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Autore: Maria Cecilia Guerra Pagina 2 di 9

galasso Ha conseguito l’M.Phil in Economics alla Cambridge University (UK). È dottore di ricerca in Economia Politica presso l’Università di Bologna; è docente di Scienza delle Finanze e Direttore del Dipartimento di Economia Politica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha collaborato e collabora con istituzioni pubbliche e centri di ricerca. In particolare, nel periodo 1989-1999 ha partecipato a gruppi di lavoro e commissioni istituite presso il Ministero delle Finanze e, nel 2006, ha presieduto la Commissione sulla tassazione dei redditi di capitale e finanziari diversi, istituita presso il Ministero dell’Economia. È membro fondatore del CAPP – Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche presso il Dipartimento di Economia Politica dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Dal dicembre 2006 al luglio 2008 ha fatto parte del Comitato di gestione dell’Agenzia delle entrate. È stata Viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali sotto il governo Letta. Attualmente è Sottosegretario al ministero dell'Economia. Redattore de lavoce.info.

LO PSICODRAMMA DELLE IMPOSTE COMUNALI

Il decreto sul federalismo municipale ha rischiato di mettere fine alla legislatura ed è ora al centro di una forte tensione istituzionale. Ma rappresenta davvero il passaggio cruciale per la costruzione del federalismo nel nostro paese? Il provvedimento è tutto sommato assai modesto. Manca comunque una regolamentazione adeguata del sistema perequativo dei comuni. Mentre l’ossessione per il vincolo di invarianza della pressione fiscale rischia di snaturare il federalismo, il cui principale obiettivo è rendere i sindaci responsabili davanti ai propri cittadini.

SE PER PRENDERE L’EVASORE CI VUOLE FALCIANI…

La “lista Falciani”, e cioè l’elenco dei correntisti della filiale di Ginevra della Hsbc sottratto dall’ex dipendente dellaholding Hervé Falciani e poi consegnato alle autorità francesi, contiene il nome di 5.595 persone fisiche e 133 persone giuridiche residenti in Italia che hanno depositato in Svizzera circa 5 miliardi e mezzo di euro al 31/12/2006, in buona parte, si presume, sottraendoli al fisco. Sono già 700 i soggetti indagati dalla sola procura di Roma.
E’ una vicenda molto triste per almeno tre ragioni.
–  Le somme, presumibilmente nascoste al fisco, viaggiano, per ciascun correntista, sui 10-20 milioni di euro. Non siamo certo di fronte a quegli evasori verso cui talvolta, pur non giustificandoli, si prova comprensione: il piccolo artigiano colpito dalla crisi, il piccolo imprenditore strozzato dalla concorrenza asiatica o dell’est europeo. Si tratta invece di stilisti, attori, sportivi, gioiellieri e ogni sorta di vip. Persone che guadagnano ogni anno centinaia e centinaia di volte di più del lavoratore dipendente o autonomo medio. Si sottraggono al dovere di dare il loro contributo al funzionamento della cosa pubblica  (giustizia, sanità ,istruzione, difesa, servizi sociali…) per massimizzare entrate che li pongono già al top della distribuzione dei redditi.
–  I correntisti che risulteranno evasori verranno scoperti solo perchè c’è stata una “spia”. Gli strumenti di accertamento normali non sono stati in grado di scovarli ex post, né di dissuaderli dall’evasione, agendo come minaccia preventiva. Neppure l’inasprimento dei controlli sui capitali detenuti illegalmente all’estero promesso al momento dello scudo è stato considerato credibile, se è vero che, come sembra dalle informazioni riportate sui giornali, la maggioranza dei correntisti sino ad ora indagati non si è premurata di avvalersene.
–  Ma lo scudo ha permesso almeno ad un terzo di loro di regolarizzare la propria posizione. Non sono più perseguibili, si offenderanno se li chiameremo evasori. Ma lo sono. Ricordiamo ancora una volta: per “scudare” 100 euro, su cui non potranno più essere fatti accertamenti, l’evasore ne ha dovuti pagare 5. Ma su quei cento euro non aveva pagata l’Irpef per 40-50 euro. Un bell’affare, non c’è che dire.

LA RETORICA DEL 5 PER MILLE

Il 5 per mille mostra sempre più la corda. Non solo è costantemente a rischio di sopravvivenza. Ma si sta rivelando anche uno strumento inadatto a sostenere il volontariato e gli enti non profit. Comporta costi rilevanti di pubblicità per i privati e di gestione per l’amministrazione pubblica. Finisce col finanziare a pioggia, e con importi modesti, enti con le finalità più disparate. La sua efficacia andrebbe confrontata con quella delle agevolazioni fiscali previste per le stesse finalità. Enti locali e finanziamenti virtuosi al terzo settore.

Gli Italiani e l’evasione fiscale

Meno evasione e servizi pubblici migliori sono le priorità degli italiani. Lo dice un’indagine del Censis su un campione rappresentativo della popolazione. L’evasione, percepita in aumento negli ultimi tre anni, è considerata un problema grave dall’89,7 per cento degli intervistati. Il gettito recuperato con il contrasto all’evasione dovrebbe però essere utilizzato per ridurre le imposte e non tradursi in un aumento della pressione fiscale, giudicata già alta. E servirebbe un impegno credibile a migliorare la capacità della spesa pubblica di rispondere ai bisogni dei cittadini.

 

Riforma fiscale: è l’ora di discuterne

Il tema della riforma fiscale è stato più volte riproposto nel corso della legislatura. Da ultimo il presidente del Consiglio ha fatto del fisco uno dei cinque punti su cui richiedere la fiducia alle Camere. Il ministro dell’Economia ha in più occasioni affermato che su questo tema è auspicabile un ampio confronto. Un contributo alla discussione può venire da un documento di analisi e discussione elaborato da un gruppo di esperti che ha lavorato in questi mesi presso la sede del Nens.

La prima e ultima decisione

Nel giorno stesso in cui il governo ha ricevuto la fiducia alla Camera, è apparsa sul sito del ministero del Tesoro la prima Decisione di finanza pubblica. Arriva in ritardo e rischia di essere già stata superata dai fatti. Perché riflette solo decisioni già prese, rese insufficienti dalle revisioni del Patto di stabilità e dall’andamento del gettito tributario inferiore alle previsioni. Oltretutto sarà anche l’ultima.

Leva fiscale per attrarre gli investimenti

Commento dopo le modifiche apportate dal Parlamento

La prima norma che abbiamo commentato (art. 40) relativa alla fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno, non è stata modificata. Valgono le considerazioni fatte.
La seconda norma (art. 41), sul regime fiscale di attrazione europea, che consente, previo apposito interpello,  a un’’impresa di un altro stato membro dell’’Unione europea di investire in Italia adottando il regime fiscale preferito tra quelli vigenti in ambito UE, ha subito qualche modifica:

1-  l’’efficacia del provvedimento è stata limitata a tre anni;
2-  è stato specificato che l’’opzione riguarda solo i tributi statali, quindi un’‘impresa di un altro stato membro che investisse in Italia potrebbe evitare di pagare l’’Ires (pagando invece, ad esempio, la Koerperschaftsteuer tedesca, ad aliquota del 15 per cento o la corporation tax irlandese, al 12,5 per cento) ma dovrà pagare l’’Irap, in quanto imposta regionale;
3-  è stata introdotta una norma antielusiva, per evitare che usufruiscano surrettiziamente dell’’agevolazione imprese che già sono presenti  in Italia o che solo virtualmente svolgano la propria attività nel territorio dello stato.

Si tratta di modifiche  che riducono l’’appeal della misura, che risolvono il problema da noi posto relativamente alla possibile ricaduta di parte dei costi dell’’agevolazione sui tributi degli enti decentrati, ma che, al contempo, non fugano né i dubbi di costituzionalità della norma né quelli della sua compatibilità con le norme comunitarie,  e che coinvolgono, come sottolineato anche recentemente dall’’esperto di diritto tributario comunitario Adriano Di Pietro su Il sole24ore, oltre al codice di condotta, anche le norme sugli aiuti di stato.

La manovra e la competitività: commento dell’1 giugno 2010 alla versione pre-emendamenti

Subito dopo il consiglio dei ministri di mercoledì scorso che ha varato la manovra, il presidente del Consiglio aveva invitato a leggere attentamente il testo prima di esprimere un parere. Ma come si faceva dal momento che dal consiglio dei ministri non è uscito alcun testo ufficiale e per giorni non si è saputo quante e quali norme sarebbero sopravvissute alle modifiche dell’ultima ora? In quella che sembra la versione finale del decreto sono contenute due norme che usano la leva fiscale per attirare le imprese a investire nel Mezzogiorno, e, quelle estere, in tutta Italia. Meritano attenzione per la loro finalità “a favore dello sviluppo”. Cerchiamo di capire perché non ci si può aspettare molto da nessuna delle due.

LA “FISCALITÀ DI VANTAGGIO” PER IL MEZZOGIORNO

La prima norma introduce la possibilità, per alcune regioni del Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), di modificare le aliquote Irap “fino ad azzerarle e di disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive”.
Già oggi le Regioni possono variare l’aliquota, entro un range del +/-0,92 rispetto alla aliquota base del 3,9 per cento e concedere deduzioni, detrazioni e altre agevolazioni. (1) Con la nuova norma alle Regioni del Sud viene concesso un più ampio margine di manovra fino a consentire di azzerare completamente l’’Irap, sulle nuove iniziative produttive.
La norma anticipa, espressamente, l’’attuazione di quanto già previsto, in termini più ampi e generali, nella legge delega sul federalismo (legge 42/09 articolo 2 comma 2 lettera mm) che prevede l’’individuazione di “forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa nelle aree sottosviluppate”. In entrambe le disposizioni si richiama, opportunamente, la necessità che l’’agevolazione sia “nel rispetto”, o “in conformità”, della normativa comunitaria. Fiscalità differenziate non solo fra settori di attività, ma anche sul territorio nazionale, potrebbero infatti essere ritenute incompatibili con la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato, posta a tutela della concorrenza nel mercato comune europeo.
Non è un caso che le Regioni, quando hanno utilizzato la flessibilità loro concessa a favore di alcuni settori o territori disagiati, si sono sempre mosse nell’’ambito della regola del de minimis che consente che determinati interventi pubblici selettivi non siano ritenuti aiuti di Stato incompatibili, se il loro importo non supera determinate soglie.
Nel caso in cui si superi il de minimis, come avverrebbe con la riduzione, fino ad azzeramento, dell’’aliquota Irap, il test da passare, stando almeno a quanto emerge dalla giurisprudenza comunitaria, è che la decisione dell’’ente avvenga in piena “autonomia istituzionale, procedurale ed economica”. La Regione, quindi, non solo deve prendere in piena autonomia la decisione, ma deve anche sopportare il calo di gettito che ne deriva, come peraltro esplicitamente previsto dalla relazione tecnica che dice che “l’’esercizio della facoltà riconosciuta alle Regioni interessate è chiaramente subordinata all’’individuazione di corrispondenti compensazioni nell’’ambito dei propri bilanci”.
È difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra in discussione (e, per alcune di esse, l’’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. E anche quando si ritenesse che una concorrenza fiscale tra regioni è non solo possibile, ma anche sana e utile alla crescita produttiva, è tutto da vedere se, data la situazione di arretratezza, carenza di infrastrutture, degrado istituzionale, esposizione alla malavita organizzata in cui molte zone delle regioni interessate dalla “fiscalità di vantaggio” si trovano, sia sufficiente abolire l’’Irap per compensare i maggiori costi che un investitore sostiene aprendo un’’attività. Forse anche per questo, pudicamente, il decreto parla di “fiscalità di vantaggio”, mentre nella delega sul federalismo si parla di “fiscalità di sviluppo”.

REGIME FISCALE DI ATTRAZIONE EUROPEA

In base alla seconda norma: “Alle imprese residenti in uno Stato membro dell’Unione Europea diverso dall’Italia che intraprendono in Italia nuove attività economiche, nonché ai loro dipendenti e collaboratori, si può applicare, in alternativa alla normativa tributaria italiana, la normativa tributaria vigente in uno degli Stati membri dell’Unione Europea.”
Si tratta di una norma accattivate quanto fantascientifica: non solo perché non si capisce come possa essere concretamente applicabile, ma anche perché appare in palese contrasto con le regole comunitarie, nonché con la Costituzione italiana.
La norma è finalizzata ad attirare in Italia imprese di altri paesi europei. A queste imprese verrebbe infatti riconosciuta la possibilità di scegliere la normativa fiscale più favorevole fra le ventisette esistenti all’’interno della Unione. Non tutte sceglierebbero la stessa: il vantaggio che si può ricavare dall’’una o dall’’altra normativa dipende infatti dai dettagli delle singole normative, per quanto riguarda aliquote e basi imponibili, e dalle caratteristiche specifiche dell’’impresa: come si finanzia, quanti ammortamenti ha, quale è la sua forma societaria, quanti dipendenti e collaboratori assume e così via.
Per valutare la corretta applicazione delle imposte da parte di ciascuna di queste imprese, l’’Agenzia delle entrate dovrebbe conoscere ventisette diverse normative tributarie (redatte nelle lingue di ciascun paese), con la relativa regolamentazione secondaria, per quanto riguarda non solo la tassazione dell’’impresa, ma anche la tassazione dei dipendenti e collaboratori. La stessa conoscenza è ovviamente richiesta ai giudici che si trovino a dirimere il contenzioso tributario che dovesse sorgere.
Ma supponendo anche che questi ostacoli applicativi venissero superati, la nuova norma avrebbe importanti implicazioni in termini di violazione della concorrenza. Le imprese italiane, o quelle non europee che operano sul territorio nazionale, verrebbero esposte alla concorrenza di altre aziende che potrebbero godere di un regime fiscale sensibilmente più vantaggioso, per quanto riguarda sia la tassazione dei loro utili sia il costo del lavoro. Si tratterebbe di una violazione delle regole che l’’Unione Europea e l’’Ocse si sono date per evitare la “competizione fiscale dannosa” (dannosa in quanto mira ad attirare agenti economici di altri paesi con un trattamento preferenziale rispetto ai soggetti residenti).
Un altro profilo da considerare riguarda il fatto che i lavoratori italiani di un’’impresa multinazionale che ha scelto, ad esempio, il regime di tassazione estone, si troverebbero a pagare un’’imposta sui loro redditi da lavoro flat tax del 20 per cento, mentre quelli che lavorano per un’’impresa italiana resterebbero sottoposti all’’Irpef progressiva. Una disparità che difficilmente può essere considerata coerente con i principi costituzionali della capacità contributiva e dell’’uguaglianza davanti alla legge.
Un ulteriore problema si porrebbe poi in un contesto di federalismo fiscale: a quale quota del gettito prelevato su imprese e lavoratori secondo le regole tributarie di un altro paese europeo, e secondo quali criteri di ripartizione, avrebbero diritto le regioni e i comuni che perderebbero l’’addizionale Irpef regionale e comunale nonché l’’Irap (e forse anche l’’Ici sulle imprese) prevista dalla nostra normativa tributaria?
La relazione tecnica al provvedimento non aiuta certo a chiarire questi dubbi: la perdita di gettito è infatti quantificata, e per giunta in modo molto approssimativo, con riferimento alla sola Ires. Ma la norma citata non parla della sola imposta societaria bensì dell’’intera normativa tributaria dell’impresa nonché di quella relativa a dipendenti e collaboratori.

(1) La possibilità di variazioni in aumento è stata sospesa, a partire dal 2009, e fino all’’attuazione del federalismo fiscale, tranne che per le Regioni con disavanzi sanitari.

Un condono “ad aziendam”?

Nella lettera inviata al presidente del Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato al momento della promulgazione del decreto legge “incentivi” (n. 40/2010)  il presidente Napolitano esprime, fra gli altri, “dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza” per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare.
Si riferisce esplicitamente anche al comma 2-bis dell’articolo 3.
Questo comma prevede due modalità di rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre dieci anni e per le quali l’amministrazione finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio. Una di queste (lettera b)) prevede che  il contribuente possa estinguere la controversia che lo riguarda, pagando un importo pari al 5 per cento del suo valore (riferito alla sola imposta oggetto di contestazione in primo grado, senza tenere conto  degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni).
Ci ricorda Napolitano che “la finalità dichiarata, in sé apprezzabile, di assicurare la durata ragionevole dei processi è contraddetta dall’assenza di qualsiasi disposizione a regime diretta alla semplificazione ed abbreviazione del contenzioso tributario”.
La norma infatti consiste unicamente in una sanatoria di situazioni in essere, a cui avranno interesse ad aderire solo coloro che hanno ragionevole timore di perdere in Cassazione (pur avendo vinto nei due gradi precedenti).
Perché è stata riproposta, dopo che era stata già fermata una volta al momento della discussione della legge finanziaria? Chi ne avvertiva l’’urgenza? A chi giova?
E’ un dato di fatto che le condizioni richieste per accedere alla sanatoria si attagliano alla perfezione – a un importante contenzioso pendente in Cassazione – che riguarda la Mondadori, dal valore stimato in circa 200 milioni di euro.
Sarà per questo che la norma è stata ribattezzata “lodo Cassazione”?

UN DECRETO TROPPO EVASIVO

Giusto in tempo per le elezioni regionali, è stato varato il decreto incentivi di cui si parlava da mesi. Si tratta di 420 milioni in totale, ma 150 milioni rappresentano un diverso utilizzo di fondi già stanziati. I nuovi 270 milioni dovrebbero arrivare da norme antievasione. Entrate, dunque, incerte per loro natura. Il decreto è poi una somma di microinterventi, distribuiti a vari settori, che difficilmente solleciteranno nuova domanda. Nel complesso, un decreto senza personalità, poco utile sul piano economico, con costi di attuazione da non sottovalutare.

SCUDO FISCALE TER: A VOLTE NON RITORNANO

Il 29 dicembre 2009 il Mef comunicava il grande successo dell’operazione scudo fiscale ter sintetizzandolo in due numeri: 95 e 98.  95 miliardi di euro il volume delle operazioni interessate dallo scudo di cui  98 per cento costituito  da  rimpatri effettivi in Italia. Numeri che marcano uno straordinario successo, segno di forza della nostra economia e di fiducia nell’Italia.
Nel commento del 5 gennaio sottolineavo come il comunicato, pur formalmente corretto, fosse nella sostanza fuorviante:  volesse cioè far credere che il 98% dei 95 miliardi scudati fosse davvero rientrato in Italia, pronto ad affluire alle nostre imprese in crisi. Il trucco comunicativo consisteva nel giocare sull’ambiguità del termine "rimpatri effettivi", senza ricordare che essi consistono di rimpatri veri e propri e di rimpatri  giuridici i quali, analogamente a quanto avviene per le regolarizzazioni, non comportano alcun disinvestimento di attività estere.
Richiamare questa distinzione sarebbe stato cruciale per la correttezza e la trasparenza dell’informazione: già al momento in cui il comunicato è stato emesso erano infatti molte le valutazioni, effettuate da osservatori privilegiati, che facevano ritenere che per una quota rilevante i rimpatri da scudo fossero in realtà soltanto rimpatri giuridici.
La distinzione fra rimpatri veri e propri da un lato e rimpatri giuridici e regolarizzazioni, dall’altro, è necessaria per costruire statistiche appropriate relative alla bilancia dei pagamenti del nostro paese in cui solo i primi devono essere registrati. L’informazione relativa è stata quindi raccolta dalla Banca d’Italia, che proprio ieri ha pubblicato i risultati  emersi da tutte le segnalazioni statistiche arrivate fino al 15 febbraio 2010. Essi riguardano 85 dei 95 miliardi di euro ricordati dal Mef, in quanto  la rilevazione della Banca d’Italia esclude alcuni beni patrimoniali, le operazioni di importo inferiore a una soglia di rilevazione di 50000 o 12500 euro a seconda del paese considerato, e le situazioni in cui l’effettivo rimpatrio o regolarizzazione delle attività "scudate", per le quali cioè si è gia versata l’imposta, sia stato differito, come ammesso dalla normativa.

Ed ecco i risultati

Rimpatri con liquidazione                                                                 34,9 mld di euro
Rimpatri senza liquidazione e regolarizzazioni                                 50,3 mld di euro

Totale                                                                                              85,1 mld di euro

I rimpatri con liquidazioni, gli unici che potrebbero segnare quella fiducia nell’Italia ricordata dal Mef sono quindi soltanto il 41% del totale.
Suggerisco di aggiornare il comunicato Mef del 29 dicembre come segue: due i numeri  per sintetizzare i risultati dello scudo ter: 95 e 41.

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