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Autore: Paolo Balduzzi Pagina 15 di 16

Balduzzi Si laurea all’Università Cattolica di Milano e consegue M.Sc. e Ph.D. in Economics presso la University of Edinburgh. Dopo una breve esperienza presso l’Università di Milano-Bicocca, diventa ricercatore in Università Cattolica, dove insegna Scienza delle finanze ai corsi diurni e serali, triennali e magistrali. Ha insegnato anche al Dottorato in Economia e Finanza delle Amministrazioni Pubbliche dell’Università Cattolica, all’Università di Milano-Bicocca e alla Scuola Superiore di Economia e Finanza. I principali interessi di ricerca riguardano la political economy, con particolare riferimento al ruolo delle leggi elettorali, il federalismo fiscale, la finanza pubblica, le pensioni e la disuguaglianza intergenerazionale. Ha contribuito a libri e pubblicato articoli su riviste internazionali. E’ membro e Segretario generale dell’associazione ITalents. È stato membro della Commissione tecnica per la revisione della spesa guidata da Carlo Cottarelli per i capitoli di spesa sui costi della politica. È stato Consulente tecnico per la Presidenza del Consiglio al tavolo delle trattative con le Regioni per la concessione di maggiore autonomia ex art 116 comma 3 della Costituzione.
Da novembre 2017 è editorialista presso "Il Messaggero"

Le ragioni della rottamazione

I giovani sono il motore del cambiamento, ma in Italia hanno scarso peso e spazio. Come mostra anche un indice che permette di misurare il degiovanimento della società italiana e valutarne le implicazioni, coniugando aspetti demografici e di partecipazione politica potenziale. Classe dirigente che non si rinnova e accanimento nel mantenere a lungo le leve del potere potrebbero influenzare i più generali risultati negativi del paese. Per esempio, c’è una relazione positiva tra questo indicatore e quello che misura i livelli di transparency e accountability nei vari paesi.

 

Università: dal test d’ingresso alla prova unica

Perché molte università ricorrono ai test di ingresso? Perché il voto dell’esame di Stato non viene percepito come un valido indicatore. Ma i test non sono uno strumento di selezione efficiente ed efficace. Ignorano totalmente il percorso scolastico dei candidati, non considerano la capacità di organizzare lo studio nelle materie specifiche e devono essere disegnati dalle singole università. Si potrebbe invece introdurre una prova unica nazionale che testi capacità logiche, conoscenze culturali e capacità di apprendimento di ciascun studente.

COOPTATI O VOTATI: COME SELEZIONARE POLITICI MIGLIORI?*

Il complicato sistema elettorale per i Consigli regionali prevede sia candidati “bloccati” dai partiti sia candidati scelti con il voto di preferenza. Abbiamo analizzato le differenze di profilo degli eletti con le due metodologie in Lombardia. Per capire su chi cadono le scelte dei cittadini considerando sesso; titolo di studio; età media, minima, e massima; incarichi precedenti in Consiglio regionale. Alcuni risultati destano qualche sorpresa.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti commenti si chiedono, giustamente, come il vincolo dei due mandati sia compatibile con la ricandidatura di alcuni Governatori. Senza la pretesa di esaurire il dibattito in poche righe, la questione ruota intorno all’interpretazione del dettame di legge come “direttamente applicabile” o come invece “principio generale che deve essere recepito dalla legge elettorale regionale”. Nel primo caso, i candidati che avessero già svolto due mandati con elezione diretta non potrebbero essere rieletti, benché, di principio, candidabili. Sotto questo punto di vista, non sono da escludere eventuali ricorsi nel caso in cui, per esempio, Formigoni venisse rieletto. Nel secondo caso, invece, la mancanza di una legge elettorale regionale che esplicitamente accetti i principi della legge nazionale sul vincolo di mandato rende tale vincolo inapplicabile. Si noti che il vincolo dei due mandati di per sé è poco incentivante per il politico che non può più essere rieletto. Per questo motivo, e per rimuovere una evidente disparità di trattamento nei confronti dei Sindaci, è utile che si ripensi all’opportunità di tale vincolo.
Per quanto riguarda la selezione della classe politica, non esiste evidentemente una legge elettorale ideale, vista l’influenza dei partiti a selezionare i candidati ex ante. In linea di principio, la possibilità di esprimere una preferenza rende i politici eletti più responsabili di fronte agli elettori, rispetto ai politici eletti tramite lista bloccata. Il sistema delle primarie potrebbe inoltre aprire maggiormente il processo di selezione all’influenza dell’elettorato, rendendo così ancora più democratico il procedimento elettorale

Per quanto riguarda il tediosamente caustico commento di Bruno Stucchi chiarisco che durante la prima seduta si verifica (e non decide) sul rispetto delle cause di ineleggibilità. Un ulteriore aspetto interessante dalla norma sul secondo mandato è che, pur riferendosi la legge espressamente all’"eleggibilità", la parallela previsione di elezione diretta del Presidente fa supporre ad alcuni che ciò implichi anche la sua "incandidabilità". Sono generalmente previste anche esplicite cause di "incandidabilità" oltre che di "ineleggibilità"; non è quindi vero che chiunque si possa candidare. Si pensi solo alla necessità di raccogliere le firme, per fare un esempio legato all’attualità. La questione non è banale come può sembrare; ciononostante, gli arguti autori immaginano i loro figli impegnati alle materne con ben altri e più affascinanti problemi.

L’INGEGNERIA ELETTORALE REGIONE PER REGIONE

Il 28 e 29 marzo si terranno le elezioni per il rinnovo di tredici consigli regionali. Elezioni importanti, che hanno una fortissima valenza politica. Ma con quale sistema elettorale si vota? Una legge costituzionale del 1999 dà alle Regioni la possibilità di disciplinare in maniera indipendente le norme elettorali. E il quadro delle regole sul voto è oggi molto variegato. Non mancano neanche i conflitti con lo Stato, che ha fissato i principi generali a cui le Regioni dovrebbero attenersi. Il caso più eclatante è sul vincolo al numero dei mandati del presidente.

QUEI CITTADINI CHE VOTANO MA NON PAGANO TASSE

Torna agli onori della cronaca la Circoscrizione estero. Per facilitare l’esercizio di un diritto dei connazionali che risiedono in altri paesi sarebbe bastato il voto per corrispondenza. Invece la legge sul voto degli italiani all’estero finisce per garantire una rappresentanza senza tassazione: cittadini che non pagano tasse in Italia e non usufruiscono dei servizi influenzano con il loro voto le tasse che gli italiani residenti pagano e i servizi che ricevono. Viceversa, gli immigrati regolari nel nostro paese sono soggetti a una tassazione senza rappresentanza.

SE LA RIPRESA PUNTA SUL VERDE

Con la crisi cresce l’interesse per i cosiddetti lavori verdi, legati allo sviluppo di energie alternative. Non mancano le opinioni critiche, ma dal settore potrebbe derivare un aumento sia della produttività che dell’occupazione. E dunque i green jobs potrebbero permettere di riassorbire parte della crisi occupazionale che colpisce settori più tradizionali dell’economia. In ogni caso, hanno un valore intrinseco di tutela ambientale che ha un suo peso economico. E potrebbero consentire, indirettamente, una redistribuzione di risorse a favore delle generazioni future.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Nel nostro articolo veniva ribadita la necessità e l’urgenza dell’eliminazione delle maggiori barriere anagrafiche che i giovani italiani trovano all’entrata in Parlamento sia a Roma che a Strasburgo. Si diceva inoltre che un ulteriore modo per ridurre la perdita di consistenza del peso elettorale dei giovani è il riconoscimento del diritto di voto alle seconde generazioni di immigrati. Dato però che il degiovanimento italiano è più accentuato che altrove e tenuto conto della crescita di interesse verso la partecipazione sociale e politica dei Millennials, abbiamo anche accennato alla possibilità di allargare a sedicenni e diciassettenni il diritto di voto alle elezioni amministrative. Questo è il punto che sembra trovare maggiore perplessità a giudicare dai commenti.
Su questo tema i nostri motivi a favore sono già stati discussi in un precedente articolo di Alessandro Rosina. Riprendiamo qui schematicamente i principali, che sono i seguenti.
1.      i sedicenni sono considerati sufficientemente maturi per avere un’occupazione e produrre reddito; in base al principio di no taxation without representation dovrebbero avere anche il diritto di poter contribuire a decidere chi amministra il bene pubblico;
2.      se il problema è un voto consapevole, allora dovremmo proporre un test d’ammissione per misurare la consapevolezza e l’informazione di tutti i cittadini (come suggerisce un lettore). Storicamente, il voto si esprime con una "X" anche per far votare gli analfabeti. Va poi considerato che le nuove generazioni hanno accesso tramite la rete a molte più informazioni dei loro padri e soprattutto dei loro nonni. Dare ad essi il voto è anche un segnale di fiducia nei loro confronti. Il fatto stesso di avere la possibilità di incidere attraverso il voto può incentivare una maggiore consapevolezza e partecipazione attiva nella società in cui si vive. Da ultimo, ricordiamo che lo stesso argomento oggi usato contro i sedici-diciasettenni veniva usato in passato contro il voto alle donne.
3.      in Austria i sedicenni votano: sono più maturi ed informati rispetto agli italiani?

Infine, un lettore fa notare come gli studenti fuori sede siano, di fatto, esclusi dal diritto di voto: ha perfettamente ragione. Esistono già seggi ad hoc (si pensi alle case di riposo, ai militari in missione, etc): è così difficile dare la possibilità agli studenti che ne facciano richiesta di votare presso l’università dove risultano iscritti? Ricordiamo che in occasione dei mondiali di calcio in Germania, fu organizzato un seggio ad hoc per far votare gli atleti e lo staff: i giovani calciatori hanno più diritti dei giovani universitari?

IL VOTO EUROPEO DEI RAGAZZI DEL MILLENNIO

Alle elezioni europee voteranno per la prima volta circa 31 milioni di Millennials, i ragazzi diventati maggiorenni nel XXI secolo. Negli Stati Uniti questa generazione è stata determinante per l’elezione di Obama. In Italia sono meno che negli altri paesi e paradossalmente hanno anche maggiori limiti di partecipazione alle elezioni rispetto ai coetanei europei. Come valorizzare la loro voglia di fare? Abbassando a sedici anni l’età del voto e modificando le regole per la cittadinanza dei figli degli immigrati.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo per i commenti ricevuti, davvero molto numerosi. Questo articolo fornisce una replica complessiva, affrontando le critiche che sono state più frequentemente sollevate.

L’obiezione più ricorrente è quella secondo cui “anche altri” sono i problemi dell’università italiana. Indirettamente, questa critica conferma che il punto da noi sollevato merita attenzione. Siamo del resto ben consapevoli che ci siano altri nodi da risolvere nell’Università italiana. L’articolo aveva però la finalità di concentrarsi su un solo di questi aspetti: il numero di volte in cui un esame può essere sostenuto. La preparazione dei docenti, la qualità della didattica e della ricerca, l’adeguatezza delle strutture, l’eccessivo numero di corsi, la sovrapposizione dei programmi, la dubbia coerenza di taluni insegnamenti sono tutti temi già ampiamente dibattuti, anche su questo sito. Non averli menzionati non significa pensare che non siano parte del problema. A nostro avviso, però, una riforma del sistema degli esami nella direzione da noi indicata sarebbe una di quelle riforme a costo zero (anzi a risparmio) che indurrebbe infine vantaggi anche e soprattutto per gli studenti. Ci teniamo particolarmente ad enfatizzare il seguente punto. Crediamo che il circolo vizioso in cui ci ha trascinato la possibilità di appello infinito sia il seguente: il basso costo di ripetizione dell’esame induce molti studenti a tentare diverse volte l’esame senza davvero prepararsi adeguatamente per passare al primo colpo; questo, a sua volta, causa un ingolfamento nelle sessioni di appello, al quale molto spesso (purtroppo) molti professori reagiscono abbassando la qualità dell’esame: per non rivedere “le stesse facce” negli appelli successivi, agli studenti viene concesso poco tempo per dimostrare la loro preparazione e a volte essi sono promossi con il famoso 18 politico; questo alla fine genera frustrazione, senso di arbitrarietà e disaffezione verso lo studio: un problema che molti studenti intervenuti nei commenti hanno denunciato. Cosa cambierebbe con un sistema con pochi appelli? Noi crediamo che si innesterebbe un circolo virtuoso tra studenti più preparati e docenti più motivati, generando risultati negli esami che riflettono più fedelmente la preparazione di ciascuno.

Poiché però siamo parte in causa, cogliamo l’occasione per arricchire il “carnet delle riforme a costo zero”, come quella dell’esame unico, con la proposta della pubblicazione on line obbligatoria delle valutazione degli studenti al corso e al docente. Proprio perché auspichiamo un aumento della qualità dell’università italiana, siamo favorevoli alle valutazioni della nostra didattica e della nostra ricerca e non contrari. Come tanti altri giovani ricercatori, sogniamo – e ci aspettiamo – una progressione della nostra carriera basata sul merito. E la misurazione del merito deve passare necessariamente attraverso determinate valutazioni (degli studenti e anche ministeriali). Ci aspettiamo che gli studenti stessi si battano per promuovere il merito nelle Università. Certo, sarebbe auspicabile che anche il sistema di remunerazione dei docenti assecondasse in parte i “meriti didattici” degli stessi. Ad oggi nelle università dove le cose funzionano bene, i docenti trovano motivazioni (in termini di progressione di carriera, di accesso a fondi, etc.) nel fare ricerca mentre in quelle dove le cose vanno male i docenti non hanno alcun incentivo se non la propria volontà e senso del dovere. In entrambi i casi la qualità della didattica non trova spazio. Bisognerebbe trovare delle formule che incentivino i docenti ad essere sia dei bravi ricercatori che dei bravi insegnanti, con tutte le tensioni che un simile trade-off si porta appresso.
Alcuni commenti sottolineano poi che non sia possibile fare confronti con le realtà all’estero perché la realtà nostra è peculiare. Pur facendo salve le specificità del nostro sistema non possiamo però rinunciare a guardare cosa fanno gli altri (tutti gli altri) solo perché il confronto è imbarazzante. Senza scomodare il mondo anglosassone, sistemi universitari molto più vicini al nostro, come quelli tedesco e francese, non hanno l’anomalia dell’esame ad libitum che abbiamo noi. Da questo dato di fatto emerge la domanda: questa peculiarità è un vantaggio o uno svantaggio per gli studenti? Noi pensiamo che sia decisamente uno svantaggio.
Lo studente che si prepara seriamente all’esame dimostra capacità di apprendimento e senso di responsabilità. Questo studente non teme l’appello unico; egli potrebbe però temere la cattiva organizzazione degli appelli e siamo sorpresi che pochi commenti abbiano evidenziato questo fatto. Avere a distanza di pochi giorni (addirittura nello stesso giorno) esami molto impegnativi può essere scoraggiante o psicologicamente pesante per ogni studente (i patiti dei confronti con l’estero sappiano però che in Gran Bretagna – per esempio – questo è la norma). Crediamo che gli studenti debbano pretendere una distribuzione degli esami più razionale.

La critica secondo cui l’appello unico rischia di penalizzare troppo gli studenti è immotivata. Paradossalmente, anzi, rischia di favorirli fin troppo. Il timore è il seguente: se trovo il docente con la luna storta, verrò sicuramente bocciato. Questo ragionamento vale ovviamente per tutti gli studenti. Il risultato sarebbe un appello senza promossi. Cosa potrebbe accadere l’anno seguente? Nota la severità (o lunaticità) del docente, il suo corso, se non addirittura la sua facoltà, non raccoglierebbero più iscritti. Per evitare questo rischio, i docenti potrebbero forse rendere addirittura fin troppo semplice l’esame, per non scoraggiare i nuovi studenti. In mezzo a questi due estremi, crediamo che con l’appello unico si avrebbero una buona percentuale di studenti promossi e piccole percentuali di studenti bocciati e promossi con lode.

Molte obiezioni riguardano gli studenti lavoratori. Lo studente lavoratore in genere è fuori corso non perché prenda poco seriamente gli esami (per la nostra esperienza infatti, l’impegno e la motivazione di uno studente lavoratore sono mediamente superiori a quelli di uno studente non-lavoratore) ma perché spesso i corsi di laurea sono pensati ed organizzati solo per studenti a tempo pieno.  A nostro avviso la strada da percorrere è quella battuta dall’università di Trento che chiede agli studenti diverse modalità di iscrizioni a seconda che essi siano studenti full o part time. Da questi ultimi ci si aspetta ovviamente ritmi di progressione più lenti, ma questo ha poco o nulla a che fare con la cadenza degli appelli e la possibilità di ripetere gli esami all’infinito e rifiutare i voti positivi. Un’obiezione simile vorrebbe che una riforma siffatta bloccasse l’accesso delle classi meno abbienti all’università. Francamente ci sembra un passaggio ardito. Crediamo che chiedere agli studenti di prepararsi bene per l’esame e programmare con un po’ più di anticipo questa preparazione sia benefico in primo luogo per gli studenti stessi, che infine riuscirebbero, nella maggioranza dei casi, a finire il loro percorso in minor tempo. Sono anzi gli studenti delle classi più abbienti quelli che possono concedersi di rimanere parcheggiati in Università ed espugnare infine un titolo con la strategia della stanchezza solo perché l’istituzione non vede l’ora di liberarsi di loro. A questo ultimo punto si collega una metafora usata in uno dei commenti che ci è piaciuta molto: la metafora sullo studio universitario inteso come “corsa” opposta allo studio visto come “tiro al bersaglio”. Facciamo solo notare che anche nelle gare di tiro al bersaglio vi è un tempo massimo oltre al quale l’avere fatto centro o meno perde di significato.

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