Lavoce.info

Autore: Desk Pagina 124 di 188

Il desk de lavoce.info è composto da ragazzi e ragazze che si occupano della gestione operativa del sito internet e dei social network e delle attività redazionali e di assistenza alla ricerca. Inoltre, sono curati dal desk il podcast e le rubriche del fact checking, de "La parola ai grafici" e de "La parola ai numeri".

MILLEPROROGHE, MILLEDEROGHE

Il decreto legge 248/2007, meglio noto come “decreto milleproroghe” è stato approvato nei giorni scorsi dalla Camera con l’accordo di maggioranza e opposizione. Dovrebbe essere ribattezzato “ millederoghe” perché contiene una serie di misure ad personam o a favore di specifiche lobby che, annegate in pagine di articoli e commi scritti in linguaggio ostico, non possono essere individuati che da pochi addetti ai lavori. Qui cerchiamo di segnalare alcune di queste disposizioni, ma chiediamo anche ai lettori delavoce.info di aiutarci a scavare nelle pieghe del decreto che sta per essere convertito in legge.

VERO O FALSO NELLA CAMPAGNA ELETTORALE 2008*

Ritorna la campagna elettorale e ritornano a imperversare i politici in ogni trasmissione televisiva sciorinando dati che sovente, come abbiamo visto due anni fa , non sempre corrispondono a realtà. Ritorniamo dunque con la nostra rubrica “Vero o falso” in cui verifichiamo la veridicità delle affermazioni dei maggiori leader politici. Ai lettori chiediamo di aiutarci a fare i cani da guardia, segnalandoci i passaggi “sospetti” delle trasmissioni tv. Scrivete una email al seguente indirizzo: verofalso@lavoce.info (oggetto:
Segnalazione), indicando la trasmissione, la data, il personaggio politico.

SANITA’

Il provvedimento cardine del governo Prodi è il Patto per la salute. Inserito nella finanziaria 2007, il Patto ha il merito di aver dato finanziariamente corpo ad un meccanismo di controllo della spesa sanitaria basato sulla certezza di risorse su un piano triennale, per responsabilizzare le Regioni in cambio di un sistema di controlli più serrati. In particolare, per le Regioni coinvolte dai piani di rientro, il Patto vede un penetrante controllo del governo su tutti gli atti di indirizzo e spesa.
Il Patto per la salute è divenuto, in tal modo, la piattaforma che ha permesso di realizzare un dialogo costante tra Governo e Regioni, anche attraverso positive prassi da Titolo V: gli incontri tra Ministro della salute e assessori regionali (e rispettivi tecnici) hanno tracciato un nuovo profilo di governo del settore, che ha portato al completamento dell’istruttoria il nuovo decreto sui LEA, cui manca la sola formalizzazione per acquisire efficacia.
Sul piano dei dossier normativi vanno segnalati la norma sull’intramoenia dell’agosto 2007, che pone sotto il controllo delle aziende sanitarie la libera attività intramuraria dei medici, consentendo maggiore certezza sui tempi per realizzare i luoghi dove effettuarla, sulla sua rendicontazione e quindi sull’equilibrio tra questa attività e quella istituzionale dei medici.

QUANDO SI VEDRANNO GLI EFFETTI

In forza del Patto per la salute l’andamento della spesa sanitaria pubblica nel 2007 è stata tenuta sotto controllo e nei prossimi anni si stabilizzerà intorno al 6,8% del Pil. Si è quindi mantenuto e rafforzato il processo già iniziato al termine della XIV legislatura. In più, il Patto ha messo al riparo le Regioni in grave deficit (il Lazio su tutte) dal rischio di un vero collasso finanziario, mentre il 2008 sarà ancora un anno cruciale per assistere queste Regioni, verificando il perseguimento effettivo dei target definiti nei Piani di rientro, in assenza del quale dovrebbe scattare l’ipotesi del Commissariamento.

OCCASIONI MANCATE

La principale occasione mancata è legata all’individuazione di un assetto di governance del sistema che risponda a una domanda in questo momento incandescente: con quale modello di azienda gestire la sanità pubblica e, in base ad essa, come equilibrare i rapporti tra questo piano gestionale e la sfera politica?
Il Ministro Turco ha presentato un Ddl collegato alla finanziaria 2008 in cui affronta molti di questi punti – dal sistema di nomine di direttori generali e primari, al riordino della sanità territoriale e dei medici di base, al lancio di un sistema di valutazione nazionale – con proposte aperte ad una discussione in Parlamento e al confronto con le Regioni (fortemente ostili alle modifiche sui sistemi di nomina). Questo stesso Ddl, inoltre, delinea interventi in materia di sicurezza delle cure, tema che a seguito dei gravi casi di “malasanità” verificatisi nel 2007 si è posto come urgenza nell’agenda delle politiche sanitarie. La chiusura anticipata della legislatura pone un’ipoteca quasi definitiva sul cammino di questo testo.
Altro fronte sul quale il Governo è stato impegnato, senza aver tradotto la propria azione in provvedimenti compiuti, è il riordino dei sistemi di compartecipazione dei cittadini alle spese sanitarie. Un argomento importante quello dei ticket che è stato affrontato con atteggiamenti contraddittori: introdotti con la finanziaria 2007, attenuati in corso d’anno, eliminati con la finanziaria 2008, per ora in assenza di una strategia chiara sul ricorso a questo strumento.
Ancora solo avviata, invece, l’opera di rilancio del comparto della sanità integrativa, con una norma approvata nella finanziaria 2008. Questa iniziativa, che potrebbe costituire una innovazione di grande portata per creare valore dalla grande spesa sanitaria privata (circa 25 miliardi di euro l’anno) richiederà provvedimenti attuativi da emanare entro la fine di febbraio.

QUATTRO SCELTE CORAGGIOSE PER UNA SVOLTA

Poniamo a disposizione dei lettori il testo del progetto predisposto dal Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare dell’Università di Milano per incarico della Presidenza della Regione Lazio, “Quattro scelte coraggiose per una svolta”, che è stato presentato ufficialmente in una conferenza stampa a Roma lunedì 4 febbraio, presso la Sede della Regione.

OSSERVAZIONI DI STEFANO SARACCHI ALL’INTERVENTO DI PIETRO ICHINO

Gentile Prof. Ichino,

nell’articolo "Cosa sta accadendo nel sistema di contrattazione degli Statali" pubblicato oggi 15.01.2008 su LaVoce.info, lei fa riferimento ad una fenomeno essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa in qualunque sua forma; ovvero la negoziazione di un contratto. Lei stesso in passato ha scritto di una necessità, sempre più marcata, di una contrattazione a livello locale che incentivi un meccanismo di decentramento dei poteri decisionali del sindacato, derogando caso per caso ai CCNL che troppo spesso hanno allontanato investimenti nel nostro Paese. Nell’articolo qui pubblicato, in termini tecnici, fa prima capire che storicamente il sindacato ha considerato, sedendosi al tavolo delle trattative, i fondi stanziati dalla Finanziaria approvata, solamente come una prima proposta, contrapponendone una sicuramente più onerosa. Ora, come lei stesso dice, con questa decisione si attribuisce una duplice responsabilità e una maggiore autonomia al sindacato. Se questo è vero, a suo avviso è utile ad un livello istituzionale non accorgersi che oramai, anno dopo anno, si è sempre derogato a quella soglia massima stanziata nella prima finanziaria per poi aggiustarla nella seconda? Nella prima delle domande che le pongo sono convinto che quando un fenomeno abbia una incidenza statistica rilevante il problema deve essere analizzato da un punto di vista meramente oggettivo togliendo falsi vincoli che proprio per la loro peculiarità di inosservanza non risolvono il problema ma lo complicano inutilmente aggiungendo ridondanze inadeguate. Lei stesso nel suo Libro "A cosa serve il sindacato?" pone dei forti dubbi sulla necessità di una contrattazione con un limite salariale inferiore (parte assicurativa), ponendo quindi delle evidenti libertà decisionali da parte del datore di lavoro. Tuttavia in questo articolo sembra chiara una sua posizione in senso opposto giustificando limiti massimi inderogabili.
Ed inoltre, è secondo lei prova provata che i fondi stanziati nella prima finanziaria sono quei fondi che riescono a far rimanere inalterato, da qui alla prossima scadenza di contratto, il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti? Per quanto riguarda questo punto sono altrettanto convinto che tale disponibilità riesce a soddisfare solamente in via previsionale, e quasi mai in via reale, un dato che poi deve essere verificato a consuntivo dando quindi vita a meccanismi di forte squilibrio tra liberi professionisti che possono adeguare le loro parcelle giorno per giorno e lavoratori dipendenti che potranno adeguare il loro contratto secondo spazi temporali di medio periodo; È ovvio quindi che con tale meccanismo il libero professionista sarà sempre più abbiente e il dipendente sarà sempre più povero.
Essendo una contrattazione, come è giusto che sia, o si danno entrambi i limiti, superiore ed inferiore, o si liberalizza il mercato in tutte le direzioni.

Tengo a precisare che leggo sempre con attenzione e ammirazione i suoi contributi. Con Stima,

Stefano Saracchi

LA RISPOSTA DI PIETRO ICHINO

La sua obiezione iniziale è molto intelligente e penetrante; tuttavia:
– il discorso sulla struttura della contrattazione collettiva nel settore delle aziende private, e in particolare sul rapporto tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale (discorso che costituisce un tema centrale del mio libro da lei citato) non può applicarsi nel settore pubblico, almeno fino a quando non saremo riusciti a responsabilizzare per davvero il management pubblico periferico riguardo ai risultati;
– nel settore statale, in particolare, a mio avviso è giusto che il monte salari complessivo sia determinato dal Parlamento e che la contrattazione collettiva si limiti a disciplinarne la distribuzione;
– finora lo stanziamento iniziale in finanziaria ha svolto almeno una funzione di punto di riferimento di massima per il sindacato confederale nel dimensionamento delle sue piattaforme rivendicative; il timore (alimentato dal comunicato del segretario della Cgil) è che, senza quel punto di riferimento, sia più facile la corsa tra sindacati a chi chiede di più fin dall’inizio; a quel punto un rinnovo rapido sarebbe possibile soltanto al costo di uno "sbracamento", mentre se l’Aran resiste il rinnovo diventa assai più difficile di quanto già non sia oggi.

Nel mio articolo , comunque, ho espresso le critiche a questa mini-riforma in termini dubitativi, in forma interrogativa: non sono domande del tutto retoriche. Chissà che il dibattito pubblico su questo tema, se ci sarà, non serva a chiarire gli aspetti oscuri della questione?
Mi sembra invece non pertinente il riferimento che Lei fa al "minimo" inderogabile fissato dal contratto nazionale (come misura del contenuto assicurativo del rapporto individuale di lavoro). Quanto meno, non ne comprendo il nesso con il tema che qui stiamo discutendo, avente per oggetto il "massimo" delle risorse disponibili per il rinnovo del contratto nazionale (qui mi pare che la tematica del contenuto assicurativo del rapporto individuale non c’entri per nulla).

p.i.

LA REPLICA DI STEFANO SARACCHI

Gentilissimo Prof. Ichino,
innanzitutto la ringrazio per la celere e cortese risposta, raramente mi è capito di ricevere un riscontro così solerte da personaggi illustri come
lei. Per quanto riguarda i contenuti tecnici e le sue osservazioni, che ho apprezzato per dovizia, sono colpito da due punti in particolare. Il primo è
che il nesso, sicuramente difficile da vedere, io lo percepisco perché studio il problema da un altro punto di vista; ovvero non vedo il vincolo
del massimo delle risorse disponibili per il rinnovo del contratto nazionale ma colgo l’opportunità per inquadrare la risoluzione secondo un accezione
che è quella del corretto salario che garantisca un equilibrato potere d’acquisto dei dipendenti della pubblica amministrazione. Cosi facendo si
inverte la questione cercando una risposta che soddisfi, non il vincolo di bilancio, ma bensì il vincolo di ottimo salariale (quell’ottimo che ad un
dato livello salariale fa corrispondere un determinato potere d’acquisto e una possibilità concreta e seria di produttività in ambito lavorativo). Come
possiamo immaginare che ci sia una produttività certa quando siamo consapevoli che la grande maggioranza dei dipendenti pubblici, politicamente
non appoggiati, dopo 20 anni di servizio percepisce 1400 euro al mese? Sono quindi convinto che in merito a questo sia essenziale capovolgere il
problema domandandosi non più quanto, questo o quel governo, è disponibile a dare (vincolo di bilancio) ma quanto è giusto che dia (vincolo di ottimo).
Le risorse credo che debbano essere ricalibrate e riallocate secondo un concetto di incremento delle fasce salariali più basse e secondo una
gerarchia oggettiva di contribuzione fiscale (e credo che con questa osservazione si possano collocare i pubblici dipendenti in prima fila). Il
secondo dei punti che colgo nella sua risposta è quello dell’ipotesi di porre uno stanziamento iniziale in finanziaria per svolgere almeno una
funzione di punto di riferimento di massima per il sindacato confederale; a questo punto io non parlerei di timore di una più facile corsa tra i
sindacati a chiedere di più, ma parlerei di un’ennesima opportunità di responsabilizzazione da parte del Governo verso i sindacati per capire come
collocarsi in una contrattazione senza punti di riferimento. Ora il problema è che in Italia tutto si fa in deroga e con urgenza e si vogliono
raggiungere rinnovi rapidi perchè magari vicini ad un periodo elettorale.
Credo che bisognerebbe svincolare la contrattazione proprio da questi aspetti di urgenza e speculazione informativa rendendo il discorso più
onesto, imponendo, qualora l’accordo tra le parti non venga raggiunto, una revisione automatica dei livelli salariali per mantenere costante il potere
d’acquisto degli stessi lavoratori (che è cosa ben diversa dall’adeguamento inflazionale). Qualora si voglia ottenere un risultato certo, che può non
essere il migliore sotto tutti i punti di vista, sono d’accordo con lei per una contrattazione con un punto di riferimento massimo, anche se
parzialmente rispettato. Tuttavia per una salutare prosecuzione dei lavori intorno al tavolo delle trattative credo invece che tali vincoli debbano
essere discussi per verificarne l’efficacia e calibrarne l’effetto non nell’immediato, dando respiro alla parte politica soffocata dalle richieste,
ma verificarne l’utilità nel medio-lungo periodo. Come studiosi non possiamochiedere produttività se non diamo un effettivo contributo sociale e di
responsabilizzazione al singolo lavoratore.

N.B. Per quanto invece riguarda una marcata e netta differenziazione tra il settore privato e pubblico credo che sia il momento di operare ad un
effettivo ragionamento globale che sia avulso da concetti politici predeterminati; dico questo anche alla luce della serie infinita di
municipalizzate che anche se a partecipazione statale al 100%, possono stipulare contratti di diritto privato. Questo incentiva, qualora i livelli
salariali fossero sensibilmente diversi, come infatti lo sono, ad una corsa da parte del dipendente pubblico alla ricerca di un potere forte che lo
possa comandare dall’amministrazione pubblica alla municipalizzata del caso.
Si tornerebbe, come infatti sta accadendo, ad una spartizione dei posti tramite quote di partito senza neanche passare per un falso concorso
pubblico. Quello che contesto essenzialmente è il forte squilibrio che si può registrare tra il settore privato e pubblico che incentiva un meccanismo
a mio avviso diabolico per tutte quelle società anzidette.

N.N.B. Tengo a precisare che il mio punto di vista è totalmente assente di faziosità partitica; glielo posso dimostrare avendo posto, in passato,
all’attenzione di "LaVoce.info", prima un contributo, settembre 2007, totalmente a favore di una manovra dell’attuale governo, poi in relazione
all’ultima finanziaria, un contributo, che non sono mai riuscito a pubblicare, totalmente contrario a due commi predisposti in Finanziaria,
dimostrando analiticamente la stupidità della specifica manovra e l’inesattezza delle informazioni divulgate sui media. Qualora avesse tempo,
il primo contributo lo può trovare qui: http://old.lavoce.info/lettere/index.php
Il secondo è in allegato. I dati tecnici credo non possano essere di proprietà di nessun partito.

La ringrazio molto per l’opportunità di discutere di questi argomenti a mio avviso di fondamentale rilevanza.
Con sempre più stima,

Stefano Saracchi

RICCARDO ROVELLI COMMENTA L’INTERVENTO DI VITO TANZI

Concordo con Vito Tanzi che “non c’è un solo modello europeo o sistema di protezione sociale”.
Aggiungo anzi che la malintesa idea che l’UE dovesse farsi carico di promuovere un “modello sociale europeo” è all’origine di svariati equivoci, e in parte anche di un’eccessiva acrimonia nei confronti della (ormai superata) “Proposta di una costituzione per l’Europa”.
Ed è giusto chiederci, con Tanzi “se nei prossimi anni gli attuali modelli europei di protezione sociale potranno sopravvivere senza che ciò significhi un serio danno per le economie europee.”
Ma cosa ne consegue, in positivo?

Tanzi evidenzia un obiettivo, anche questo del tutto condivisibile: “Bisogna riuscire a studiare e introdurre moderne reti di protezione sociale che ottengano obiettivi non dissimili da quelli raggiunti dai migliori sistemi europei, ma che lo facciano in modo più efficiente e più ‘amico del mercato’.”
Tuttavia, ci ricorda anche un pesante vincolo: “l’Unione Europea non riuscirà a divenire ‘l’economia più competitiva del mondo’ senza ridurre significativamente i livelli di tassazione”.
A questo punto, rimango un po’ perplesso.  Da un lato vogliamo un sistema di protezione più inclusivo è  più amico del mercato, ossia più indirizzato a incentivare alti livelli di occupazione (questo è, tra l’alto, uno dei principali obiettivi della “strategia di Lisbona”) … ma dall’altro vogliamo un sistema che costi di meno e consenta di ridurre i livelli di tassazione. Non sarà che vogliamo la quadratura del cerchio?
In effetti è proprio così! Come mostra un recente studio (dal quale ho tratto la Figura sotto riprodotta) c’è una correlazione piuttosto elevata, all’interno dell’UE, fra il tasso di occupazione di un paese e la spesa nelle politiche volte al mercato del lavoro (in percentuale del PIL).

Spese in politiche del lavoro (%PIL) e Tasso di occupazione in 24 paesi UE (2005)

Fonte: R. Rovelli e R. Bruno, Labor Market Policies and Outcomes: Cross Country Evidence for the EU-27, IZA DP No. 3161, scaricabile da: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1036861

Fra i paesi che sembrano “sfuggire” a questa correlazione c’è il Regno Unito (uk): che tuttavia ottiene un elvato tasso di occupazione (ai livelli della Svezia) con un sistema di politiche del lavoro senz’alto poco costoso (meno di 0,7 % del PIL), ma al prezzo di un tasso di povertà relativa fra i peggiori d’Europa.
In effetti, in tutta l’Europa c’è solo la Repubblica Ceca che riesce a “spendere poco” nel mercato del lavoro e ad ottenere in cambio sia un tasso di occupazione “discreto” (il 65%) sia bassi indici di povertà relativa. 
Pur tenendo conto di questa e poche altre eccezioni, sembra assai difficile sfuggire alla regola per cui alti tassi di occupazione e di inclusione sociale costano molto: Danimarca, Finlandia, Olanda, Svezia e Germania spendono in politiche del lavoro fra il 2,5 ed il 4% del rispettivo PIL (l’Italia, tanto per dire, sta all’ 1,3%).
Né, i paesi che ho nominato, sembrano essere troppo penalizzati dai costi di queste politiche: tutti e cinque i paesi virtuosi hanno ampli surplus di conto corrente nella bilancia dei pagamenti, bilanci pubblici in ordine, mercati di borsa in rapida crescita (tranne la Svezia), e il loro PIL cresce più velocemente di quello italiano!
Il problema, in conclusione, mi sembra legato alla composizione e qualità della spesa per lo stato sociale. A paesi come l’Italia certo non servirebbe spendere di più e male. Ma neppure tagliare la spesa pubblica e basta sarebbe una soluzione. Bisognerebbe invece sostitituire interventi e spese che scoraggiano la partecipazione al mercato del lavoro con altri che effettivamente promuovano la flessibilità e la ricerca dell’impiego. Ma senza promuovere l’illusione che queste politiche non abbiano un costo elevato.

La scuola e internet

Quali effetti può avere l’impiego di tecnologie informatiche nel mondo della scuola? E quali le modalità di implementazione? Proviamo a fare un po’ di chiarezza con questo dossier.

IL LUNGO PERIODO SPAVENTA LE CASSE

Il mondo della previdenza professionale in Italia richiama sovente l’attenzione sulla tenuta del proprio sistema pensionistico. I requisiti per un buon sistema, sostenibilità finanziaria, equità e adeguatezza delle prestazioni, non possono dirsi raggiunti. C’è ancora molto da fare, in particolare sul primo punto.
Del requisito della sostenibilità finanziaria difettano le casse professionali privatizzate prima della riforma Dini (1), ancor più quegli enti che coniugano un finanziamento rischioso dal punto di vista demografico a pensioni poco eque sotto il profilo attuariale.
All’esame dello “storico” di variabili economiche strutturali [1] il grado di copertura della spesa per pensioni può apparire per talune categorie addirittura crescente. (2) Si dà il caso che forse non è tutto oro quello che luccica. Lo dimostrano due fattori : realtà previdenziali ancora molto giovani (buon rapporto iscritti/pensionati), a cui si aggiungono i risultati delle proiezioni attuariali (obbligatorie per legge) e di alcune analisi economiche mirate.
Ecco, quindi, che a meno di rendimenti patrimoniali nel tempo decisamente vantaggiosi o di modifiche in corso d’opera dell’architettura previdenziale, scarse diventano le probabilità che in futuro il grado di copertura della spesa pensionistica possa mantenersi superiore all’unità.

Un passato troppo recente

Appare strano – o forse no – che chi era tenuto a vigilare sulla stabilità finanziaria di questi enti ne abbia “nascosto” le fragilità strutturali dietro vincoli a maglie larghe. La riserva legale può limitarsi a coprire cinque annualità di pensione; invece per le proiezioni attuariali triennali basta una lettura dei successivi quindici anni.
Ma quindici anni sono un periodo troppo breve per riuscire a scuotere le fondamenta di argilla di alcune casse e sollecitare negli amministratori soluzioni più responsabili a favore delle categorie tutelate.
Ma non è mai troppo tardi: i ministeri vigilanti hanno di recente adottato una linea di maggior rigore, allungando le proiezioni e ancorandole a un periodo di tempo non inferiore a trent’anni. È il minimo ragionevole per chi deve mantenere promesse previdenziali con iscritti la cui carriera lavorativa difficilmente è inferiore a 30-35 anni. Siamo di fronte, vogliamo sperare, solo a un primo passo lungo questa direzione, perché nel compiere valutazioni sul futuro dei pensionati non è pensabile limitarsi a guardare appena oltre il palmo di naso.
Se il futuro delle casse non si prospetta particolarmente roseo, nonostante risultati gestionali di breve termine generalmente favorevoli, non è chiaro fino a che punto la norma che il legislatore ha partorito sia indirizzata a responsabilizzare le casse professionali di fronte ai propri aderenti. (3) A ben leggere, siamo di fronte a un compromesso politico che sminuisce in parte l’effetto riformatore. Un gioco delle parti, dove da un lato si estende il periodo delle proiezioni e dall’altro si riafferma e si rafforza l’autonomia normativa delle casse, premessa per riequilibrare il sistema spostando solo marginalmente la soglia di copertura.

Un futuro che nessuno vuol vedere

Onestamente non capiamo a chi giovi rinviare di continuo il momento delle decisioni definitive. Per questo motivo, forse, oltre che per rendere concreta la spinta riformatrice di cui il legislatore avrebbe dovuto farsi carico, è intervenuto di recente il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale. Il Nucleo ha proposto vincoli ancora più stringenti in una soluzione che guardi concretamente al lungo periodo. Non a trent’anni di proiezioni, ma a cinquanta, secondo i tecnici del Welfare, dovrebbe corrispondere il periodo di previsione minimo per testare l’effettiva sostenibilità di un sistema pensionistico.
Quella del Nucleo non appare come una proposta rivoluzionaria: in altri paesi utilizzare previsioni a lunga gittata rappresenta la soluzione tecnica adeguata per effettuare scelte di policy vitali agli equilibri macroeconomici. Resta il fatto che l’azione del Nucleo ha amplificato per tutta risposta lo scetticismo (di facciata) nei confronti di previsioni “troppo” dilatate. Chi deve amministrare ne ritiene fuorvianti i risultati per l’elevato numero di variabili in gioco. Eppure, per quel che è dato vedere, l’instabilità del sistema di questi enti ha ormai raggiunto un codice di rischio elevato.
Con gli strumenti oggi a disposizione, è paradossale che continui a farsi strada l’idea che previsioni più lunghe restituiscano solo risultati più incerti.
L’intero ciclo di vita previdenziale di un individuo ha una durata notevole. Viene allora da chiedersi se cinquant’anni saranno solo un arco temporale raccomandato dal Nucleo o un vincolo assoluto da dover rispettare per rientrare nei parametri di stabilità. Aspettando una risposta ancora in embrione, quello che si desidera è una soluzione che abbia molto di tecnico e poco, ma davvero poco, di politico.

Sabina de Rocca

(1) Decreto legislativo n. 509/94.
(2) Il riferimento è alle statistiche del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale.
(3) Articolo 1, comma 763, legge 27 dicembre 2006, n. 298.

La scarsa fiducia fa crescere l’inflazione: replica ai commenti di Malgarini

Secondo i consumatori italiani, i prezzi al consumo sono praticamente raddoppiati tra il 2003 ed oggi. Questa percezione è del tutto incoerente con i dati osservati: se i prezzi fossero davvero raddoppiati, avremmo assistito da un lato ad un crollo dei redditi reali e dei consumi, e dall’altro ad un incremento molto forte nell’utilizzo dei più comuni strumenti di pagamento finanziari, cose che non sono avvenute nella realtà. Perché si è verificato questo errore di percezione? E come porvi rimedio? Circa il primo punto, secondo l’ultima relazione della Banca d’Italia (1) tra il 2003 e il 2006 il reddito lordo disponibile delle famiglie italiane espresso a prezzi concatenati e corretto per l’inflazione attesa ha registrato tassi di crescita molto modesti, notevolmente inferiori a quelli dei decenni passati. Da qui è derivato, nell’interpretazione sostenuta nel mio articolo, un possibile fenomeno di “disillusione monetaria”, ossia le famiglie avrebbero attribuito ad un’abnorme crescita dei prezzi problemi derivanti dalla dinamica assai modesta del reddito disponibile. Ma perché proprio i prezzi? Ossia, perché il disagio legato alla stagnazione della produttività sperimentata nei primi anni 2000 (2) è stato essenzialmente percepito in termini di elevata inflazione? Posso avanzare tre generi di spiegazioni, suscettibili di essere ulteriormente verificate in futuro: in primo luogo, un ruolo potrebbe averlo giocato il sistema dei media, che sia in Italia sia in altri paesi ha rilanciato in occasione del passaggio all’euro “paure inflazionistiche” che non trovavano riscontro nei dati ufficiali. Potrebbe aver influito anche la storia passata del nostro paese, che ha vissuto negli anni ’70 e nei primi ’80 lunghe fasi di stagflazione, in cui ad una stagnazione del reddito si associavano aumenti molto elevati dei prezzi. Da ultimo, è possibile sostenere (3) che la “disattenzione” mostrata dai consumatori verso la statistica ufficiale non sia interpretabile in termini di “irrazionalità” ma piuttosto, appunto, di “disattenzione razionale”: le informazioni veramente rilevanti sarebbero quelle riferite alle situazioni individuali, di cui le stime riferite al “consumatore medio” sarebbero solo un’approssimazione, tanto meno precisa quanto più aumentano nelle moderne economie avanzate complessità ed eterogeneità (4). Da questo punto di vista, la statistica ufficiale può avere effettivamente un ruolo rilevante per cercare di riconciliare percezioni e dati osservati: ad esempio, diffondendo dati più disaggregati, come ha iniziato a fare l’ISTAT con gli indici di prezzo distinti per territorio (5) e tipologia familiare (6), e promuovendo l’uso delle moderne tecnologie dell’informazione e comunicazione per la diffusione dei dati (7). In conclusione, la divaricazione tra percezioni e realtà non è affatto – come alcuni commenti sembrano suggerire – una questione di scarso interesse per gli accademici, di cui al più “incolpare” cittadini poco avvertiti: è invece a mio giudizio un rilevante problema aperto, che richiede risposte anche innovative, per gli economisti sotto il profilo dell’elaborazione teorica e per gli statistici per quanto riguarda le modalità di raccolta e diffusione delle informazioni e la loro trasformazione in effettiva conoscenza. 

(1)                    Banca d’Italia (2007), Relazione Annuale per l’anno 2006, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/rel06/rel06it
(2)                      Draghi M. (2007), “Consumi e crescita in Italia”, 48esima Riunione Scientifica Annuale, Società Italiana degli Economisti, http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2007/26102007/Draghi_26_10_07.pdf  
(3)                     CURTIN R. (2007), “What US Consumers Know About Economic Conditions”, paper presented at the second OECDWorkshop on “Measuring and Fostering the Progress of Societies, Istanbul, June 27, http://www.oecd.org/dataoecd/32/39/38758180.pdf?contentId=38758190)
(4)                    VAN TUINEN H. (2007), “Innovative Statistics to Improve our Notion of Reality”, background paper for the session “Statistical Offices: Information Brokers or Knowledge Builders”, second OECD Workshop on “Measuring and Fostering the Progress of Societies, Istanbul, June 27,http://www.oecd.org/dataoecd/5/59/38780056.pdf
(5)                     ISTAT, Indici Regionali NIC, http://www.istat.it/prezzi/precon/aproposito/indici_regionali_nic.xls
(6)                     ISTAT (2007), Indicatori della dinamica dei prezzi al consumo per alcune tipologie di famiglie, Approfondimenti, febbraio, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070220_00/
(7)                    OECD (2007), Istanbul Declaration, http://www.oecd.org/dataoecd/23/54/39558011.pdf

Così disse Einaudi

Su segnalazione del nostro collaboratore Guido Ascari

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