Il decreto crescita allevia solo marginalmente l’aggravio complessivo del prelievo sulle imprese previsto dalla legge di bilancio 2019. Pur rivista, la mini-Ires continua a essere meno conveniente del regime Ace-Iri.
Autore: Paolo Panteghini
Professore ordinario di Scienza delle Finanze, presso il Dipartimento di Economia e Management dell'Università degli studi di Brescia. Research fellow del CESifo e membro del Scientific Advisory Board di MaTax (Università di Mannheim).
Le misure fiscali indicate nella legge di bilancio avranno effetti di cassa negativi su imprese e banche. Per il 2019 si tratta di più di 6 miliardi. Difficile dunque che aiutino a raggiungere gli ambiziosi obiettivi di crescita prospettati dal governo.
Pur restando in attesa della norma definitiva, la legge di bilancio sembra voler abolire un apprezzato sistema di tassazione delle imprese coerente, neutrale e favorevole alla crescita. A sostituirlo sarà una detassazione degli utili macchinosa e complessa.
Una fetta consistente di imprese è costretta a versare imposte anche se registra una perdita. Sono colpite in modo particolare le piccole dimensioni. Essenzialmente è colpa dell’Irap, che ha una base imponibile molto più ampia dei profitti. Ed è allora su quell’imposta che bisogna agire.
La riforma fiscale che il governo ha in mente punta, tra l’altro, a spostare il prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette. Uno studio mostra però che gli aumenti di accise, Iva, Imu e Irpef non sono distribuiti in maniera uniforme, incidono di più sulle famiglie nei primi decili di reddito. Ulteriori interventi devono perciò essere compensati con riduzioni delle imposte sui redditi più bassi. E non solo per ragioni di equità. Ma perché si corre il rischio di ostacolare la ripresa della domanda e della crescita.