Nel 2019 le Pmi italiane non avevano ancora recuperato i livelli di marginalità del 2007, pur migliorando negli indici di patrimonializzazione e solidità finanziaria. Poi è arrivata la crisi da pandemia. Con gravi conseguenze, specie in alcuni settori.
Autore: Fabrizio Balda
Lavora presso l’ufficio Sistemi di rating e modelli quantitativi di Cerved Group dal 2001. Laureato in Economia e commercio presso l’Università di Torino, si occupa dello sviluppo di modelli econometrici applicati al rischio di credito. E’ il rappresentante italiano nel gruppo di lavoro per la gestione del database BACH (Bank for the Accounts of Companies Harmonised) e ESD (European Sectoral Reference).
Dal Rapporto Cerved Pmi emerge un quadro in chiaroscuro: i fatturati in termini reali sono stagnanti e la redditività in calo. Migliorano però i fondamentali economico finanziari e si rafforza il profilo di rischio delle piccole e medie aziende italiane.
Livelli elevati dello spread, se prolungati nel tempo, hanno effetti sui tassi di interesse. E di conseguenza su investimenti, redditività e rischio delle imprese. Rispetto al passato, però, le Pmi potrebbero resistere meglio a un eventuale shock.
L’impatto della crisi è stato duro, ma già nel 2014 molte Pmi italiane hanno dato segnali di ripresa. I bilanci 2015 confermano il rafforzamento della crescita, anche nelle costruzioni. Il miglioramento congiunturale non risolve però il problema antico della bassa produttività.
Nel 2013 entra in vigore Basilea 3 che inasprisce i requisiti patrimoniali delle banche. Potrebbe così diminuire ulteriormente l’erogazione di credito alle Pmi. Invece di cercare soluzioni ad hoc, si potrebbe favorire una maggiore capitalizzazione delle aziende. Le simulazioni mostrano che un aumento del 20 per cento per tre anni dei conferimenti di capitale da parte dei soci avvierebbe un circolo virtuoso. Per le imprese scenderebbe l’indebitamento e la loro maggiore stabilità comporterebbe un risparmio per le banche in termini di patrimonio di vigilanza fino a 10 miliardi.