se non la banca stessa, che fa della valutazione dei rischi il fondamento stesso della sua esistenza, è in grado di stimare meglio la rischiosità del proprio attivo? Ma pensiamo di applicare lo stesso principio ad altri settori, come ad esempio quello dell’autotrasporto: chi meglio di un autotrasportatore conosce i limiti del proprio mezzo, la tenuta di strada, lo spazio di frenata, per non parlare dei limiti personali in termini di resistenza alla guida, riflessi, e cosi via? Il ragionamento implica che il codice della strada, con le regole sui limiti di velocità, per esempio, dovrebbero essere lasciate all’autovalutazione del singolo autotrasportatore. Per la sicurezza delle strade il legislatore, nazionale e internazionale, si è ben guardato (fortunatamente) dal perseguire questa linea, per la “sicurezza” dei mercati finanziari c’è invece ancora molta strada da fare.
(1) Per la Bce questa evidenza spiega anche perché molti analisti hanno oramai perso fiducia sugli indici di capitalizzazione basati su attivi ponderati per il rischio e preferiscono invece fare riferimento a indicatori più semplici e meno manipolabili, come il leverage ratio (pari al rapporto tra il capitale e le riserve iscritte in bilancio e il totale dell’attivo).

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Il Punto

  1. Piero

    Per fare tornare le banche a fare il loro mestiere occorre curare il male che ha originato la crisi.
    Tutto parte dalla crisi del debito pubblico, collocato principalmente nelle banche, per fare tornare la fiducia nel debito pubblico occorre che la Bce attui una politica contraria a quella dettata dalla Merkel; fare il contrario, ossia quello che si sta facendo farà tornare indietro di 5 anni il progetto europeo ma non il progetto egemonico della Germania.
    Fare una bad bank vuole dire aumentare il debito pubblico che graverà sempre sulla testa degli italiani.
    Solo la Bce ci può salvare, altrimenti basta questo scherzo di cattivo gusto e fuori dall’euro subito.

  2. Perchè nessuno parla mai degli oltre 110 miliardi di riserve auree possedute dalla Banca d’Italia?

  3. Alessandro

    Negli ultimi anni alcune, ma ovviamente non tutte, le banche italiane hanno fatto massicce pulizie di bilancio, prevedendo in media un fondo di accantonamento del 15-20% sugli incagli e del 50-60% sulle sofferenze (valori desumibili dai bilanci ed espressi come % del credito lordo). Approfondendo inoltre l’analisi, se avete tra le mani una qualsiasi matrice di transizione potete vedere con facilità che è sempre più probabile che un credito a rischio classificazione come “deteriorato” scivoli verso la sofferenza (la classe di deterioramento più grave). Unendo questi due aspetti, è possibile concludere che le banche, avendo già spesato perdite su questi crediti e dovendo affrontare potenziali ulteriori accantonamenti, venderebbero volentieri i loro NPL. Il problema, se vogliamo, è più sottile: i fondi che operano nel cd. “vulture capital” spesso chiedono sconti sul valore nominale ben maggiori di quanto già spesato perché il quadro legale italiano è estremamente complesso (e talvolta confuso) per quanto riguarda i crediti ristrutturati: spesso ci sono procedure et similia che aumentano incertezza, tempi e valori di realizzo (ovviamente corporate side). In altre parole: probabilmente gli istituti bancari sarebbero disposti a cedere parte dei loro NPL, ma a queste condizioni di mercato comporterebbe assumere ulteriori perdite.

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