Grazie ai lettori per gli utili commenti che mi permettono anche di meglio specificare la mia proposta.
Prima, però, alcune considerazioni generali e la manifestazione di risoluto dissenso su alcuni dei temi sollevati.
Come segnalavo nel mio articolo, le tentazioni forcaiole soddisferanno forse qualche desiderio di sangue, ma non risolvono nessun problema, anzi ne creano di più.
Giusta una riduzione dei finanziamenti e una puntuale commisurazione a ciò che realmente si è speso, ma pensare di abolire il finanziamento pubblico in queste condizioni significa di fatto regalare i partiti ad occulti condizionamenti della finanza privata , peggiori di quelli che già ci sono.
E importante, naturalmente, una disciplina che definisca tetti massimi e presidi di assoluta trasparenza dei contributi privati, ma pensare che questi possano essere del tutto sostitutivi delle risorse pubbliche è pura ipocrisia (ed infatti in tutti i paesi europei questo assunto non viene messo in discussione).
Così come è pura ipocrisia pensare che se si riducono i finanziamenti non siano più necessari i controlli. Ribadisco che gli ultimi scandali derivano dal fatto che nessuno si è preso la briga di verificare come i soldi erano spesi, dimostrando che un buon apparato di controllo non fa certo miracoli, ma può servire.
Continuo ad avere perplessità sulla attribuzione di un ruolo in tal senso alla Corte dei conti, poichè siamo in presenza non di soggetti pubblici, ma pur sempre di associazioni private.
Per questo laffidamento delle risorse ad un gestore esterno può rappresentare una soluzione più equilibrata. E chiaro poi che non spetta al gestore decidere sulle spese, dovendo agire in base alle richieste del partito ,ma sicuramente quelle spese avranno chiara tracciabilità con una evidente distanza tra la fase decisoria e quella di erogazione.
Questa soluzione introduce alcuni elementi di rigidità e non rappresenta certo la panacea per tutti i mali, ma quantomeno rende più spessa la barriera tra la politica e la finanza.
Concordo pienamente con chi richiama la necessità di collegare il finanziamento pubblico ad una maggiore democraticità dei partiti, ma qui non ho niente da aggiungere perché i tanti progetti di legge presentati in Parlamento contengono già molte proposte. Si tratta adesso soltanto di attuarle.
Infine utilissime tutte le indicazioni per accentrare e semplificare tutte le forniture di beni e servizi ai partiti; oltre che per controllare servirebbero anche per risparmiare.
Autore: Francesco Vella Pagina 8 di 15
Francesco Vella insegna Diritto Commerciale e Diritto Bancario all’Università di Bologna. Nella sua attività di ricerca ha prodotto quattro manuali (tutti editi dal Mulino), quattro monografie e numerose pubblicazioni in volumi collettanei e riviste in materia bancaria, finanziaria e societaria. Ha ricoperto e ricopre incarichi in organismi di controllo e di amministrazione, come amministratore indipendente, in società quotate. E’ tra i soci fondatori dell’Associazione Disiano Preite. È membro della redazione della voce.info.
Sull’onda degli ultimi scandali, si torna a parlare di riforma del finanziamento pubblico ai partiti. Tutte le proposte finora presentate in Parlamento cercano di ridurre i flussi di finanziamento e di commisurarli a quello che realmente si è speso. Ma forse sarebbe meglio recidere il legame tra partito e finanza, affidando a un soggetto terzo la gestione dei fondi. Comporterebbe una riduzione dell’autonomia dei partiti, ma renderebbe più indipendente e oggettiva la funzione di gestione finanziaria, introducendo un filtro più chiaro con la funzione di indirizzo politico.
Desideriamo ringraziare i lettori per l’interesse dimostrato nell’articolo e per i commenti inviati. Abbiamo cercato di riassumere i molti commenti in tre categorie. Tuttavia rimandiamo il lettore interessato al lavoro originale, che include una molteplicità di controlli di robustezza dei principali risultati dell’analisi che, per ovvi motivi di spazio, non hanno potuto essere discussi nel nostro intervento su LaVoce.info.
1) Grafico illustrante la correlazione negativa tra adozione di pc pro capite e grado di rigidità del mercato del lavoro. Innanzitutto ci preme sottolineare come il grafico riporti una correlazione e non necessariamente un rapporto di causa-effetto. In particolare, ci sembra utile notare due punti. A) L’evidenza che riportiamo costituisce una delle motivazioni/premesse del nostro lavoro, che trae spunto da una letteratura già abbastanza matura che riporta l’esistenza di robuste correlazioni negative tra rigidità del mercato del lavoro e tasso di adozione di nuove tecnologie, come ad esempio la spesa in ICT. Nel nostro working paper citiamo alcuni di questi lavori, e ad essi rimandiamo i lettori interessati. Lo scopo del nostro lavoro, lo ricordiamo, è quello di verificare se il grado di rigidità del mercato del lavoro influenzi la crescita nei settori ad alta intensità di capitale umano. B) La correlazione tra adozione di pc ed epl è statisticamente robusta, ed è stata ottenuta da una regressione nella quale abbiamo tenuto conto del diverso grado di sviluppo economico dei paesi (pil pro capite), del capitale umano medio della popolazione (anni medi di istruzione) e di ogni possibile variabile non osservata costante nel tempo (es: istituzioni, cultura imprenditoriale del paese, composizione settoriale, etc.) che influenza sia il tasso di adozione dei computer che il grado di rigidità del mercato del lavoro.
2) Specializzazione produttiva in settori maturi e altre determinanti della crescita: riteniamo che occorra favorire la specializzazione del paese verso settori più dinamici, tenuto conto del fatto che i settori maturi e tradizionali non garantiscono una crescita adeguata della produttività e sono anche maggiormente esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo: per fare questo occorre, tra le altre cose, favorire la mobilità dei lavoratori, fornendo loro, nello stesso tempo, una rete adeguata di protezione, sia in termini di sostegno temporaneo del reddito che di formazione continua. Infine siamo d’accordo con chi ha sostenuto che al fine di accrescere lo sviluppo dei settori più dinamici sia imprescindibile accrescere il livello medio di istruzione della popolazione: infatti, nel nostro working paper, in linea con risultati già consolidati in letteratura, teniamo conto adeguatamente di questo effetto ma mostriamo anche come possa essere altrettanto importante accrescere la mobilità del lavoro di cui abbiamo parlato sopra. Abbiamo inoltre controllato per tutta una serie di variabili a livello di paese che potrebbero spiegare l’espansione dei settori ad alta intensità di capitale umano, tra cui gli investimenti in capitale fisico, gli investimenti in ricerca e sviluppo, il capitale umano medio della forza lavoro e la sua crescita nel periodo, la forza sindacale, il reddito pro capite, lo sviluppo finanziario (fondamentale per favorire il finanziamento dei settori più innovativi), la qualità del sistema giudiziario.
3) Forme contrattuali precarie e regimi di protezione dell’impiego: il fatto che in Italia, ancora più che in altri paesi, la maggior parte delle nuove assunzioni siano a tempo determinato, co.co.co., etc., e caratterizzate da bassi salari, potrebbe essere un effetto collaterale di una eccessiva regolamentazione di una parte del mercato del lavoro, che è quella catturata dal nostro indice di protezione dell’occupazione. Nel working paper (a cui rinviamo per una discussione più dettagliata) discutiamo la robustezza dei nostri risultati alla luce di queste considerazioni utilizzando diversi indici proposti in letteratura, sia OCSE che non-OCSE, con l’obiettivo di tener conto della presenza di lavoratori precari e della regolamentazione dei licenziamenti collettivi. In particolare, l’indice riportato in figura è derivato dall’indice OCSE ed è stato utilizzato in precedenti analisi empiriche a cui rimandiamo per approfondimenti. Vogliamo sottolineare come nessuno dei risultati principali dipenda dal particolare indice di regolamentazione del mercato del lavoro utilizzato.
Investire nella cultura, con strategie di lungo periodo, serve alla crescita. Non a caso ci aveva già pensato Franklin Delano Roosevelt ai tempi della grande depressione. Dopo la dissennata politica dei tagli orizzontali, con scarse risorse pubbliche a disposizione, si dovrà definire una governance indipendente, capace di garantire una buona selezione dei progetti, evitando di cadere nelle pressioni degli interessi corporativi, e capace di fare rete con tutti gli attori del settore. Compresi i privati, come le fondazioni bancarie, e i produttori di saperi, come le università.
Nellarticolo sulle agenzie di rating ho richiamato i problemi derivanti dalla rilevanza che i rating assumono nella regolamentazione. Si parla, infatti di outsorcing regolamentare per indicare la presenza di riferimenti alle classificazioni delle agenzie nelle stesse prescrizioni di vigilanza e nelle regole che si danno gli investitori. È evidente che questo fenomeno, se da un lato moltiplica alla potenza gli effetti di un miglioramento o di un peggioramento dei giudizi, dallaltro costituisce un elemento frenante nella capacità degli operatori di effettuare proprie e autonome valutazioni sui rapporti creditizi e nelle diverse tipologie d’investimento.
In questa scheda riporto due semplici esempi che danno la dimensione del fenomeno ed anche la direzione che occorrerà prendere per seguire le indicazioni del Financial stabilty board alle quali mi riferivo.
Secondo le disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, queste come è noto, possono avvalersi, al fine di ponderare i rischi, o di metodi elaborati al proprio interno, o di metodologie esterne utilizzando la valutazione del merito di credito delle Ecai e cioè le Esternal credit assesment institution, agenzie di valutazione riconosciute dalla Banca dItalia. Secondo le disposizioni di vigilanza una banca che decide di utilizzare le valutazioni di merito del credito per una certa classe di esposizione deve utilizzarle per tutte le esposizioni appartenenti a tale classe. Naturalmente sono spesso le banche di più piccole dimensioni a utilizzare i metodi esterni, meno costosi rispetto alla costruzione di un modello interno, ma in questo modo proprio gli operatori più piccoli finiscono con il subire in misura maggiore le conseguenze dei mutamenti dei giudizi delle agenzie. E occorre considerare che le disposizioni di vigilanza trovano origine in un periodo dove nessuno poteva immaginare una così forte volatilità dei mercati.
Un altro esempio dei pericoli del rating, per un settore completamente diverso ma che ci dice della trasversalità del problema, riguarda i fondi pensione. Sul sito della Covip è stata appena pubblicata una comunicazione in risposta alla richiesta di alcuni fondi che nei propri regolamenti prevedono una politica d’investimento con un livello minimo di rating, e che adesso -visto quello che sta succedendo sui titoli pubblici- devono affrontare il dilemma o di violare i regolamenti o di procedere a massicce dismissioni. E lautorità di vigilanza, con un linguaggio diverso, giunge sostanzialmente alle mie stesse conclusioni, richiamando lopportunità di rivedere i vincoli contrattuali per evitare che un impiego automatico del rating possa comportare lesigenza di un immediato smobilizzo o impedire lacquisto di titoli ove intervenga il declassamento dellemittente. In altri termini anche per la Covip bisogna cominciare a pensare con la propria testa.
Da quattro anni, ogni volta che le agenzie di rating emettono i loro verdetti si scatena il putiferio, con il solito corredo di accuse su complotti politici e conflitti di interessi. Ma la disciplina delle agenzie di rating negli ultimi tempi ha fatto importanti passi avanti, che non devono essere sottovalutati. Quello che ancora manca è un processo che attenui il rilievo del rating nelle regole di vigilanza. E che soprattutto valorizzi l’autonomia di giudizio e il ricorso a una pluralità di fonti informative da parte di banche e investitori.
Ringrazio i lettori e in primo luogo offro una prima risposta collettiva: non esistono pasti gratis.
I commenti pervenuti rappresentano una efficace sintesi di tutti i problemi (e non sono pochi) tra i quali bisogna districarsi per realizzare una auspicabilmente efficiente sistema dei controlli societari.
Armando Guerra, ad esempio, richiama il rischio che ogni tentativo di snellimento sia bloccato sul nascere da chi è troppo appassionato di burocrazia, oppure più prosaicamente da chi vuole proteggere propri interessi corporativi: ha ragione, ma lo invito a leggere meglio larticolo, perché il mio sforzo non è affatto quello di annullare i benefici delle nuove norme, ma di evitare linutilità dei controlli, proponendo una suddivisone tra sindaco unico nelle realtà imprenditoriali minori e collegio in quelle maggiori, come suggerisce anche Giacomo Giuritano.
Nessuno nega che finora i controlli interni delle società abbiano messo in evidenza più di una criticità, se non proprio buchi neri, come quelli che richiama L. Scalzo, ma o li aboliamo, o cerchiamo di andare oltre gli anatemi individuando una strada per una equilibrata riforma. Il percorso da me indicato cerca di essere un contributo, per renderli semplici, indipendenti autonomi ed efficaci.
Un contributo discutibile finchè si vuole, ed anzi questo dibattito meriterà molti approfondimenti , ma che si fonda su due banalissimi presupposti, spesso dimenticati.
Il primo è che i controlli interni sono e continuano comunque ad essere utili e il secondo è che, se si condivide questo orientamento, bisogna anche accettare il fatto che costano.
Non è un caso che tutti i più recenti studi sulla governance societaria mettono in rilievo il loro ruolo centrale nella prevenzione e nel monitoraggio dei nuovi rischi emersi dopo la crisi finanziaria, ed anche i paesi anglosassoni, a proposito di quello che dice Ottavia, stanno rivedendo le loro posizioni sul sistema monistico che oggettivamente li indebolisce.
Infine, per quanto riguarda la domanda sugli stakeholder che controllano le relazioni dei collegi sindacali delle piccole imprese, sicuramente non sono molti, ma, a proposito di trasparenza, ve lo immaginate cosa sarebbero gli stessi bilanci senza nemmeno quelle tanto bistrattate relazioni?
La legge di stabilità ha modificato il sistema dei controlli interni delle società. Ora tutte le srl e le spa con ricavi o patrimonio netto inferiori a un milione di euro possono nominare un solo sindaco invece di un collegio sindacale. È sacrosanto liberare le imprese da oneri normativi che ne bloccano lo sviluppo. Ma un buon sistema di controllo significa aiutarne la maturazione verso assetti più efficienti e trasparenti. Proprio quello di cui le piccole e medie imprese avranno sempre più bisogno. Ed è illusorio fare affidamento sulle capacità di autocontrollo dei soci.
L’articolo 8 della manovra prevede la concessione di garanzie pubbliche per la raccolta delle banche. È una garanzia straordinaria perché limitata al tempo strettamente necessario. E con procedure di concessione che, come è giusto, garantiscono rapidità e riservatezza. Soprattutto, però, può essere un’occasione da non perdere per avviare le modifiche e le trasformazioni delle quali il nostro sistema bancario ha bisogno.
Ringrazio i lettori dei commenti e mi fa particolarmente piacere che provengano anche da chi ha diretta esperienza nel settore e da chi ha materialmente partecipato alla stesura della legge, a testimonianza dellimportanza di un tema che, come dicevo nell’articolo, meriterà senz’altro ulteriori riflessioni.