La flessibilità dei contratti a tempo determinato diminuisce in modo significativo la probabilità di trasformazione in tempo indeterminato, con riflessi negativi sui salari, anche nel medio periodo. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i giovani.
Autore: Cristina Tealdi
Professore associato di economia presso l’Università Heriot-Watt di Edimburgo e fellow del centro di ricerca Iza. Ha conseguito il titolo di dottorato presso la Northwestern University di Chicago. I suoi interessi di ricerca sono nell'ambito dell'economia del lavoro e della macroeconomia. Nello specifico lavora su temi quali l’utilizzo dei contratti temporanei, il mismatch tra lavoratori e imprese, la disuguaglianza di reddito, e l’impatto della migrazione sul mercato del lavoro.
Si dice spesso che ci sono due Italie: il Centro-Nord, più industrializzato e ricco, e il Sud, più povero e caratterizzato da bassa crescita. Ma la geografia della disuguaglianza di reddito è molto più complessa, come mostrano i risultati di uno studio.
Che cosa ha reso così diverse fra loro le dinamiche del mercato del lavoro nei paesi europei nell’ultimo decennio? E quali politiche dovrebbe adottare ciascun Governo per modificare la situazione? L’analisi dei dati suggerisce di guardare ai salari e alla produttività. Il problema dell’Italia.
I contratti a tempo determinato sono stati introdotti in tutta Europa per dare flessibilità a mercati del lavoro ritenuti molto rigidi. Nel nostro paese avevano anche un altro obiettivo: ridurre il lavoro nero. I risultati empirici dimostrano che la riforma Biagi non ha avuto alcun effetto significativo nell’assorbire il lavoro irregolare. I datori di lavoro che assumevano in nero, continuano a farlo; i datori di lavoro che prima della riforma assumevano nel mercato regolare, continuano a farlo, ma ora preferiscono ricorrere ai contratti a tempo determinato.