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Autore: Alberto Zanardi Pagina 5 di 7

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Professore ordinario di Scienza delle finanze nell'Università di Bologna. Attualmente è componente del -Comitato scientifico per le attività inerenti alla revisione della spesa pubblica istituito presso il MEF. Durante il 2022 è stato presidente della Commissione tecnica per i fabbisogni standard presso il MEF e tra il 2014 e il 2022 componente del Consiglio direttivo dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Nel passato ho fatto parte della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale e della Commissione tecnica per la finanza pubblica presso il MEF.

È ANCORA LUNGA LA STRADA DELL’ITALIA FEDERALE

Non è vero che il federalismo fiscale è fatto. E non solo perché ovviamente alla concreta attuazione della riforma del sistema di finanziamento di Regioni ed enti locali manca un’infinita sequenza di atti amministrativi e un periodo di transizione di cinque anni. Ma anche perché la fase della formulazione e approvazione dei decreti legislativi è ben lontana dall’essere conclusa. Nel mosaico della riforma disegnato da questi provvedimenti ci sono ancora molte lacune, totali o parziali, rispetto a quanto previsto dalla legge delega.

Tutto ruota intorno ai fabbisogni standard

Ancor più della riforma dei tributi regionali e locali, il vero punto critico del federalismo fiscale è la definizione dei fabbisogni standard. Nei due schemi di decreti finora approvati sugli standard di comuni e province e sugli standard sanitari per le Regioni, il governo ha seguito due ispirazioni e due approcci metodologici profondamente diversi. Ma come far convivere le due accezioni, entrambe presenti nella Costituzione e nella stessa legge delega? Momenti di collegamento vanno ricercati in tutte le fasi del processo di decisione e di applicazione dei fabbisogni standard.

 

Il nuovo fisco regionale? Quello di prima

Nel decreto omnibus sul federalismo fiscale approvato dal governo è delineato anche il sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario. I tributi disponibili restano quelli di oggi: Irap, addizionale Irpef, compartecipazione Iva, con qualche margine di manovra in più, seppure sotto il vincolo di non aumentare la pressione fiscale generale. Sul sistema perequativo delle Regioni, lo schema di decreto aggiunge poco a quanto detto dalla legge delega. Scioglie alcuni ma non tutti i dubbi e suscita però anche nuovi interrogativi.

La risposta ai commenti

L’’imposizione sull’’abitazione di residenza è la norma negli altri paesi. Il valore dell’’immobile di residenza è un ottimo indicatore di capacità contributiva, fortemente correlato con reddito e ricchezza.
L’esenzione da imposte sulla “prima casa” determina dunque iniquità orizzontale. Tale esenzione non si giustifica con il fatto che si tratta di un bene primario: molti altri beni primari (il cibo, il vestiario) sono tassati.
D’altra parte, l’’imposizione sulla casa di residenza non esclude la possibilità di applicare deduzioni o detrazioni in grado di modulare l’’onere impositivo tra le diverse famiglie (molto meglio che distinguere soltanto tra abitazioni di lusso e non di lusso).
Va anche detto che l’investimento immobiliare ha nel nostro sistema un trattamento di favore, visto che la rendita catastale sottostima fortemente la redditività effettiva dell’immobile. Ciò discrimina rispetto a investimenti alternativi ad esempio in attività produttive.
Non si dimentichi inoltre che l’’imposta sugli immobili rappresenta uno dei pochi esempi di tributo effettivamente locale, in quanto caratterizzata da una base imponibile sufficientemente uniforme e stabile sul territorio nazionale e che ben si collega ai benefici che i cittadini ricevono dall’’attività pubblica. Anche da questo punto di vista, è chiaro che l’’esenzione delle abitazioni principali non consente di ottenere un federalismo pienamente responsabile. Il punto sollevato nell’’articolo riguardava proprio questo aspetto: chi prende le decisioni deve essere anche chi sopporta i costi di queste decisioni; dunque non si possono escludere i residenti nel disegno dell’autonomia tributaria.

Prove di federalismo municipale

Più ombre che luci nella riforma della fiscalità comunale. Nascono dubbi sul fatto che possa garantire la certezza di risorse alla base di ogni seria prospettiva di responsabilizzazione degli enti territoriali. Nella seconda fase, l’Imup si profila come una super-patrimoniale sulle seconde case.

Imup, imposta dal futuro incerto

La seconda fase della riforma della fiscalità comunale scatterà dal 2014. A partire da quell’’anno, i comuni che decideranno di farlo potranno istituire una nuova imposta, denominata Imposta municipale propria (d’’ora in poi Imup), regolata dalla normativa statale ma con il riconoscimento ai comuni di margini di autonomia. Se istituita, l’’Imup cancellerà le imposte statali immobiliari devolute nella prima fase (con l’’eccezione della cedolare secca sulle locazioni) e l’’Ici.

DUE COMPONENTI PER UN’IMPOSTA

Dell’’Imup, il decreto fissa alcuni elementi fondamentali ma su altri rimanda la decisione al futuro. Sarà un’’imposta “doppia”, con due differenti componenti: la prima basata sul possesso dell’’immobile, come l’’Ici attuale, la seconda sul suo trasferimento, come oggi l’’imposta di registro e quella ipo-catastale. E sarà un’imposta patrimoniale, visto che la base imponibile resta il valore catastale, gravante prevalentemente sulle seconde case (a disposizione e locate) e sugli immobili non residenziali, con netta conferma dell’’esenzione totale dell’’abitazione principale per la “componente possesso”. Le aliquote base saranno fissate dallo Stato, ma si riconosce ai comuni la possibilità di manovrarle in aumento o in diminuzione entro limiti prefissati, addirittura fino al 3 per mille sulla “componente possesso”. Sulla stessa componente è poi previsto un regime fortemente agevolativo, addirittura metà dell’’imposta ordinaria, nel caso di immobili locati e in quello di immobili utilizzati nell’’esercizio dell’’attività di impresa, arti e professioni ovvero posseduti da enti non commerciali.
La nuova Imup sarà in realtà un tributo composito, basato su presupposti differenti (il possesso, il trasferimento di immobili), una collezione di tributi oggi esistenti che, sotto una etichetta unica, manterranno in gran parte i loro caratteri distintivi. Insomma, una forzatura dettata dall’’obiettivo di attribuire tutta la tassazione immobiliare ai comuni (con margini differenziati di manovrabilità) e di “semplificare” a tutti i costi, senza però cambiare nulla in sostanza, senza cogliere l’’occasione per mettere mano a una riforma concreta della tassazione immobiliare.

UNA SUPER-PATRIMONIALE SULLE SECONDE CASE

Valutare l’’Imup è esercizio arduo in quanto il decreto manca di fissare un elemento fondamentale del nuovo tributo: l’’aliquota base della sua componente principale, quella collegata al possesso dell’’immobile. Qualche considerazione di larga massima è comunque possibile.
Sotto il vincolo della “neutralità finanziaria”, data la riconferma della piena esenzione della prima abitazione, data la necessità di recuperare la perdita di gettito derivante dalla cedolare secca al 20 per cento rispetto all’’Irpef attuale e dati infine i regimi fortemente agevolativi previsti nella nuova imposta, il risultato non può che essere un pesante spostamento del prelievo fiscale a danno, in particolare, delle seconde case.
Le prime simulazioni indicano che per garantire parità di gettito, l’’aliquota base dovrebbe essere fissata nell’’intervallo tra l’’11 e il 14 per mille, ossia circa il doppio dell’’aliquota Ici attuale. Il risultato sarebbe pertanto una super-patrimoniale sulle seconde case. Questa prospettiva avrebbe qualche vantaggio in termini redistributivi, ma penalizzerebbe fortemente l’’investimento immobiliare diverso da quello finalizzato all’’acquisizione della prima abitazione. La possibilità di fissare l’’aliquota base a un livello un po’’ più basso dipende criticamente dall’’effettivo recupero di evasione nella tassazione sugli immobili che dovrebbe derivare dagli incentivi all’’emersione generati dall’’abbattimento dell’’aliquota previsto con la cedolare secca e dal maggiore coinvolgimento dei comuni nell’’attività di accertamento. Ma su entrambi i fronti, i margini di incertezza sono forti.
Anche per la seconda fase rimangono i problemi evidenziati sul piano perequativo, in quanto la nuova Imup concorre al finanziamento del fondo di perequazione. Un punto di ambiguità che permane nel testo del decreto è poi quello che riguarda il carattere facoltativo del passaggio dalla prima alla seconda fase. La Relazione sul federalismo fiscale del 30 giugno affidava l’’istituzione dell’’Imup “a una verifica di consenso popolare su iniziativa dei singoli comuni”. Si tratta di una previsione alquanto singolare poiché nel caso in cui solo alcuni comuni decidano di passare alla nuova imposta, si avrebbero seri problemi di funzionalità per il sistema perequativo municipale. E ciò perché il meccanismo perequativo dipende dalla determinazione della capacità fiscale, la quale deve necessariamente riferirsi a tributi di applicazione generale in tutti i comuni. Il testo del decreto sembra allontanare questo scenario, ma non risolve tutte le ambiguità.
Da ultimo, la riforma va valutata sul piano dell’’obiettivo della semplificazione della tassazione immobiliare rispetto al quadro attuale. Il combinato dei differenti trattamenti differenziali previsti per le diverse tipologie di proprietari e di immobili porta a un sistema di tassazione di redditi e patrimoni immobiliari (vedi tabella 1) che sembra francamente coraggioso definire più semplice e più neutrale rispetto a quello attuale.

FEDERALISMO DEMANIALE À LA CARTE

Uno schema di decreto legislativo fissa i principi generali e le procedure per regolare il trasferimento di parti del patrimonio immobiliare dello Stato a favore degli enti territoriali. Proprio il procedimento lascia perplessi. Il risultato non sarebbe una devoluzione del patrimonio statale tra diversi livelli di governo sulla base di criteri economici di pertinenza dei beni alle funzioni attribuite agli enti decentrati, ma un’allocazione basata su puri criteri di profittabilità, che lascerebbe allo Stato i beni di minor valore commerciale.

EMERGENZA CONTINUA IN CARCERE

Le carceri italiane sono sovraffollate e obsolete: difficile garantire accettabili condizioni di vita per personale e detenuti, e perseguire l’obiettivo della riabilitazione. E’ necessario accantonare la logica dell’emergenza continua distinguendo tra misure di impatto immediato e politiche di lungo periodo. L’ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse, con la chiusura di istituti fortemente sottoutilizzati, può portare in tempi relativamente brevi a risparmi di spesa strutturali. Ma serve poi la costruzione di nuovi penitenziari, più grandi e più efficienti.

FEDERALISMO E CONCORRENZA FISCALE

La proposta di introdurre forme di fiscalità di vantaggio a favore delle Regioni meridionali gioca un ruolo rilevante nel disegno di legge Calderoli sul federalismo fiscale. Ma l’Unione Europea accetta simili ipotesi solo a condizione che non ci sia compensazione delle perdite di gettito da parte del governo centrale. E’ dunque possibile immaginare uno scenario in cui le Regioni del Sud decidano di abbassare le aliquote dei tributi loro assegnati con l’obiettivo di attrarre investimenti dall’esterno. Si tratterebbe però di concorrenza fiscale.

MA REGIONI E COMUNI NON SONO LA STESSA COSA

Uno dei punti più controversi del disegno di legge sul federalismo fiscale è certamente quello del sistema di finanziamento e perequazione dei comuni e dei suoi rapporti con lo Stato e le Regioni. Il progetto impernia la finanza comunale su funzioni fondamentali e non, sul modello di quanto previsto per le Regioni. Ma è un parallelismo poco convincente. Una parte degli interventi dei comuni non ha un valore equitativo così rilevante da farli necessariamente ricadere tra le materie tutelate dai livelli essenziali delle prestazioni.

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