Alla maggiore autonomia concessa agli atenei non è corrisposto un adeguato rafforzamento delle competenze e delle capacità di indirizzo del centro del sistema. Se rimane immutato l’attuale meccanismo di autogoverno delle università, basato sulla rappresentanza democratico-corporativa, intervenire su vincoli e incentivi non è sufficiente per ottenere una vera riforma. È necessario invece mettere in discussione gli assetti istituzionali, come dimostra anche l’esperienza di altri paesi europei.

Molte cose non vanno nel sistema universitario italiano. Eppure nell’ultimo quindicennio è stato sottoposto a numerosi interventi di riforma, che però hanno svolto la funzione di pannicelli caldi. Qualsiasi “altra” riforma si impantanerebbe quindi nei meandri delle routine consolidate.
Non basta cambiare il sistema dei vincoli e degli incentivi, bisogna avere il coraggio di mettere in discussione gli assetti istituzionali del sistema e delle università.

Un problema comune

In tutti i paesi occidentali, da vent’anni, è in atto un processo di riforme negli assetti istituzionali e/o istituzionalizzati del sistema di governo delle università e delle politiche di istruzione superiore.
L’obbiettivo primario è quello di rafforzare la rispondenza delle università alle esigenze sociali. Piaccia o non piaccia, è cambiato il significato socialmente attribuito all’università. Non è più solo comunità di docenti e studenti che perseguono l’eccellenza nella ricerca della conoscenza, ma anche qualcosa di diverso, come ci insegnano Clark Kerr e Burton Clark: l’università è “multiversity”, quindi è un’istituzione multi-obbiettivo che deve anche aumentare il capitale sociale medio, produrre servizi, creare imprese.
I governi, quindi, sono intervenuti per ristrutturare i meccanismi di funzionamento dei propri sistemi di istruzione superiore, attraverso una strategia che gli addetti ai lavori chiamano “steering at the distance” o dello “Stato supervisore”. Da un lato, il centro del sistema stabilisce regole chiare, alcuni obbiettivi strategici generali e pone in essere comportamenti certi e coerenti con queste regole e con questi obbiettivi. Dall’altro lato, le università sono libere di stabilire le proprie strategie di sviluppo sia per il contenuto delle proprie attività (autonomia sostantiva) sia per i mezzi (autonomia procedurale).
Per far funzionare una strategia di questo tipo c’è bisogno di un centro del sistema capace di fare bene il suo mestiere e di università attrezzate istituzionalmente a reagire in modo virtuoso. Questo tipo di strategia, infatti, necessita di un rafforzamento della leadership istituzionale nelle università, di una verticalizzazione dei meccanismi di coordinamento e di decisione interna agli atenei.

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Questo rafforzamento si è verificato di fatto nel sistema inglese e di diritto, attraverso una riforma della legislazione nazionale in paesi come l’Olanda (1997) e l’Austria (2002).
In Olanda, ad esempio, la politica autonomistica è iniziata con un decennio di anticipo rispetto all’Italia: dopo quindici anni di tentativi, si sono accorti che il sistema di incentivi e sanzioni, pur in presenza di un centro del sistema efficiente e fortemente orientato all’obbiettivo, non funzionava perché le università resistevano, preferivano pagare costi esterni piuttosto che mettere in discussione gli equilibri interni. A quel punto, il Governo ha messo mano a una trasformazione radicale degli assetti istituzionali delle università, introducendo un sistema di nomina a cascata delle cariche principali (consiglio di amministrazione, rettore, presidi) al posto del tradizionale modello, proprio dell’Europa continentale, basato sul processo elettorale dal basso. Un esempio importante e significativo.

Un centro debole e istituzioni autoreferenziali

La politica autonomistica avviata in Italia dal 1989 è stata incapace di assicurare un adeguato coordinamento sistemico. Alla concessione di autonomia alle università, infatti, non è corrisposto un adeguato rafforzamento delle competenze e delle capacità di indirizzo da parte del centro del sistema. Questo è rimasto praticamente immutato, se si esclude l’istituzione del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (già Osservatorio). Il ministero ha continuato a svolgere un’attività meramente burocratica, il Consiglio universitario nazionale ha continuato a rappresentare gli interessi delle corporazioni accademiche, la Conferenza dei rettori ha dimostrato un certa difficoltà nel mediare tra gli interessi e le ambizioni fortemente diversificate delle università che rappresenta.

Sull’altro versante, il forte ampliamento dei fini istituzionali delle università ha comportato una consistente e continua erosione dell’identità istituzionale, del senso di appartenenza.
La progressiva diversificazione degli interessi ha reso il tradizionale meccanismo di auto-governo delle università, basato sulla rappresentanza democratico-corporativa delle componenti interne, totalmente disfunzionale e inefficace se non addirittura dannoso per le stesse università. L’autogoverno corporativo può funzionare in sistemi elitari, non in sistemi di massa con obbiettivi potenzialmente assai differenziati.

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Il sistema attuale fotografa lo status quo dei rapporti interni tra discipline e corporazioni e lo rende tendenzialmente impermeabile alle pressioni esterne. È possibile pensare che, in un sistema di questo tipo, un senato accademico possa selezionare in modo rigoroso i corsi di studio da offrire? È possibile che in università governate in questo modo possano attuare strategie di reclutamento basate su progetti di sviluppo istituzionale e non sulla logica dei rapporti di forza interni? Difficile anche solo immaginarlo.

Discutere di governance

In questo contesto, aspettarsi effetti salvifici dall’abolizione dei concorsi ovvero dalla trasformazione dei meccanismi di finanziamento (introducendo una forte quota basata sulla qualità della ricerca prodotta) rischia di apparire ingenuo. Intendiamoci: sono d’accordo con interventi di questo tipo. Ma se non si cambiano gli assetti istituzionali delle università e non si ridisegna il centro del sistema, dotandolo delle competenze necessarie, gli effetti di simili provvedimenti sarebbero oltremodo perversi.
La logica corporativa-distributiva e autoreferenziale che caratterizza il funzionamento delle istituzioni universitarie verrebbe appena scalfita da un sistema di finanziamento all’inglese, che comunque non potrebbe essere attuato da un “centro” del sistema universitario come quello attuale.

Curiosamente, nel paese del perenne dibattito sulle riforme istituzionali, il problema della governance universitaria è decisamente desueto. Forse, bisognerebbe cominciare a parlarne seriamente, con proposte coraggiose e radicali.

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