Sostituire l’Irap con un’imposta migliore non è facile. Lo dimostra l’insoddisfazione che circonda le proposte finora approntate. Ogni scelta impone di privilegiare un obiettivo a scapito di altri e si scontra con effetti redistributivi molto difficili da gestire politicamente. Sarebbe comunque opportuno evitare di moltiplicare le agevolazioni disperdendole su una miriade di microbiettivi. E prima di procedere con nuovi incentivi, andrebbero valutati con attenzione i costi e gli effetti dei sei interventi attuati sull’Irap negli ultimi sette mesi.
Autore: Silvia Giannini Pagina 8 di 9
Ha studiato economia nelle Università di Bologna e di Cambridge (UK). Nei suoi studi si è occupata prevalentemente degli effetti economici della tassazione dei redditi di impresa e di capitale, della valutazione di proposte di riforma fiscale e dei problemi di coordinamento in ambito comunitario. Ha collaborato con istituzioni e centri di ricerca nazionali e internazionali e ha partecipato a numerosi gruppi e commissioni di lavoro istituiti presso il Ministero delle Finanze. Attualmente è componente della Commissione ministeriale sulle spese fiscali. Professore ordinario di Scienza delle finanze presso l’Università di Bologna (dal 1993), è stata successivamente Vicesindaco del Comune di Bologna, con delega al bilancio, al patrimonio e alle società partecipate, nel mandato amministrativo maggio 2011-giugno 2016.
Dall’analisi dell’insieme delle imposte sulle imprese a carico del lavoro e del capitale emerge che il primo fattore produttivo risulta più tassato del secondo. Ma a ben vedere a essere fortemente sussidiati fiscalmente sono gli investimenti finanziati con debito. Un migliore equilibrio dovrebbe allora essere perseguito attraverso una maggiore neutralità nel trattamento fiscale degli investimenti piuttosto che aumentando indiscriminatamente la tassazione del fattore capitale. L’attenzione quindi non dovrebbe essere concentrata solo sull’Irap.
La bozza di decreto legislativo di attuazione della delega previdenziale interviene anche sulla disciplina fiscale del risparmio previdenziale. Il regime precedente era già generoso anche rispetto al modello classico e non è stato un ostacolo allo sviluppo della previdenza complementare. Il sistema ora proposto non risponde a un disegno razionale e accentua lagevolazione, specialmente nei confronti dei soggetti ad alto reddito. L’onere sul bilancio pubblico è spostato nel futuro, a carico dei Governi che verranno. Ciò contribuisce però a renderla più incerta.
La sostituzione dell’Irap pone problemi di gettito, distributivi e allocativi di estrema importanza e di non facile soluzione. Va perciò evitata l’improvvisazione normativa. Un’ipotesi è dividerla in due o più imposte, ciascuna delle quali riferita alle singole componenti della base imponibile. Una completa detassazione del costo del lavoro priverebbe l’erario di 12 miliardi di euro. Meglio allora escludere dall’imposta solo gli oneri sociali. Tanto più se il mancato gettito fosse recuperato con l’unificazione e l’inasprimento delle aliquote sulle rendite finanziarie.
La possibile bocciatura europea dell’Irap perché doppione dell’Iva pone interrogativi sulla certezza del diritto e la razionalità economica della giurisprudenza comunitaria. Senza considerare le differenze sostanziali con l’Iva, il problema sembra essere un’imposta la cui base è calcolata come differenza “ricavi-costi”. Mentre sarebbe formalmente compatibile con le norme comunitarie, un’imposta che pervenisse allo stesso risultato come somma dei redditi che compongono il “valore aggiunto”.
Non sarà facile trovare un’alternativa all’Irap, la terza imposta del nostro ordinamento dopo Irpef e Iva. Un ritorno ai contributi sanitari sarebbe in contrasto con la filosofia della legge delega che indica come prioritaria l’esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap. Intervenire sull’Ires penalizzerebbe gli investimenti. Aumentare le addizionali regionali o l’Irpef è in contraddizione con i tagli fiscali promessi dal Governo. Le imposte indirette sono già cresciute con la Finanziaria 2005. Anche i suoi detrattori finiranno per rimpiangerla
Dalla revisione sui dati di finanza pubblica del triennio 2001-2003 e dall’andamento nel 2004 apprendiamo di aver vissuto gli ultimi anni sul filo del rasoio del limite del 3 per cento. Per il 2005, le maggiori incertezze riguardano leffettiva realizzabilità di alcune misure decise nella Finanziaria. E non mancano le una tantum, comprese quelle che producono costi per il futuro. Ancora una volta si conferma che il sistema di controllo della spesa pubblica è poco efficace e trasparente, incapace di raccogliere le informazioni in modo completo e tempestivo.
Dopo l’emanazione del dovuto decreto che rincara alcune imposte fisse, il quadro sembra ancora più negativo per i contribuenti di quello tracciato all’indomani della presentazione del maxiemendamento. Se le previsioni di maggior gettito del Governo sono corrette, nel prossimo triennio gli italiani pagheranno in complesso più tasse. Se per vari motivi sono sovrastimate, o comunque di corto respiro, non garantiscono una copertura della riforma dell’Irpef a regime e una tenuta del disavanzo. Saranno allora inevitabili nuove imposte o un taglio delle spese.
L’annunciata svolta epocale in campo fiscale non c’è. Anche accettando le cifre del Governo, la Finanziaria per il 2005 contiene un aumento delle imposte, non una loro diminuzione. Mentre sono andate deluse le aspettative delle imprese per misure sulla competitività, la manovra fiscale ben difficilmente potrà costituire il grimaldello che ci farà uscire dalla crisi economica. Mettendo così in discussione anche alcune voci di autocopertura. Né si sa bene cosa accadrà per studi di settore, revisione degli estimi e inasprimento sulle locazioni immobiliari.
Gli interventi prospettati dal Governo per le imprese ricalcano politiche già adottate e non concentrano le risorse su un obiettivo specifico. E la riduzione dell’Irap è mirata soprattutto ad alimentare l’illusione che possa essere abolita. Sarebbe preferibile utilizzare eventuali risorse per la deduzione dallimponibile dei contributi commisurati al lavoro. Oppure per concentrare gli incentivi su investimenti qualificati, come quelli in ricerca. O ancora per una riduzione generalizzata dell’aliquota Ires, imposta certamente più distorsiva.