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Autore: Franco Bruni

bruni Franco Bruni è Vice Presidente ISPI e Co-Head dell’Osservatorio Europa e Governance Globale. È Senior Professor presso il Dipartimento di Economia dell’Università Bocconi dove è stato ordinario di Teoria e politica monetaria internazionale e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Università. Vice Presidente di UniCredit & Universities Foundation, è il membro italiano dello European Shadow Financial Regulatory Committee.

Ha studiato all’Università Bocconi e al Massachusetts Institute of Technology. E’ editorialista del quotidiano “La Stampa”. Autore di numerose pubblicazioni nei campi della macroeconomia, dell’economia europea, dell’economia bancaria e finanziaria, delle relazioni internazionali e dell’economia politica. È stato un membro del CdA di Saipem (1998-2005), Pirelli (2005-2014),Unicredit Banca Mobiliare (2000-2007), Pirelli (2005-2014), Mediaset (2015-2018).

È stato Visiting Professor presso numerose università internazionali, tra le quali NYU, Fudan (Shanghai), Getulio Vargas (San Paolo), UNSW (Sidney) e UBC (Vancouver). È stato inoltre Vice Presidente e Presidente di SUERF (Société Européenne de Recherches Financières: 1994-2000).

Politica monetaria: la replica di Franco Bruni

Ma ogni arma monetaria è a doppio taglio

Continuando ad abbassare i tassi e a comprare i titoli col Quantitative easing, la Bce cerca di alimentare la crescita, ma rischia di far danni da eccesso di liquidità. Draghi ha spiegato come mitigare due tipi di effetti collaterali. Ne trascura però altri, importanti.

RISPOSTA AI COMMENTI

Rispondo in particolare al commento al mio articolo da parte gi Giorgio Ragazzi, che scrive:


Temo che l’introduzione di regole per ristrutturare “ordinatamente” il debito pubblico sarebbe controproducente per almeno quattro motivi:
1) farebbe immediatamente salire il costo della raccolta per i paesi in difficoltà, portandoli così più rapidamente al default;
2) le conseguenti perdite per il sistema bancario del paese aumenterebbero ancor più la percezione del “rischio paese”;
3) verrebbe ridotto l’incentivo a risanare il bilancio pubblico (moral hazard);
4) non possono esservi ristrutturazioni “leggere”: per poter tornare a collocare titoli sul mercato dopo una ristrutturazione il debito pubblico dovrebbe essere ridotto attorno a valori molto bassi, ad esempio il 50-60% del Pil, e quindi gli effetti della ristrutturazione sull’economia ed il sistema bancario non potrebbero non essere disastrosi.
Non a caso regole di questo tipo non esistono in alcun paese al mondo. Quanto al sistema bancario, al di là delle regole comuni già esistenti, mi chiedo se sia realistico pensare di delegare ad un’autorità europea poteri specifici quali ad esempio limitare il finanziamento al settore immobiliare in Irlanda e Spagna (come sarebbe stato opportuno fare anni addietro) o vietare l’acquisto dell’Antonveneta da parte del Monte dei Paschi. A fronte di una così forte limitazione della sovranità nazionale, non si vede perché un’autorità europea dovrebbe svolgere questo compito meglio delle banche centrali nazionali. Se una banca va in crisi per suoi errori gestionali mi pare appropriato che a pagare sia lo stato la cui banca centrale non ha correttamente vigilato. Ben diverso il caso in cui la crisi della banca origini da difficoltà di raccolta dovute alla percezione di un “rischio paese”: se in questo caso l’Europa garantisse il salvataggio della banca sarebbe in sostanza una garanzia per il “rischio paese” simile a quella che potrebbe essere data per il debito pubblico del paese, che è proprio la politica cui strenuamente si oppongono la Germania ed altri paesi “virtuosi”.

Rispondo volentieri alle ragionevoli e ben note obiezioni a una procedura ufficiale per la ristrutturazione ordinata del debito pubblico. La Bce è stata la più sollecita nel sottolinearle. Ho volutamente sottoposto la mia idea per provocare dibattito. Nella sostanza l’idea corrisponde a quella che, a livello globale, il Fmi avanzò nel 2002 proponendo il Sovereign Debt Restructuring Mechanism (sul sito del Fmi sono ancora disponibili gli approfonditi documenti che accompagnarono la proposta), che fu poi bocciato per la pressione del governo Usa e delle grandi banche, convinte di poter gestir loro stesse, con privilegiata convenienza, le crisi di insolvenza per il quale il Fondo si proponeva invece come sede di una procedura “pubblica”, mirante a giustizia, prevedibilità e trasparenza. La stessa idea, di un default ufficiale, regolato e ordinato,  opportunamente preceduto da un obbligo di tentare il cosiddetto “Vienna approach”, era esplicita nella prima versione dell’European Stability Mechanism (ESM) approvata dal Consiglio Europeo nel 2011. Purtroppo nella versione attuale la cosa è molto meno chiara.

In riferimento ai punti specifici sollevati nel commento, osservo quanto segue.

Al punto 1): il costo della raccolta è salito comunque, di fronte all’evidenza constatata dai mercati; il default della Grecia c’è stato. Qualcuno accusa l’incontro di Deauville fra Merkel e Sarkozy, dove si ammise il principio del “coinvolgimento del settore privato”, un eufemismo per significare il default, di aver seminato il panico. Ma i tassi greci, e non solo quelli, erano saliti ben prima! E a quelli italiani credo abbiano nuociuto molto più le pasticciate convulsioni dei provvedimenti e delle dichiarazioni di Tremonti e Berlusconi che non Deauville. Al mercato suona ancor oggi non credibile, ai limiti della goffaggine, l’affermazione solenne dell’Ue secondo la quale la ristrutturazione “volontaria e privata” della Grecia rimarrà assoluta eccezione: sicché la procedura greca è ancora da concludere, in gran confusione, e basta un po’ di allarme portoghese, spagnolo o francese per trascinare anche l’Italia in un pericoloso aumento dello spread. Il panico si combatte con un fondo europeo capace di interventi consistenti sui contagi sistemici, non opponendosi ad approntare buone procedure per default ordinati e tempestivi.
Al punto 2): forse che le banche non soffrono oggi perdite “mark to market” e, ciononostante, sono chiamate a sottoscrivere ulteriori titoli dei (rispettivi!) governi proprio per evitare il loro default? Non è escludendo una procedura ufficiale per il default dei governi che si deve gestire l’impatto della crisi sulle banche: è piuttosto evitando di “obbligarle” a comprare titoli di Stato e assicurando buone procedure di default anche per loro! Cioè che ogni banca dell’eurozona possa basare la propria credibilità sul suo bilancio e non sulla sua nazionalità e abbia a disposizione una ugual procedura per la propria ristrutturazione e/o salvataggio, dovunque operi, con alle spalle un fondo d’emergenza finanziato dai governi europei (lo stesso ESM, meglio dotato e organizzato?).
Al punto 3): quale maggior azzardo morale che assicurare che i governi non falliscono? Fra l’altro l’unico vero modo per dare credibilmente tale assicurazione – visto che la solidarietà comunitaria non arriverà mai a dare garanzia quantitativamente sufficiente – è obbligare la Bce a sostituirsi al debito dei governi in caso di loro insolvenza di fatto: ma questo significherebbe stravolgere la preziosa costituzione monetaria che l’Ue si è voluta dare. Ed è istruttivo che l’avversione della Bce alla procedura di default ufficiale abbia avuto come principale risultato il suo maggior coinvolgimento, contro voglia, nel supporto dei governi e delle banche che acquistano i loro titoli.
Al punto 4): non vedo perché si debba arrivare al 50-60% del Pil: con un deficit in ordine e riforme strutturali in corso sul serio, si può tornare al mercato con % più alte, quali quelle che hanno oggi i maggiori debitori internazionali.

PERCHÉ L’EURO RIMANGA

La sopravvivenza dell’euro è davvero condizionata alla realizzazione di un’unificazione politica, probabilmente prematura? Se l’unione politica stenta, non è detto che spezzare l’unità monetaria accresca il benessere dell’area. I problemi di competitività di alcuni paesi hanno cause che non dipendono dal cambio. Essenziale è invece l’unione della finanza e delle sue regole. E il sistema finanziario europeo dovrebbe essere meno banco-centrico. Mentre servirebbe una procedura comunitaria ufficiale per gestire eventuali ristrutturazioni ordinate dei debiti pubblici.

Ma il deficit resta eccessivo

I giudizi europei rimangono severi sui programmi di rientro dei paesi con deficit eccessivo. Soprattutto per l’Italia. La Commissione calcola che nei prossimi tre anni dovremo varare misure aggiuntive permanenti di riduzione del deficit pari almeno all’1,5 per cento del Pil. Senza contare le correzioni all’Irap e l’aumento degli oneri finanziari dovuto alla risalita dei tassi di interesse. Ma proprio il Patto di stabilità potrebbe aiutarci a vincere le resistenze all’aggiustamento di gruppi politici e di pressione, come sta cercando di fare la Germania.

E se i tassi fossero troppo bassi?

Il costo del denaro non influenza solo l’intensità ciclica della domanda aggregata, ma determina la qualità degli investimenti e delle forme di risparmio. I bassi tassi attuali potrebbero perciò essere un sostegno artificiale a una crescita qualitativamente insufficiente, mentre l’Europa, e l’Italia in particolare, necessita di incentivi a investire capitale di rischio in progetti innovativi ad alta profittabilità attesa. Senza contare che anche per il risparmiatore i tassi bassi hanno svantaggi e possono far danni.

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