A quattro anni dalla discussa riforma Gelmini, l’attenzione si concentra sugli effetti del nuovo sistema di reclutamento e valutazione dell’Anvur. Tre articoli sugli effetti attesi e inattesi della riforma.
Autore: Marino Regini
Marino Regini insegna Sociologia economica nell’Università Statale di Milano ed è stato visiting professor a Harvard, MIT, Johns Hopkins, Duke. E’ direttore del Centro interuniversitario UNIRES (Italian Centre for Research on Universities & Higher Education Systems). Tra i suoi volumi: European Universities and the Challenge of the Market (2011); Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa (2009); Uncertain Boundaries. The Social and Political Construction of European Economies (20062); Modelli di capitalismo (20032); Why Deregulate Labour Markets? (2000, con G. Esping-Andersen)
EFFETTI DELL’ABOLIZIONE DELLE FACOLTÀ
“Semplificazione” è una parola chiave del programma di riforme dell’attuale Governo. E, per quanto riguarda il funzionamento dell’università, tutti – dal ministro al Cun ai docenti che lanciano appelli in rete – chiedono di renderlo più semplice. Ma la semplificazione organizzativa era già uno degli obiettivi principali della riforma del 2010.
La riforma dell’università è stata approvata più di un anno fa. Ma la legge 240 prevede un complesso intreccio di norme, già approvate o ancora da approvare, che rendono impossibile per ora un qualsiasi giudizio sui suoi effetti. Servono almeno altri tre o quattro anni perché entri a pieno regime. E dunque per capire se, come e dove il disegno riformatore inciderà effettivamente sul funzionamento del sistema universitario. Una lunga attesa sia per chi ha accolto con favore la legge Gelmini sia per chi ne ha rilevato fin dall’inizio alcune evidenti problematicità.
Il dibattito sul valore legale della laurea si focalizza su un falso problema: in tutti i paesi vi sono forme di garanzia della qualità dei titoli di studio. Il vero nodo da affrontare è quello della differenziazione istituzionale, seguendo esempi del mondo anglosassone e dell’Europa continentale. Si potrebbe consentire a un gruppo ristretto di università, valutate in modo trasparente di alta qualità, di poter scegliere gli studenti. Una strategia che richiede finanziamenti per garantire ai bisognosi ma meritevoli la possibilità di iscriversi ai corsi di laurea selettivi.
La riforma degli ordinamenti didattici per l’università voluta dal ministro Moratti perpetua gli errori del precedente governo. Resta intatto il disegno tecnocratico e razional-sinottico. Così come rimane la complessità e inutilità dei troppi adempimenti burocratici. Cambiano solo alcune regole che non riescono però a permettere una valutazione dei corsi di studio basata sull’analisi delle reali capacità di offrire contenuti formativi. Né garantiscono un sistema dei crediti trasparente e capace di incentivare la mobilità degli studenti.
Alla maggiore autonomia concessa agli atenei non è corrisposto un adeguato rafforzamento delle competenze e delle capacità di indirizzo del centro del sistema. Se rimane immutato lattuale meccanismo di autogoverno delle università, basato sulla rappresentanza democratico-corporativa, intervenire su vincoli e incentivi non è sufficiente per ottenere una vera riforma. È necessario invece mettere in discussione gli assetti istituzionali, come dimostra anche lesperienza di altri paesi europei.