Il sistema ferroviario svizzero è considerato un modello di eccellenza. Ma neppure la migliore ferrovia sembra in grado di modificare in modo apprezzabile i rapporti di forza con la strada. Perché allora investire risorse ingenti sulla rotaia?
Autore: Francesco Ramella Pagina 4 di 5
Si è laureato in ingegneria meccanica ed ha ottenuto un Dottorato di ricerca in Trasporti presso il Politecnico di Torino. Insegna "Trasporti" all'Università di Torino. Dal 2016 al 2019 è stato consulente presso la Struttura Tecnica di Missione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. È direttore esecutivo di Bridges Research e research fellow dell'Istituto Bruno Leoni e di IREF.
Sono già molte le amministrazioni che hanno preso provvedimenti di limitazione del traffico per sforamento dei limiti di concentrazione delle polveri. Misure che con il passare degli anni divengono via via più inefficienti. E che spesso trascurano il rapporto fra i benefici e i costi. Sarebbe invece opportuno definire limiti di concentrazione degli inquinanti diversificati per le varie zone d’Europa. Altrimenti non ci resta che pagare le sanzioni comminate dall’Unione. Oppure accettare che per alcuni mesi all’anno, il sistema produttivo del Nord Italia venga fermato.
Esistono ampi margini di crescita per la ferrovia nel nostro paese, in termini di merci trasportate in valore assoluto. Come è già accaduto in Germania e Regno Unito negli ultimi anni. Ma lo spostamento modale delle merci dalla gomma al ferro non serve a ridurre il traffico su strada, se non in misura marginale. Meglio sarebbe puntare su un utilizzo più razionale della capacità della rete autostradale con l’adozione di livelli di pedaggio variabili nell’arco della giornata e della settimana. E prevedere un ampliamento della capacità dove necessario.
La prima azienda privata di trasporto locale di passeggeri debutta sulla linea ferroviaria Milano-Torino. Peccato che l’Ufficio per la regolazione dei servizi ferroviari le abbia vietato le fermate nelle stazioni intermedie. Ma l’ingresso di nuovi protagonisti conferma che le tratte più frequentate possono essere gestite senza alcun sussidio. Anche la Regione Piemonte dovrebbe lasciar fare al mercato, integrando a valle l’offerta con servizi ritenuti socialmente desiderabili. Su molti collegamenti poi sarebbe opportuno valutare l’alternativa del servizio su gomma.
L’appassionato commento di Anna Gerometta (del Comitato mamme antismog) merita una risposta e qualche chiarimento. Procediamo per punti.
1) Le misure di particolato e di PM10 possono essere in larga misura sovrapposte come è stato fatto nel grafico a cura di ARPA utilizzato nel nostro articolo criticato da Gerometta. Il PM10 rappresenta infatti la quota largamente maggioritaria del particolato, intorno all’85%. L’evoluzione nel medio periodo della concentrazione di questo inquinante risulta quindi essere assai positiva. C’è poi un problema che vale la pena chiarire usando l’aritmetica. Se – come dice Gerometta – il PM2,5 è a sua volta l’80% del PM10 e il PM1 è il 90% del PM2,5, ne segue che il PM1 è il 72% del PM10. Se prendiamo per buoni i dati dell’Arpa Lombardia circa il particolato totale a Milano, il PM10 trent’anni fa era circa 150μg/m3, mentre nel 2005 era circa un terzo (ma, come vedremo, oggi è anche meno). Ne segue che il PM1 era pari a circa 107 μg/m3 trent’anni fa, mentre oggi arriva a 36 μg/m3. Quindi, utilizzando le proporzioni menzionate da Gerometta, anche il PM1 è significativamente diminuito, a meno che trenta anni fa queste polveri sottilissime non fossero inferiori al 24% del PM10. Ma che oggi siano il 72% del PM10 e allora fossero meno del 24% appare del tutto implausibile.
2) Anche negli anni più recenti, contrariamente a quanto sostiene Gerometta, si registra una tendenza alla riduzione delle concentrazioni del PM10, come evidenziato nel seguente grafico (Fonte: Agenzia Mobilità Ambiente Territorio, Monitoraggio Ecopass Gennaio Settembre 2009)
3) Non è chiara l’affermazione di Gerometta secondo cui la qualità dell’aria è migliorata nel Nord Europa perché si è investito nella riduzione delle emissioni da traffico. E certamente non corrisponde alla realtà dei fatti se si intende dire che la qualità dell’aria è migliorata perché si è investito nel trasporto pubblico. Come evidenziato in un precedente intervento, l’evoluzione della domanda di mobilità e della ripartizione modale fra trasporto individuale e collettivo è sostanzialmente omogenea in tutta Europa. Non fanno eccezione i Paesi del Nord. Ad esempio, Svezia e Norvegia – paesi con livelli di concentrazione di PM10 tra i più bassi in Europa – presentano una ripartizione della domanda di mobilità del tutto simile a quella italiana: più precisamente, in Svezia la domanda soddisfatta dall’auto nel 2007 è risultata pari all’82,6%, in Norvegia all’87,7% (in Italia l’81,8%). Si noti che non è una questione di diversa densità della popolazione. L’Olanda (che ha una densità ancora più alta dell’Italia del nord) ha una ripartizione modale analoga a quella dell’Italia. Quanto alla ripartizione modale nelle aree urbane, la comparazione è difficile per la disomogeneità dei dati. Un’indicazione è quella che segue: a Milano gli spostamenti motorizzati interni alla città avvengono per il 50,2% con mezzi pubblici (compresa la metro), percentuale che scende al 32,3% per gli spostamenti in ingresso o uscita. A Stoccolma, gli spostamenti motorizzati interni alla città avvengono per il 64% con i mezzi pubblici. Anche in questo caso la percentuale scende (al 38,7%) per gli spostamenti all’interno dell’intera contea (compresi, quindi, quelli in entrata e uscita da Stoccolma). Guarda caso, nelle maggiori città norvegesi e in alcune svedesi, a partire dagli anni 90, è stata attuata proprio una politica basata sull’introduzione di sistemi di pedaggio e di potenziamento della rete stradale, analoga a quella delineata nel nostro intervento, mentre i sussidi al trasporto pubblico non sono certo aumentati.
4) Le condizioni relativamente peggiori dell’inquinamento atmosferico nel nord Italia non sono riconducibili ad emissioni più elevate ma a condizioni atmosferiche più sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti. In particolare, per quanto concerne il PM10 ed il PM2,5, secondo i dati forniti da ARPA Lombardia, le emissioni pro-capite nella Regione sono nettamente inferiori alla media europea. Il dato sulle emissioni non va peraltro confuso col dato che in aree più dense più persone respirano l’aria cattiva quando i livelli di concentrazione delle polveri sale oltre le soglie di allarme. Questo ha a che fare con il fatto che le concentrazioni sono un male pubblico, mentre il dato sulle emissioni pro-capite ha a che fare col contributo individuale medio alla produzione del suddetto male pubblico.
5) Quanto alla qualità delle misurazioni (messa in discussione da Gerometta), non essendo esperti del campo, rimandiamo al comunicato emesso in merito alcuni mesi fa da ARPA Lombardia.
6) Anche in materia di impatti sulla salute non siamo esperti. Ci pare utile, di nuovo, sottolineare che le conclusioni dello studio presentato all’Accademia Francese quanto ai rischi per la salute non sono molto dissimili da quelli contenuti in un precedente intervento pubblicato su lavoce.info (e che appariva molto preoccupato) e da quelli ottenuti dalla letteratura citata da Gerometta: il livello di rischio relativo attuale di contrarre un tumore al polmone è circa di 20:1 tra fumatori e non fumatori. I rischi correlati ai vari impatti sulla salute dell’inquinamento sono di 1,02-1,05:1. A ciò va aggiunto che il rischio relativo è diminuito (conseguenza necessaria, data la riduzione dell’inquinamento che abbiamo documentato) e che nelle città dove c’è più inquinamento si vive come se non più a lungo di dove ce n’è meno. Per esempio, nell’Italia del nord la speranza di vita è superiore a quella norvegese (identica per gli uomini e superiore di un anno per le donne) e se si raffrontano livelli di inquinamento e speranza di vita nelle diverse province italiane non c’è alcuna correlazione diretta. Il che non ci dice che l’inquinamento fa bene, ovviamente, ma solo che incide relativamente poco sulla speranza di vita.
7) In ogni caso, il nostro intervento non era finalizzato a dire che il livello di inquinamento nelle città italiane è giusto oppure è alto o è basso. Volevamo solo mostrare come (a) l’inquinamento urbano non sia aumentato (al contrario di quanto spesso si sente dire) e (b) non sia efficace combatterlo spendendo di più per il trasporto pubblico a parità di congestione. E quest’ultimo punto è tanto più vero se – come dice Gerometta – il traffico è responsabile del 60% delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici locali. Una politica di decongestionamento – lo ribadiamo – è più efficace nell’abbattere gli inquinanti rispetto a un generico aumento della spesa il per trasporto pubblico. È una questione di logica, non di opinione.
8) Infine, alla domanda su come sia possibile potenziare il trasporto pubblico di superficie, a parità di spesa, con una efficace politica di decongestionamento crediamo di aver già risposto nella replica al dott. Harari, cui rinviamo. Ci dispiace che Anna Gerometta l’abbia ignorata.
Scrive il dott. Harari nella sua replica al nostro articolo che il livello dell’inquinamento delle città del nostro Paese è inaccettabile e che per ridurlo sono indispensabili strategie ambientali su macro-regioni. Non si precisa quali dovrebbero essere tali strategie.
La nostra modesta cultura sanitaria non ci permette di esprimere una valutazione informata dell’impatto sulla salute dell’inquinamento atmosferico. Ci pare però utile presentare ai lettori qualche altro parere, perché possano formarsi un’opinione e, se ne hanno voglia, decidere di approfondire la questione. Ecco dunque quanto scriveva qualche anno fa l’Accademia Francese delle Scienze (1): Vi sono numerose incertezze in merito alla rilevanza degli effetti a corto e a lungo termine. Tali incertezze sono legate alla piccolezza del rischio (corsivo nostro). È relativamente facile misurare un rischio relativo superiore a 5, come accadeva trentanni fa. Negli anni Ottanta dello scorso secolo ci si è occupati di rischi dell’ordine di grandezza da 1,5 a 2 e già questo risultava molto più difficile poiché i fattori di confusione introducono rilevanti elementi di imprecisione. Ma, oggi, i rischi relativi sono compresi fra 1,02 e 1,05; ci si viene quindi a trovare in una situazione assai complessa in quanto i risultati sono largamente influenzati dal tipo di metodologia utilizzata: la correzione dei fattori di confusione, i modelli matematici che sono indispensabili per l’analisi determinano infatti livelli di incertezza assai rilevanti… Se si paragonano le diverse Regioni della Francia si può riscontrare una forte correlazione fra la mortalità prematura e il consumo di alcol e di tabacco mentre non è possibile rilevare alcun impatto delle diverse forme di inquinamento sulla speranza di vita o sulla frequenza dei casi di cancro sia a scala nazionale che regionale. In particolare, in Francia, non si registra alcuna correlazione fra l’evoluzione della speranza di vita e l’inquinamento atmosferico; la speranza di vita più elevata dell’intero Paese è quella che si registra nell’Île de France ossia nella regione più densamente popolata e che fa registrare i livelli di traffico più elevati. Si può inoltre rilevare come le due regioni nelle quali la speranza di vita si è maggiormente accresciuta nel corso degli ultimi decenni sono la regione di Parigi e la Provenza Costa Azzurra. Tali elementi non consentono di escludere che esista un qualche impatto dell’inquinamento sulla salute ma suggeriscono che non si tratta di fattori che hanno un peso maggioritario. Analoghe considerazioni, aggiungiamo noi, possono essere presumibilmente svolte con riferimento all’Italia.
Un impatto, dunque, da non sottovalutare ma neppure da sovrastimare. Come ha fatto notare nel suo commento il dott. Galavotti (AUSL Modena) il rischio della sovrastima è che: una spasmodica attenzione verso l’inquinamento collettivo riduca l’attenzione dei cittadini sul più grave e rimediabile dei fattori di rischio sanitario: il comportamento individuale. Al riguardo si segnalano anche le parole di Umberto Veronesi (2): un atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori. Infatti, secondo il parere del dott. Aldo De Togni (AUSL Ferrara): una persona che respira per un anno lo smog di una città molto inquinata come Los Angeles inala la stessa quantità di inquinanti combusti che un fumatore introduce col fumo di 40 sigarette. L’inquinamento atmosferico, nel peggiore dei casi, sarebbe dunque paragonabile al fumo di una sigaretta ogni nove giorni.
Impatto sulla salute a parte, vale la pena di precisare che il nostro intervento mirava a smentire con i numeri la tesi secondo cui l’inquinamento nelle città italiane starebbe continuamente peggiorando. Non abbiamo detto – né avremmo avuto gli strumenti per farlo – che il livello attuale del particolato o di altri inquinanti nelle città italiane è alto, basso o accettabile e neppure abbiamo nascosto che le città italiane si trovano in coda alla lista nella graduatoria delle città europee per rispetto dei limiti comunitari in materia di emissioni di particolato. Volevamo e vogliamo richiamare la differenza tra livelli e dinamica, nonché tra livelli assoluti e relativi. Ignorando queste differenze, a nostro avviso, si fa solo confusione. E dalla confusione non nascono buone politiche. In ogni caso, eventuali ulteriori politiche di riduzione dell’inquinamento atmosferico dovrebbero essere valutate alla luce di un’attenta analisi dei costi e dei benefici.
Come evidenziato nell’articolo, le politiche di riequilibrio modale indotto dal potenziamento dell’offerta di trasporti collettivi (a spese dei comuni) non sembrano superare questo test: avrebbero elevati costi per i contribuenti e benefici molto modesti, se paragonati a quelli conseguiti grazie alla innovazione tecnologica. L’offerta non crea la sua domanda! L’introduzione di un pedaggio, abbinata al potenziamento della rete stradale (specie sotterranea) il cui obiettivo prioritario sarebbe la riduzione dei costi di congestione che risultano essere assai più elevati di quelli correlati all’inquinamento avrebbe come beneficio ancillare la riduzione delle emissioni nelle città, perché contribuirebbe alla riduzione della circolazione di autoveicoli. Il potenziamento del trasporto collettivo, in questo caso, verrebbe trainato dalla maggior domanda (di coloro che usano meno l’auto privata) e dalla maggior velocità di circolazione nelle aree sottoposte a pedaggio. I costi sarebbero molto più bassi. Infatti, per potenziare il servizio a congestione invariata (come nello scenario riequilibrio modale) sarebbero necessari più autisti, più mezzi, più spese di manutenzione e più carburante; nello scenario pedaggio, viceversa, sarebbe in buona misura possibile potenziare il servizio spendendo in più solo per il carburante e per le manutenzioni, a parità di ore lavorate, di autisti impiegati e di parco autobus. Considerando quanto incide il costo del lavoro sui costi totali di gestione e quanto pesano i mezzi sulla spesa per investimenti…
(1) Académie des Sciences – Cadas, (1999), Pollution atmosphérique due aux transports et santé publique, Rapport commun n. 12, Paris, p. 177
(2) L’Unità, 13 aprile 2002
Non è vero che la qualità dell’aria in Italia è peggiorata. Sono i vincoli dell’Unione Europea a essere divenuti più rigidi e molte città italiane faticano a rispettarli. Si è invece aggravato il problema della congestione stradale nelle grandi aree metropolitane. Ma per risolvere questo problema la strategia più adeguata non è il potenziamento dei trasporti collettivi. Sarebbe preferibile introdurre sistemi di pagamento per la circolazione nelle aree urbane.
Il trasporto collettivo risulta competitivo rispetto a quello individuale solo per gli spostamenti diretti verso le zone centrali delle maggiori aree urbane. Ha senso allora investire ingenti risorse pubbliche per convincere un ristretto numero di automobilisti a salire sui mezzi pubblici? Forse sarebbe preferibile realizzare infrastrutture stradali sotterranee a pedaggio. Una soluzione più sostenibile in termini di finanza pubblica, vantaggiosa anche per l’ambiente.
Per ridurre traffico e inquinamento, amministrazioni e cittadini puntano sui grandi investimenti in infrastrutture di trasporto collettivo. Tanto che anche una piccola città come Aosta pensa di costruire una metropolitana. Ma le grandi opere urbane realizzate di recente o in fase di progetto hanno ricadute piuttosto modeste sulla domanda complessiva di mobilità e sulla ripartizione modale fra trasporto individuale e collettivo. Anche perché al momento della decisione si tendono a sottostimare i costi e a sovrastimare la domanda.
La scorsa settimana il Governo ha deciso di spostare la sede del G8 di giugno dallisola della Maddalena allAquila. Il Presidente del Consiglio ha motivato la sua scelta con il fatto che il trasferimento permetterà di risparmiare soldi, che potranno essere usati per la ricostruzione delle aree terremotate. Tale spiegazione desta qualche perplessità. Abbiamo chiesto i dati sui costi del G8 alla protezione civile, ma dopo ripetute insistenze abbiamo ricevuto soltanto le due tabelle allegate. Speriamo che nei prossimi giorni vogliano darci informazioni adeguate per una valutazione dei costi della riunione e del suo spostamento a l’Aquila. Per il momento è comunque possibile svolgere le seguenti considerazioni. Ipotizziamo, per assurdo, che fino ad oggi in Sardegna non sia ancora stato speso un euro. Perché la scelta dellAquila dovrebbe consentire risparmi di risorse? Nel capoluogo abruzzese ci sono esigenze edilizie e/o logistiche più limitate rispetto alla Sardegna? Ma, va da sé, mancando meno di due mesi allevento, una parte significativa dei lavori previsti in Sardegna è già stata avviata. Berlusconi ha assicurato che tutte le opere in cantiere saranno concluse. Quindi, perché vi siano dei risparmi, è necessario che allAquila si spenda meno della differenza fra quanto previsto inizialmente per la Maddalena e lammontare delle risorse da destinare alle opere già in fase di realizzazione. Ipotizzando, prudenzialmente, che sia in corso di esecuzione il 40% degli interventi previsti, rimarrebbe a disposizione il restante 60%. Poiché, come si può evincere anche dalle disposizioni contenute nel decreto approvato dal Governo il 23 aprile, i lavori che saranno effettuati in Abruzzo comporteranno un maggiore esborso a causa dellurgenza, e supponendo di utilizzare tutte le risorse stanziate per la Sardegna, si potranno realizzare meno della metà delle opere inizialmente previste. Ma perché vi possano essere degli effettivi risparmi, gli interventi che verranno attuati dovranno essere ancor più essenziali. Quindi, delle due luna: o i risparmi non ci saranno oppure la cifra inizialmente stanziata era in buona parte ingiustificata. Si può da ultimo sottolineare che, se lobiettivo principale era quello del contenimento dei costi, la strategia più efficace sarebbe stata quella di tagliare una parte delle opere superflue previste in Sardegna e non ancora completate. Quella dei risparmi è forse una motivazione di copertura per altre, più sostanziose, questioni: per esempio ragioni di sicurezza che il Governo non vuol lasciar trapelare? O semplice desiderio di spettacolarizzare ancora di più il dramma dellAbruzzo?