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Autore: Giovanni Valotti

Nato il 18 agosto 1962. Laureato in Economia e commercio presso l'Università di Brescia. Attualmente è Professore ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche presso il Dipartimento PAM dell’Universita’ Bocconi

La riforma della Pa in tre mosse

La riforma della Pa annunciata dal Governo si basa su tre pilastri: focus sulle persone, riorganizzazione, trasparenza e semplificazione. Dalla revisione delle modalità di selezione del personale al superamento del meccanismo di autovalutazione, ecco dove non si deve sbagliare.

I DIRIGENTI PUBBLICI E L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ONESTO

Il ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, in una recente lettera al Corriere della Sera, ha rimesso al centro del dibattito il tema della dirigenza pubblica. Le misure sulla dirigenza, infatti, costituiranno uno degli assi portanti del disegno di legge delega per l’aggiornamento della riforma della pubblica amministrazione a suo tempo promossa a partire dal Dlgs. 150/09.

LA CENTRALITÀ DEL DIRIGENTE

Tra le linee di intervento evidenziate dal ministro, emerge il richiamo ad una maggiore indipendenza della dirigenza pubblica dalla politica. La concreta attuazione di questo principio dovrebbe trovare riscontro, sempre nella visione del ministro, in una maggiore trasparenza e qualità nella scelta dei dirigenti, in una più precisa e prevalente responsabilizzazione degli stessi sui risultati delle strutture gestite, in una riforma dei sistemi di reclutamento e selezione che allineino il nostro paese alle migliori esperienze maturate nel contesto internazionale.
Questa decisa presa di posizione ci sembra del tutto condivisibile e richiama il tema, della qualità e della legittimazione della classe dirigente quale condizione fondamentale per il buon funzionamento e lo sviluppo delle amministrazioni pubbliche.
Competenza
, senso di responsabilità, impegno e rigore etico rappresentano infatti i requisiti fondamentali di qualunque dirigente e in particolare di un dirigente chiamato a esercitare le proprie funzioni per il perseguimento dell’interesse collettivo. Non da ultimo, il ruolo del dirigente, sia nel settore pubblico che in quello privato, è fortemente legato alla capacità di far crescere e motivare i propri collaboratori, perché proprio sul commitment e la qualità delle risorse umane impiegate si gioca il futuro di organizzazioni sempre più “competence based”. Su questo piano conta molto la credibilità del dirigente, ovvero l’essere ritenuto sia internamente all’amministrazione che dagli interlocutori esterni, persona di valore, dal punto di vista professionale e, non da ultimo, etico e comportamentale.

L’ONESTÀ DEL LEADER

A conferma di ciò, un recente studio sulla propensione allo sforzo dei dipendenti pubblici fa luce su quanto sia importante un comportamento virtuoso ed onesto per aumentare la produttività delle pubbliche amministrazioni.
Secondo uno studio americano, infatti, i dirigenti pubblici possono migliorare le performance dei propri collaboratori adottando, tipicamente, cinque tipi di comportamento: insistendo sulla necessità di raggiungere gli obiettivi stabiliti, prestando attenzione allo sviluppo delle competenze e delle relazioni con i propri collaboratori, incentivando la creatività e la generazione di nuove idee, valorizzando le diversità, promuovendo la parità di genere e avendo a cuore i tratti particolari del singolo individuo, richiamando, infine, l’esigenza di onestà e correttezza nello svolgere il proprio lavoro. (1)
Sulla base di questi idealtipi lo studio italiano ha esplorato quale di questi stili di comando fosse più adatto per aumentare la propensione a impegnarsi, e quindi la produttività dei dipendenti pubblici.
In particolare, a cinque differenti gruppi di dipendenti ministeriali (per un totale di 142 unità di analisi selezionate casualmente) è stato proposto di lavorare a un progetto che si differenziava solamente per lo stile di leadership del capo-progetto. Ogni gruppo è stato esposto a un diverso ‘stimolo’ (ossia a un diverso stile di leadership), ma in tutti i casi i ricercatori hanno preventivamente chiesto ai dipendenti intervistati quale fosse la loro normale propensione allo sforzo sul luogo di lavoro. Successivamente, i ricercatori hanno chiesto di quanto gli stessi dipendenti avrebbero aumentato (o diminuito) il proprio sforzo sul lavoro aderendo al progetto proposto da un certo tipo di leader. I risultati finali dell’esperimento sono riassunti nella tabella successiva.

Come si può notare lo stile di leadership che comparativamente risulta essere più efficace per aumentare la propensione allo sforzo è quello ‘orientato all’integrità’. I dipendenti pubblici sono maggiormente motivati se riconoscono l’onestà e l’integrità di un leader e se sono invitati a rispettare le regole non solo procedurali ma anche e soprattutto comportamentali. Una conclusione che va oltre il tema dell’etica dell’amministrare strettamente intesa, ma che richiama in ogni caso anche le responsabilità dei dirigenti nel contrastare i fenomeni di illegalità nella pubblica amministrazione  e prevenire le conseguenze negative che i comportamenti e le pratiche illegali provocano: delegittimazione della politica, perdita di fiducia nelle istituzioni, aumento dei costi a carico dei cittadini.
I risultati dello studio confermano più in generale, in sintonia con le prospettive della nuova riforma del settore pubblico delineate dal ministro, il rilievo del tema della qualità della classe dirigente del Paese. In assenza di vertici delle amministrazioni che possano realmente rappresentare un modello di ruolo, per valori, impegno e competenza, è difficile pensare che l’ingegneria organizzativa e gli strumenti di management possano, da soli, cambiare davvero lo stato delle cose. Una dirigenza credibile e integra, infatti, non può che risultare da logiche efficaci, trasparenti e meritocratiche di gestione del personale. Molto si può fare, ad esempio, sul sistema dei concorsi. È impensabile che la selezione di una nuova classe dirigente possa derivare da modalità obsolete di accertamento delle conoscenze, tipicamente attraverso prove di esame scritte di natura nozionistica, combinate con altrettanto anacronistici formalismi che accompagnano le prove orali. L’imparzialità, il riconoscimento del merito e delle competenze, sono valori guida di tutti i processi di selezione delle organizzazioni eccellenti e non sono in discussione. Ma l’efficacia dei processi di selezione, in queste organizzazioni, è collegata alla ricerca del profilo che per caratteristiche, attitudini e motivazione, meglio si adatta a ricoprire la posizione vacante, ovviamente descritta ex-ante nei contenuti e nei risultati attesi. Abbandonare i formalismi per salvaguardare un’imparzialità di sostanza, fondata su metodi evoluti di selezione e affidata a specialisti della selezione, rappresenta quindi una priorità non ulteriormente procrastinabile.
Non meno importanti sono, peraltro, le modalità per l’assegnazione degli incarichi. Troppo si è scritto e troppo si è fatto in tema di “politicizzazione” delle nomine e delle carriere all’interno del settore pubblico. Anche su questo piano una svolta radicale è necessaria: sistemi più trasparenti di pubblicizzazione degli incarichi da affidare, esplicitazione a priori dei requisiti necessari per ricoprire gli stessi, pubblicizzazione dei curricula dei candidati, definizione di criteri trasparenti di scelta, nomina di advisor indipendenti, rendicontazione via web delle fasi e dei risultati del processo, sono solo alcuni degli interventi possibili.
Infine, cruciale è il sistema di valutazione e rewarding dell’alta dirigenza. Oggi i dirigenti vengono di regola valutati su obiettivi individuali e comportamenti organizzativi. Nella maggior parte dei casi raggiungono tutti gli obiettivi e si comportano molto bene. Peccato che non sempre le organizzazioni che dirigono producano altrettanti brillanti risultati. È fondamentale allora una misurazione seria della performance organizzativa, degli output e degli outcome delle amministrazioni pubbliche. Sulla base di questa, quindi, sarà finalmente possibile valutare le capacità dei dirigenti “in azione”, per quanto gli stessi sono davvero capaci di migliorare l’efficacia e l’efficienza degli ambiti che dirigono, e non solo “sulla carta”, ovvero per quanto diligentemente adempiono ai propri doveri. A tutto questo, ovviamente, dovrebbero collegarsi i premi monetari, oggi spesso distribuiti “a pioggia” o, nella migliore delle ipotesi, sulla base del mantenimento della normale operatività.
Del resto i risultati della ricerca che sottolineano l’inefficacia di altri stili di comando (come ad esempio quelli che insistono sulla necessità di raggiungimento degli obiettivi o quelli che sostengono la creatività degli individui) confermano un forte ritardo culturale nell’introduzione di logiche che premiano l’innovazione e l’ottenimento di risultati finali nelle amministrazioni centrali: il relativo ‘disinteresse’ dei dirigenti censiti verso il risultato del proprio lavoro o verso la creazione di nuove modalità di risoluzione dei problemi, conferma l’ipotesi di una classe dirigente che fatica ad evolvere da logiche di responsabilità formale e tende a perpetuare le prassi e le tradizioni consolidate.
La trasformazione dei burocrati in manager sembra ancora lontana, così come la possibilità di mettere le migliori energie e competenze professionali presenti nel settore pubblico davvero al servizio della creazione di valore per i cittadini.

(1) Fernandez, Cho, Perry (2010)

ASPETTANDO IL DIRIGENTE DELL’AVVENIRE

Seppure con lentezza, procede la trasformazione del burocrate in manager avviata dalle riforme degli anni Novanta. Il rischio è che arrivi troppo tardi. L’evoluzione della pubblica amministrazione richiede infatti al futuro dirigente pubblico l’assunzione di nuovi ruoli e responsabilità. Serve dunque un rinnovamento della cultura e delle competenze professionali e la definizione di nuovi profili. Un processo che chiama in causa il sistema universitario. E la necessità di risvegliare l’interesse dei più giovani e qualificati verso le amministrazioni pubbliche.

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