L’Italia ha sprecato, nei primi anni dell’euro, l’occasione storica per risolvere il problema del debito pubblico. E oggi trovano sostenitori coloro che propongono ricette miracolose per ridurlo o eliminarlo senza pagare pegno. La realtà, però, è ben diversa.
Autore: Tommaso Monacelli Pagina 5 di 11
Tommaso Monacelli è professore ordinario di Economia all'Università Bocconi di Milano, e Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra. Ha ottenuto il Ph.D. in Economia presso la New York University, ed è stato in precedenza assistant professor a Boston College e professore associato all'Università Bocconi. E' associate editor di riviste scientifiche internazionali, tra cui il Journal of the European Economic Association, il Journal of Money Credit and Banking, e la European Economic Review. E' stato adjunct professor presso la Columbia University, visiting professor presso la Central European University, e research consultant per Bce, Ocse, IMF, e Riksbank. I suoi interessi di ricerca riguardano la teoria e politica monetaria e la macroeconoma internazionale.
Lo statuto della Bce vieta la monetizzazione del deficit di un singolo stato membro. E lo fa a ragion veduta. Un eventuale intervento della Banca centrale è possibile solo attraverso le Omt. Ecco perché si tratta di una virtù e non di un vizio del sistema.
Proposte come quella di annullare 250 miliardi di titoli del debito pubblico italiano detenuti dalla Bce si alimentano della confusione profonda su quali siano i limiti alla capacità della banca centrale di alleviare le obbligazioni fiscali di uno stato.
Il reddito di cittadinanza così come raccontato dal M5s è un reddito di disoccupazione condizionato alla partecipazione attiva al mercato del lavoro. Come si finanzia? Ci sono solo due opzioni: o in deficit o avrà effetti minimi su occupazione e reddito.
Secondo la teoria economica un’attività finanziaria è una bolla quando il valore di mercato a cui viene scambiata si discosta dal suo valore fondamentale. Lo sono dunque tutte le monete e in particolare Bitcoin. Ma non per questo è destinata a scoppiare.
Se i vantaggi di un ritorno alla lira si riducono alla possibilità di svalutare, si possono contrapporre i benefici prodotti da tassi di cambio fissi. Ma sono certi i costi di breve-medio periodo che l’economia italiana pagherebbe con l’uscita dall’euro.
L’inflazione non comporta solo l’aumento del prezzo di beni e servizi consumati dalle famiglie. Ha soprattutto effetti redistributivi. Per questo una fiammata inflazionistica dovuta all’uscita dall’euro e al ritorno alla lira avvantaggerebbe soprattutto lo stato, a danno delle famiglie.
Il messaggio principale della decisione della Federal Reserve sul rialzo dei tassi è che il regime in cui opera l’economia è tornato normale e anche la politica monetaria può tornare a essere tale. E si possono pianificare le mosse future in modo trasparente.
L’apprezzamento del dollaro non dipende da un presunto deprezzamento strategico dello yuan da parte delle autorità cinesi. È dovuto invece al ruolo degli Usa nel sistema finanziario internazionale. I premi pagati oggi sono finanziati dagli enormi rendimenti ottenuti negli anni del boom finanziario.
Perché l’inflazione resta comunque una tassa patrimoniale
Di Tommaso Monacelli
il 11/04/2017
in Commenti e repliche
Famiglie, imprese e redistribuzione
Ringrazio molto i lettori per i commenti al mio articolo “Inflazione, la tassa che piace allo stato”. Riassumendo, ci sono tre tipi di considerazioni: 1. l’articolo ignora la redistribuzione all’interno del settore delle famiglie; 2. ignora il settore imprese; 3. se è vero che l’inflazione è una tassa che redistribuisce ricchezza reale dalle famiglie allo stato, cosa impedisce allo stato di redistribuirla a sua volta, magari a favore di famiglie più bisognose?
Sul primo punto, è certamente vero che non mi sono soffermato sulla redistribuzione all’interno del settore delle famiglie, ma ciò è dovuto a mere ragioni di spazio. Se è vero che l’inflazione ha potenti effetti di redistribuzione della ricchezza reale dai creditori ai debitori, è altresì vero che esistono famiglie “debitrici” e famiglie “creditrici”. Di solito, le prime sono famiglie di giovani che fanno un mutuo per la prima casa e si indebitano nella prospettiva di crescita di reddito futuro. Le seconde sono famiglie mature che risparmiano in vista della vecchiaia. Il lavoro di Klaus Adam e Junyi Zhu citato nell’articolo riporta dati anche su questa dimensione della redistribuzione. Invito quindi i lettori interessati a consultare quello studio.
Quanto al secondo rilievo, in realtà il settore imprese è conteggiato nella misura in cui la posizione finanziaria netta del settore famiglie include (secondo un conteggio complesso, i cui dettagli si trovano nello studio di Adam e Zhu) la partecipazione in aziende.
Sul terzo punto, certamente nulla vieta che lo stato decida di redistribuire la tassa da inflazione (che, si noti bene, è diversa dalla tassa da inflazione dovuta al signoraggio della banca centrale) in favore di settori specifici della popolazione. Ma questo vale per ogni altro tipo di tassa ed è quindi un problema del tutto separato. Il punto dell’articolo è sottolineare che anche tassi di inflazione moderati possono corrispondere a vere e proprie tasse patrimoniali. Che poi si possa decidere, a monte, di tassare il patrimonio per ragioni, a valle, di tipo redistributivo è un problema di politica fiscale concettualmente separato. Ripeto: ciò non toglie nulla all’implicazione logica che l’inflazione, di per sé, sia una tassa patrimoniale.