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Autore: Giuseppe Pisauro Pagina 5 di 8

pisauro Si è laureato in Scienze Statistiche all'Università "La Sapienza" di Roma e ha proseguito gli studi di Economia presso la London School of Economics. Professore di Scienza delle Finanze presso l'Università "La Sapienza" di Roma (in precedenza ha insegnato all'Università di Campobasso, alla LUISS di Roma, alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e all'Università di Perugia). Si occupa prevalentemente di temi di finanza pubblica. Ha svolto attività di consulenza per istituzioni italiane e internazionali (IMF, Camera dei Deputati, Presidenza della Repubblica). Ha fatto parte della Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ministero del Tesoro) dal 1991 fino al suo scioglimento nel 2003. Dal luglio 2006 dirige la Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze. Redattore de lavoce.info.
È stato Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio dal 2014 al 2022.

QUALE RIFORMA PER IL PUBBLICO IMPIEGO

Sul pubblico impiego il governo indica una serie di innovazioni che è difficile non condividere. Quindici anni di insuccessi, tuttavia, spingono a essere cauti sulla possibilità di realizzarle. Perdura l’idea di applicare in modo uniforme gli stessi principi a tutta la pubblica amministrazione. E riemergono i progetti ad hoc di miglioramento della produttività. Mentre l’esperienza insegna che sarebbe preferibile un approccio graduale, iniziando a misurare e premiare la produttività delle strutture prima che quella dei singoli. Sulla base di indicatori ben definiti e trasparenti.

TUTTI PROMOSSI

Tra il 2000 e il 2006 l’occupazione pubblica è aumentata di 107 mila unità e le retribuzioni lorde pro-capite del 28,6 per cento. Si è ampliato il differenziale retributivo tra le qualifiche e modificata la composizione per qualifiche, con un massiccio spostamento del personale verso quelle più elevate. I meccanismi delle promozioni sono decisi dalla contrattazione integrativa. Bisogna invece adottare un modello che premia il merito e dà i giusti incentivi ai singoli, senza fingere che tutto sia governato da misurazioni di obiettivi e risultati mal definiti e mal valutati.

IL PESO DELLA MANOVRA*

Quantificare la dimensione di una manovra di finanza pubblica è un esercizio inevitabilmente opinabile. Ma il problema di quella appena varata è, semmai, nella sua qualità e nella sua capacità di tenuta. Per esempio, mancano all’appello le risorse per i nuovi contratti del pubblico impiego. La spesa pubblica non si allontana dal suo trend di crescita di lungo periodo: il 2 per l’anno in termini reali da un decennio. Solo la favorevole dinamica delle entrate ne ha consentito il finanziamento insieme alla ricostituzione dell’avanzo primario e alla sensibile riduzione del disavanzo.

Allegro, ma non troppo

I primi dati di consuntivo per il 2006 sono migliori del previsto, per l’economia ma soprattutto per i conti pubblici: il disavanzo è diminuito di 1,3 punti di PIL rispetto a settembre. Se le stime di crescita saranno confermate e l’incremento delle entrate si rivelerà strutturale, nel 2007 il disavanzo sarà intorno al 2 per cento e l’avanzo primario vicino al 3 per cento. Ma è sulla spesa che si gioca tutta la partita: solo una sua diminuzione può rendere compatibile discesa del debito e livelli non eccessivi della pressione fiscale. Meglio quindi astenersi da decisioni estemporanee prese nell’illusione che i conti siano ormai a posto.

La via burocratica alla produttività

Affinché il tavolo sulla riforma del pubblico impiego non sia un ennesimo esercizio di retorica, bisogna che il baricentro si sposti dai contratti e dalle regole del rapporto di lavoro individuale agli incentivi forniti alle amministrazioni, i cui dirigenti vanno dotati di poteri manageriali effettivi. L’esatto contrario del memorandum sottoscritto fra governo e sindacati. Nei prossimi cinque anni andranno in pensione circa 400mila persone. Da come e in quale percentuale verranno rimpiazzate dipende il futuro della nostra pubblica amministrazione.

Come sta andando la spesa pubblica?

Le notizie che arrivano dal fronte della spesa pubblica sono meno incoraggianti di quelle sul gettito delle imposte. Nel 2006 il rapporto tra spesa e Pil crescerà ancora. Si spende più del previsto soprattutto nelle aree collegate al funzionamento della macchina amministrativa e all’attività del settore pubblico come produttore e fornitore di servizi: il personale e i consumi intermedi, la sanità e le amministrazioni locali. La previsione tendenziale per il 2007 è ottimistica: una parte della manovra nella prossima Finanziaria dovrà servire a renderla realistica.

Una proposta di riforma istituzionale

L’’esito del referendum di giugno, che ha bocciato la riforma del centro-destra, non esclude la possibilità di revisioni della Costituzione, purché ampiamente condivise e di portata limitata. Sarebbe necessario intervenire sulle regole istituzionali del federalismo fiscale, introdotte dalla riforma del Titolo V del 2001, la cui applicazione si è rivelata eccessivamente complessa. In questa direzione, una proposta che ripensa la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, le modalità di finanziamento dei governi locali, il ruolo delle Province e corregge il bicameralismo perfetto.

Non ripetere il 2005

Il 2005 è stato un anno di record negativi per i conti pubblici. Non si deve quindi riproporre la stessa micidiale sequenza di revisioni delle previsioni che lo ha costellato. Va ricostituito l’avanzo primario. Farlo richiede innanzitutto capacità di governo. A partire dall’istituzione di un ministero dedicato a recuperare nel medio periodo almeno un punto di Pil di gettito. Dal lato della spesa, è fondamentale migliorare la capacità di controllo e monitoraggio dei flussi finanziari e delle caratteristiche reali dei programmi pubblici.

Cinque punti senza salti

La riduzione di cinque punti del cuneo contributivo sul costo del lavoro ha varie controindicazioni. Per superarle, si può ipotizzare una progressività per scaglioni del contributo: aliquota ridotta fino a una determinata soglia del salario, normale sull’altra parte. In termini di aliquota media, la riduzione contributiva sarebbe così decrescente in modo continuo al crescere del salario. Il costo della riforma sarebbe di 7,7 miliardi. Ma con effetti positivi sull’occupazione. E coinvolgendo gli autonomi, si andrebbe verso un sistema previdenziale più omogeneo.

Rapporto Disavanzo/Pil

Magari nel 2000 fossimo davvero arrivati a un rapporto indebitamento netto/Pil dello 0,8%! (è questo, e non 0,4%, il dato che si desume dalla nuova serie Istat pubblicata il 1° marzo). In realtà in quell’anno c’è stato l’incasso straordinario della vendita delle licenze Umts (13,8 miliardi di euro). Escludendo – come è corretto fare – tale voce, il rapporto nel 2000 è pari al 2%. L’anno successivo, nel 2001, è salito al 3,1%. Si tratta sempre un bell’incremento in un solo anno (1,1 punti), ma è molto inferiore a quello che si ricava dall’esame dei dati non corretti.
La serie completa è nella tabella.
Piuttosto, per giudicare le performance della politica di bilancio, è più utile concentrarsi sul saldo primario (che esclude la spesa per interessi, che non dipende dalle scelte del governo in carica e che come si vede dalla tabella è molto diminuita nell’ultimo decennio, grazie alla diminuzione dei tassi internazionali e all’euro). Il saldo primario è anche la variabile cruciale (insieme con il tasso di interesse e il tasso di crescita del Pil) per determinare la dinamica del rapporto tra stock del debito e Pil.

Tabella- Indicatori di finanza pubblica – Nuova serie Istat

  1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005
Indebitamento netto -9,1 -7,4 -7,0 -2,7 -2,8 -1,7 -2,0 -3,1 -2,9 -3,4 -3,4 -4,1
Interessi 11,4 11,6 11,5 9,3 7,9 6,6 6,3 6,3 5,5 5,1 4,7 4,6
Avanzo primario 2,3 4,2 4,6 6,6 5,1 4,9 4,3 3,2 2,7 1,7 1,3 0,5

Il saldo primario nella seconda metà degli anni ’90 è sempre oscillato tra il 4 e il 5 per cento del Pil (con la punta eccezionale del 1997, l’anno dell’eurotassa, quando ha toccato un massimo al 6,6 per cento). Nel 2000 era ancora al 4,3 per cento. A partire dal 2001 l’avanzo ha iniziato a contrarsi, a un ritmo compreso tra mezzo punto e un punto di Pil l’anno, che ne ha prodotto il sostanziale azzeramento nel 2005. Insomma, nel 2001 è iniziato il deterioramento dell’avanzo primario, ma negli anni successivi le cose sono andate sempre peggio.
A cosa è dovuto il peggioramento dell’avanzo primario? All’andamento della spesa corrente primaria (al netto degli interessi) e della pressione fiscale. (Non sono importanti la spesa in conto capitale e le entrate non fiscali, che in tutto il periodo oscillano entrambe tra il 3,5 e il 4,5 per cento del Pil, senza mostrare alcun trend significativo). Per entrambe il 2005 è un anno record: fa segnare per il periodo 1994-2005 il livello più elevato della spesa corrente e quello più basso delle entrate fiscali.
La spesa è ritornata nell’arco di un decennio allo stesso livello del 1993 (39,9 per cento nel 2005, 39,8 per cento nel 1993). La crescita si è concentrata nel periodo 2001-2005: rispetto al 2000 la quota della spesa corrente primaria è oggi più alta di 2,6 punti di Pil.
Il deterioramento delle entrate, trascurando il picco del 1997, è concentrato in tre anni, tra il 1999 e il 2002, quando la pressione fiscale è diminuita di 1,5 punti, fino al 40,8%. Gli anni successivi, con l’eccezione del 2003 contrassegnato da entrate straordinarie, hanno visto soltanto una stabilizzazione della tendenza, fino al 40,6% registrato nel 2005.

Tabella – Spesa pubblica e pressione fiscale (Nuova serie Istat)

  1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005
Spesa corrente 38,9 36,7 37,4 37,7 37,3 37,6 37,3 37,6 38,3 39,1 39,3 39,9
Pressione fiscale 40,8 41,2 41,6 43,7 42,3 42,4 41,6 41,3 40,8 41,4 40,7 40,6

Morale della favola? Senza avanzo primario il rapporto tra debito pubblico e Pil riprende a crescere. E infatti, dopo essere sceso tra il 1994 e il 2004 di 17,7 punti (da 121,5 a 103,8) il debito nel 2005 è, per la prima volta dopo dieci anni tornato a salire, con un aumento di 2,6 punti di Pil, toccando il valore di 106,4.

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