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Autore: Marco Alessandro Bartolucci

CONCORSO ESTERNO E STATO DI DIRITTO

In attesa delle motivazioni che hanno indotto la Cassazione ad accogliere il ricorso di Marcello Dell’Utri contro la sentenza della Corte d’appello di Palermo che lo condannava per concorso esterno in associazione mafiosa, è utile ripercorrere brevemente la storia di questo istituto. E riassumere le posizioni più autorevoli sulla domanda centrale: è possibile indagare il cono d’ombra che collega criminalità e mondo legale della politica, degli affari, della giustizia, senza condannare prassi, magari di malcostume o eticamente inopportune, ma penalmente irrilevanti?

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziando tutti i lettori dell’attenzione, colgo l’occasione per rispondere ai commenti più critici.
Il parallelo che il lettore Vincent ipotizza con la mafia, per quanto suggestivo e già segnalato nell’ambito della divulgazione scientifica, non mi pare possa essere traslato con successo nella corruzione. Benché infatti i due fenomeni abbiano diversi connotati comuni, ciò pare dovuto principalmente ad incidenti di percorso piuttosto che ad una vera e propria evoluzione criminale. Nella prassi, infatti, il corruttore o il corrotto sono soggetti normoinseriti, che sì rispondono di “regole proprie” (cc. dd. sottoculturali) come gli associati delle organizzazioni criminali, ma che hanno d’altra parte scambi decisamente più rilevanti con il “mondo legale”. In termini prosaici, la valutazione costi/benefici del mafioso nell’intraprendere la carriera criminale tiene sicuramente conto delle possibili conseguenze delle sue azioni, fino al carcere più severo. Il criminale economico invece quasi mai. Questo porta a confermare, sul solco segnato della dottrina più sensibile, che la certezza della pena, in casi come quelli corruttivi, è ben più deterrente della severità della pena. D’altra parte, sono sicuramente puntuali le osservazioni del lettore Giuseppe Moncada il quale auspica l’introduzione di norme “a monte” per incompatibilità ovvero di severo controllo su come lo Stato spenda il denaro pubblico (così il lettore Piero). Il lettore Nello, inoltre, giustamente richiede “armi idonee”. Come segnalavo nell’articolo, basterebbe mutuare istituti presenti negli altri paesi, quali l’agente provocatore statunitense. Peraltro, il nostro ordinamento già conosce una figura simile per alcuni reati (quali, ad es. il terrorismo e il traffico di stupefacenti): sarebbe sufficiente estenderla ai fatti di corruzione.
Una chiosa finale, infine, sull’osservazione del lettore Bob. Il problema della corruzione ha certamente una componente culturale. Addirittura, senza scomodare l’ampio dibattito sul “familismo amorale” di Banfield, alcuni eccellenti studi scientifici hanno rintracciato un legame tra prassi corruttive e aspetti più personali della collettività, quali ad esempio la religione. Con riferimento alle vicende attuali, credo che il parametro di riferimento debbano essere i mass-media: è probabilmente lì il termometro sociale della convivenza con il fenomeno criminale. Siccome l’informazione è in grado di orientare l’opinione pubblica, in qualche modo riuscendo anche ad introdurre “scale di valori” (o di disvalori), è più che mai opportuno che la funzione di “watchdog for citizen rights”, così come teorizzato nel mondo anglosassone, prenda sempre più piede anche in Italia.

ARMI SPUNTATE CONTRO LA CORRUZIONE

La Camera discuterà presto il disegno di legge anticorruzione, già approvato dal Senato nel giugno 2011. Se la proposta diventasse legge, si rafforzerebbe il contrasto della corruzione? Probabilmente no perché il Ddl non prevede strumenti idonei a combattere il fenomeno, come invece è stato fatto in altri paesi. Soprattutto, non contempla ipotesi di non punibilità collegate a forme di collaborazione che spezzino dall’interno il vincolo di omertà tra corrotto e corruttore. Ma nessuna economia può reggere un costo della corruzione dell’ordine di 60 miliardi l’anno.

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