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Autore: Mario Macis Pagina 2 di 3

Macis Laurea al DES in Bocconi e PhD in Economics alla University of Chicago, Mario Macis e’ Professore di Economia alla Johns Hopkins University, Carey Business School. E’ anche Research Associate al National Bureau of Economic Research (NBER) e all’ Institute of Labor Economics (IZA). Il Prof. Macis è un economista applicato con interessi di ricerca in economia della salute, del lavoro, dello sviluppo, e in market design. Ha pubblicato su importanti riviste accademiche, tra cui American Economic Review, Journal of Labor Economics, Journal of Health Economics, Journal of Development Economics, Management Science e Science. I suoi studi sono stati finanziati da agenzie pubbliche e private, tra cui NSF, NIH e Gates Foundation. Il Prof. Macis e’ stato consulente della Banca Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’, dell’Ufficio Internazionale del Lavoro, del Development Programme delle Nazioni Unite, e del National Marrow Donor Program degli Stati Uniti. Nel 2020-2022 e’ stato membro di una commissione della National Academies of Sciences, Engineering and Medicine incaricata di formulare raccomandazioni al Congresso degli Stati Uniti per un sistema di approvvigionamento e allocazione degli organi per trapianto più equo ed efficiente.

Mercato del lavoro Usa in mezzo al guado

Secondo gli ultimi dati, il mercato del lavoro Usa è in crescita. Però, i livelli pre-pandemia non sono ancora stati recuperati e rimangono i divari etnici e di genere. Presto per dire se lo sbilanciamento tra domanda e offerta di lavoro è solo passeggero.

Tre piani per cambiare volto all’America

I tre piani economici di Biden sono ambiziosi e contengono misure innovative per gli Usa. Affermano il ruolo dello stato nel promuovere allo stesso tempo crescita e giustizia sociale. L’influenza del presidente sulla società va oltre le leggi approvate.

Così la Bidenomics vuol ricostruire l’America

Investire in infrastrutture fisiche e sociali: è l’obiettivo del piano da 4 mila miliardi dell’amministrazione Usa. I programmi di Joe Biden si fondano su idee economiche nuove o trascurate da molto tempo. Sarà interessante vedere con quali risultati.

La scommessa di Biden

Il piano firmato da Biden non guarda solo all’emergenza, ma contiene elementi per una riforma del sistema di welfare statunitense, per ridurre povertà e diseguaglianze. Certo con alcuni rischi. Ma dopo quattro anni l’America torna a essere un esempio.

Dopo il lockdown cresce l’ottimismo ma senza illusioni

Gli italiani mostrano una maggiore attitudine a riprendere le consuetudini pre-pandemia rispetto a qualche settimane fa. Aumenta però anche lo scetticismo sul grado di preparazione del paese nell’affrontare il virus. I risultati di un nuovo sondaggio.

Sorpresa: italiani cauti sul ritorno alla normalità

Non basta riaprire le attività commerciali perché tutto torni come prima, contano molto anche i comportamenti dei consumatori. Nella “fase 2” sono pronti a riprendere le consuetudini pre-pandemia? I risultati di una indagine mostrano una diffusa prudenza.

Quanto manca? Fine del lockdown e regole da rispettare

La maggior parte degli italiani ha finora rispettato le misure di autoisolamento. Ma uno studio suggerisce che sono cruciali le aspettative sulla loro durata. Un risultato da considerare anche in vista di una possibile nuova ondata di infezioni.

Cosa pensano gli italiani dell’autoisolamento

La maggior parte degli italiani si aspetta una proroga oltre il 3 aprile delle misure di isolamento sociale. È anche pronta a mantenere o aumentare gli sforzi. Ma se la data supera le previsioni di ciascuno cala la volontà di rispettare le restrizioni.

IN AMERICA NON SAREBBE SUCCESSO? FORSE SÌ

Hanno destato giustamente scandalo, nella comunità scientifica italiana, e non solo, due recenti concorsi per ricercatore di economia all’università del Piemonte Orientale e all’università dell’Insubria, in cui a vincere sono stati i candidati con i contributi scientifici obiettivamente più scarsi. Lavoce.info ne ha riferito, facendo eco a iniziative partite da altri gruppi e siti web. (1)
In questi giorni si è spesso sostenuto che in altri paesi, e specialmente in Nord America, cose del genere non sarebbero mai successe. Vogliamo qui lanciare invece una provocazione, sostenendo che anche in università nordamericane, candidati simili avrebbero potuto risultare come i migliori, nonostante il loro magro o inesistente curriculum scientifico. Il motivo risiede nel funzionamento del mercato accademico e nell’organizzazione del sistema universitario in Nord America, che fanno sì che criteri diversi possano essere usati per assumere candidati in diverse università, per garantire maggior efficienza e responsabilità.
Prima di sviluppare il nostro ragionamento, tuttavia, è importante precisare che, date le regole che governano i concorsi in Italia e i criteri di svolgimento e selezione che le commissioni sono tenute a seguire, le nostre osservazioni non sono attualmente applicabili al contesto italiano. E proprio per questo, esiti come quelli dell’università del Piemonte Orientale e dell’università dell’Insubria vanno segnalati e combattuti.

LA SELEZIONE DEI DOCENTI IN USA

Il mercato accademico in Nord America (e sempre più anche in altri contesti) è del tutto decentralizzato (qui il precedente intervento). Ogni università comunica l’apertura di posizioni di ricercatore o professore; la posizione può essere specifica o idiosincratica alla particolare università o dipartimento. Per rimanere al caso di economia col quale abbiamo più familiarità, un dipartimento può aver bisogno di un economista industriale o del lavoro, o di un macroeconomista. Di conseguenza, i criteri per assumere un candidato non sono sempre gli stessi. Se un dipartimento cerca un ricercatore che insegni e si occupi di economia del lavoro, potrebbe non offrire la posizione al candidato col maggior numero e qualità di pubblicazioni, se queste non sono pertinenti alla materia di interesse, o, più in generale al candidato, pur bravissimo, che non risulti un buon “fit” (anche, perché no, in termini di personalità) per quel particolare gruppo di colleghi.
Altrettanto importante è il fatto che non tutte le università sono uguali, sullo stesso livello e interessate agli stessi parametri qualitativi e quantitativi. Ci sono università orientate alla ricerca: qui si darà importanza ai risultati e al potenziale scientifico di un candidato. Ci sono poi le università in cui l’attività di ricerca è limitata o inesistente. Rientrano in questa categoria i “Liberal Arts colleges”, così come i community colleges, ovvero istituzioni locali che offrono programmi post-secondari specifici. In queste scuole, si cercano docenti con capacità e interessi diversi: non sempre, ad esempio, il miglior scienziato è anche il miglior insegnante. Inoltre, esiste anche una differenziazione “verticale”: in entrambi i gruppi ci sono università di migliore e peggiore qualità. Ad esempio, alcuni Liberal Arts colleges, dove l’attività di ricerca è minima, sono tuttavia molto prestigiosi e hanno educato importanti leaders. Per esempio, il segretario di Stato Hillary Clinton ha studiato a Wellesley, un Liberal Arts college, imparando da professori con un curriculum scientifico limitato, ma di certo ottimi insegnanti e formatori.
Le università locali e i community colleges godono di uno status inferiore. Questo non le rende meno importanti, ma semplicemente diverse e non paragonabili alle research universities o ai Liberal Arts colleges. (2)
Le differenziazioni hanno conseguenze importanti in termini di finanziamento e riconoscimento. Non tutte le scuole sono finanziate con gli stessi criteri e in egual misura (sia quelle pubbliche, sia quelle private) e anche i salari dei professori sono differenziati. Per le università orientate alla ricerca, produrre risultati scientifici di eccellenza è essenziale per ottenere fondi, e anche per attirare un certo tipo di studenti. Per le università dedicate principalmente all’insegnamento, i criteri di finanziamento sono diversi, improntati, appunto, alle attività didattiche.
L’annuncio di un posto vacante in un determinato dipartimento specifica le caratteristiche richieste dalla posizione, ma i criteri di scelta di ciascun dipartimento non sono di solito resi pubblici. Al contrario, ciascun dipartimento sceglie tra i vari candidati in piena autonomia. Tuttavia, il dipartimento stesso sopporta i costi dell’eventuale assunzione di un candidato mediocre o inadatto alla posizione: il suo prestigio cala, e con esso calano i finanziamenti e la disponibilità a pagare degli studenti. Dunque, ha tutti gli incentivi per fare la scelta migliore. I dipartimenti godono anche di piena autonomia nello stabilire il carico di insegnamento e il salario dei singoli ricercatori e professori. Quindi, candidati con diverse preferenze, predisposizioni e livelli qualitativi vengono “abbinati” alle diverse scuole dai meccanismi di mercato.

IL CONFRONTO CON L’ITALIA

Le differenze con la situazione italiana sono notevoli. In Italia, i dipartimenti godono di autonomia nella selezione dei vari candidati, ma non pagano le conseguenze di scelte sbagliate, perché i finanziamenti sono in larghissima misura slegati dalla performance dei docenti (di ricerca o di insegnamento). È per questo motivo che casi come quello dell’università del Piemonte Orientale o dell’università dell’Insubria fanno tanto clamore: l’autonomia slegata dalla responsabilità si trasforma in puro arbitrio, e quindi in ingiustizie e inefficienze.
Date le regole attuali, una maggiore trasparenza nei criteri di selezione, accompagnata da maggiore attenzione da parte della comunità accademica, possono essere efficaci nell’individuare e prevenire casi come quelli del Piemonte Orientale o dell’Insubria in cui viene scelto il candidato obiettivamente peggiore. (3)
Crediamo però che il sistema andrebbe riformato in modo da garantire che i talenti vengano assegnati alle posizioni in cui sono maggiormente produttivi. Perché ciò accada, occorre però accettare che spesso il candidato migliore per una certa posizione non è quello con i titoli migliori sulla carta. I dipartimenti devono avere autonomia nello scegliere ricercatori e professori, ma devono anche essere responsabilizzati e pagare le conseguenze di scelte sbagliate. Se l’università del Piemonte Orientale o quella dell’Insubria vogliono assumere il candidato con zero pubblicazioni facciano pure, a patto che ne sopportino le conseguenze. Se vogliono caratterizzarsi come università votate alla ricerca, assumendo i peggiori candidati dovranno pagare le conseguenze in termini di minori finanziamenti e attrattività verso i futuri ricercatori – e anche in termini di prestigio dei selezionatori stessi. Se invece vogliono caratterizzarsi come università locali, di livello inferiore, oppure votate prevalentemente all’insegnamento, allora magari i candidati che scelgono sono dei buoni insegnanti. La competizione per i finanziamenti dovrà essere separata da quella delle università votate alla ricerca. In particolare, sarà in gran parte dovuta alle rette degli studenti, che saranno disposti a pagare in proporzione alla qualità dell’insegnamento. I docenti, con ogni probabilità, verranno pagati meno di coloro che svolgono anche attività di ricerca. L’allocazione dei talenti sarebbe così più efficiente. Maggiore competizione, su livelli multipli (qualità, vocazione dell’ateneo), toglierebbe potere contrattuale ai “baroni” e consentirebbe, ad esempio, ai migliori giovani ricercatori di competere “ad armi pari” e di avere maggior accesso a posizioni di ricerca.
Quanto descritto qui non può avvenire in Italia a “regime vigente”, ma solo riconoscendo che le università non sono necessariamente tutte uguali – e l’abolizione del valore legale del titolo di studio sarebbe un primo passo – rendendo più diretto il legame tra qualità e finanziamenti e mettendo in moto meccanismi per cui i vari atenei siano stimolate ad eccellere, anche in virtù di una sana concorrenza, e a differenziarsi.

 

(1)  http://petizionesecsp01.wordpress.com/2011/12/09/33/ e http://petizionesecsp01.wordpress.com/2012/02/18/
(2) Queste differenze di tipo e di qualità sono formalizzate da una serie di programmi di accreditamento e da graduatorie stilate da varie organizzazioni. Ad esempio, la Carnegie Foundation classifica le università in diversi livelli qualitativi (in generale e in relazione al tipo o focus della scuola); la rivista Us News pubblica periodicamente classifiche di università e programmi post-laurea, generali e in base a specifiche sottocategorie. Per quanto riguarda specifiche facoltà, esistono programmi di accreditamento come quello offerto da AACSB International, Association to Advance Collegiate Schools of Business, nel caso di facoltà economico-aziendali.
(3) Nei due casi le tabelle comparative non hanno bisogno di ulteriori commenti. Vedi: http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2011/12/concorso-alessandria-322.pdf; http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2012/02/concorso-insubria.pdf

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Cari Lettori,
le vostre riflessioni hanno contribuito ad arricchire la conoscenza sull’argomento stimolando un ampio dibattito.

Sui contenuti:

1)     La diffusione: In Europa il nucleare è al primo posto nel confronto del mix delle fonti per la produzione di energia elettrica con il 31%. Il carbone è al 28%, il gas al 21%, le rinnovabili sono al 14% e il petrolio al 4% (cfr. Enea Rapporto energia ambiente 2007 – Luglio 2008). E’ ormai opinione comune che solo un mix equilibrato delle fonti energetiche è in grado di favorire l’efficienza energetica.

2)     Le scorie: se è vero che oggi le centrali nucleari sono più sicure di vent’anni fa, è anche vero che le scorie rimangono un problema e il loro smaltimento richiede tempi lunghissimi. Riguardo lo smaltimento, la gestione dei rifiuti prende in considerazione il loro isolamento dalla biosfera per il tempo necessario a consentire il decadimento della radioattività presente. Nel caso di rifiuti a bassa attività, che costituiscono circa il 95% dell’intera produzione (cfr. Enea Rapporto energia ambiente 2007 – Luglio 2008), l’isolamento può essere garantito anche dal calcestruzzo che ha dimostrato di avere proprietà meccaniche, idrauliche e chimiche idonee per questo fine. Nel deposito definitivo dei rifiuti a vita lunga, la soluzione che ormai viene universalmente attuata è il loro deposito in alcune formazioni geologiche profonde adatte a restare stabili e inalterate nel tempo. Hanno questi requisiti i giacimenti come i bacini salini, specie quelli di salgemma e quelli argillosi e altri particolari tipi di rocce cristalline come i graniti non fratturati. In Francia si stanno sperimentando sistemi che prevedono la separazione in appositi reattori dei prodotti a più alta attività e la loro trasmutazione in radioisotopi a vita breve.

3)     La pericolosità delle centrali: mi chiedo se siano più pericolose le “eventuali” centrali italiane sottoposte a rigidissimi controlli, oppure se dobbiamo temere maggiormente alcune centrali nucleari che sono a pochi chilometri dai nostri confini come quelle al di là dell’Adriatico. Dopo il 1987 c’è da domandarsi se ha ancora senso importare energia in dosi massicce da paesi vicini al nostro che la producono con la tecnologia nucleare: questo non ci protegge da eventuali incidenti esponendoci nello stesso modo ai rischi di dispersione sul territorio e ci fa sostenere gravosi costi di acquisto dell’energia.

4)     Energie alternative: La previsione della European Photovoltaic Industry Association (cfr. http://www.epia.org/) per il 2025 è di avere una potenza fotovoltaica mondiale installata di 433 GW con una produzione di energia elettrica corrispondente a circa il 3% della stima di consumo mondiale. In Italia l’attuale dipendenza energetica è frutto di anni di incurie: oggi dipenderemmo meno dall’estero se avessimo investito nelle rinnovabili. Siamo il paese del sole e per vedere i tetti fotovoltaici dobbiamo andare in Germania. Da noi ci sono alcune zone, soprattutto nelle Isole, fortemente battute dal vento ma i maggiori produttori di energia eolica in Europa sono la tedesca E.ON e le spagnole Gamesa e Endesa. Anche in questo caso c’è da chiedersi perché negli anni non abbiamo investito seriamente in queste tecnologie accumulando, così, un imbarazzante ritardo nella ricerca e nello sviluppo.

5)     Sviluppo sostenibile-autonomia energetica: I dati dell’International Energy Agency dello scorso anno (cfr. http://www.iea.org) indicavano l’Italia come il secondo paese al mondo per importazione di energia elettrica: acquistiamo circa l’84 per cento del fabbisogno. Non è auspicabile continuare a dipendere in modo così ampio dalle importazioni per soddisfare una crescente domanda. I nostri consumi negli ultimi anni sono aumentati enormemente, pensiamo solo alla diffusione dei condizionatori o agli impianti industriali sempre più energivori. Anche la domanda mondiale è in crescita: le previsioni contenute nel Word Energy Outlook 2008, riportano un incremento medio della domanda mondiale dell’1,6% annuo durante il periodo 2006-2030.

6)     Il piano energetico nazionale: un piano energetico dovrebbe prevedere un programma di sviluppo che tenga conto delle risorse per l’efficienza energetica, per lo sviluppo delle rinnovabili e investimenti nella ricerca in modo da non dover rinunciare alle, sempre più strette, sinergie interdisciplinari.

7)     Nucleare si o no: Una cosa è certa: il nostro Paese accusa ritardi enormi nella ricerca e non possiamo permetterci di continuare a dipendere, nelle proporzioni sopra indicate, dall’estero. E’ necessario trovare presto delle alternative, siano le rinnovabili (che da sole però non bastano) o lo stesso nucleare, che ci permettano di ridurre le importazioni di energia.

Oscar Wilde diceva che “il non fare nulla è la cosa più difficile del mondo”. In questi anni noi ci siamo riusciti.

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