Enzo Bearzot è morto stanotte a Milano. Nell’anno dei Mondiali se ne va il simbolo stesso della vittoria ai Mondiali. Per la mia generazione la pur stupenda vittoria di Germania 2006 non ha lo stesso valore di quella di Spagna 1982. Ricordiamo ancora tutto di quei giorni di quasi trenta anni fa. La partenza tra le contestazioni e lo schiaffo di una tifosa per la mancata convocazione di Evaristo Beccalossi. Quelli che suggerivano il rientro a casa dopo l’amichevole di Braga. Il girone di qualificazione passato con tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun. L’orrenda divisa sociale con cui erano vestiti Bearzot, Maldini e il Dott. Vecchiet. Il primo silenzio stampa. Il girone della morte con Argentina, campione del mondo in carica, e il magno Brasile, come lo chiamava Gianni Brera, da poco emigrato a Repubblica. I falli di Gentile su Maradona e la vittoria per 2-1 con i gol di Cabrini e Tardelli con l’Argentina. Poi la partita delle partite, quella giocata al Sarrià di Barcellona il 5 luglio 1982. Italia – Brasile 3-2, con tripletta di Paolorossi, tutto attaccato. La vittoria ormai scontata sulla Polonia. E la notte del Bernabeu. 11 luglio. Le fontane unico rimedio per raffreddare la gioia e le strade improvvisamente troppo strette per ospitare anche chi non avrebbe mai creduto di esultare per una squadra di calcio. Il giorno dopo la Gazzetta esaurita la mattina presto perché nessuno poteva perdersi il titolo “Campioni del Mondo”. Dopo il 1938, la vittoria di Vittorio Pozzo in mezzo ai saluti fascisti, l’Italia era di nuovo la più forte nel calcio.
Senza Bearzot tutto questo non ci sarebbe stato. Chi al suo posto avrebbe avuto la forza di difendere il gruppo in mezzo alle polemiche e alle insolenze? Paolo Rossi appena tornato da due anni di squalifica e palesemente fuori forma all’inizio dei Mondiali. Dino Zoff, portiere indiscusso titolare a 40 anni. E chi avrebbe avuto, allo stesso tempo il coraggio di far giocare in finale il ragazzino con i baffi, lo zio Bergomi? Solo un friulano testardo che metteva il gruppo e la sua parola sopra ogni altra cosa.
Il successo di Spagna 1982 non era certo frutto del caso: quattro anni prima, al Mondiale di Argentina, l’Italia era stata la squadra che aveva giocato meglio, anche se era arrivata solo quarta. Con Bearzot si archiviava finalmente il catenaccio: Cabrini che attaccava sempre sulla fascia sinistra, Scirea e Bergomi che, nella finale di Madrid, si scambiavano il pallone nell’area della Germania in occasione del gol di Tardelli erano il simbolo di un’Italia nuova e moderna. Ma non è certo il momento della sociologia spicciola. Oggi ricordiamo una persona che, dopo la dura sconfitta di Messico 1986, se ne era andato senza polemiche e in silenzio. Il tempo di Bearzot nel calcio italiano era finito. Il 1986 è l’anno in cui Berlusconi acquistò il Milan. Da lì iniziarono le presentazioni delle squadre in elicottero e diventò fondamentale la “comunicazione”. Bearzot non era un uomo adatto alla comunicazione. La pipa in bocca e le frasi che uscivano a fatica. Anche per questo non lo scorderemo. Grazie, Bearzot.
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Tra i 314 nomi dei parlamentari che hanno votato il 14 dicembre la fiducia al Governo ce n’è uno che non avremmo proprio voluto vedere. Non è quello del colorito Scilipoti, né quello della Polidori, in odore di Cepu. Non intendiamo infatti entrare nelle complesse transazioni che hanno attraversato il mercato della politica nell’ultimo scorcio di tempo. E’ il nome di Giuseppe Vegas, già sottosegretario al ministero dell’Economia e neo presidente della Consob. Non lo avremmo voluto vedere poiché quel ruolo, cui è chiamato chi il mercato lo deve controllare, avrebbe consigliato di astenersi dal partecipare alla votazione. La nomina del presidente Vegas, al di là dei meriti tecnici che in modo bipartisan gli sono stati riconosciuti, ha sollevato perplessità nell’osservare il passaggio, senza soluzione di continuità, da un ruolo politico a un delicatissimo ruolo di arbitro dei mercati di borsa. Per quanto Vegas sia formalmente ancora parlamentare in attesa di nomina nel nuovo prestigioso ruolo, avremmo apprezzato da lui un gesto di sensibilità che segnalasse, astenendosi dal partecipare alla votazione, che il candidato si sente già soggetto super partes e non, fino all’ultimo momento utile, soggetto politico in attesa di nuovo incarico.
Pare che sia la volta buona: a giorni avremo la nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo economico. Vista la girandola di nomi e le molte false partenze di questi mesi, ci permettiamo di dare qualche suggerimento, sperando di sortire qualche effetto. Chiarendo quali caratteristiche dovrebbe avere un buon ministro dello Sviluppo economico in questa fase difficile della nostra economia. Dovrebbe essere persona convinta e decisa sostenitrice della concorrenza, motore insostituibile per la competitività delle nostre imprese; dovrebbe essere sponsor delle liberalizzazioni, da troppo tempo in sonno profondo; dovrebbe farsi portatore di interventi che evitino il caso per caso e la discrezionalità e che invece agevolino funzioni cruciali per lo sviluppo delle imprese: il sostegno agli sforzi di esportazione in nuovi mercati, di innovazione di prodotto e di processo. Dovrebbe essere figura capace di seguire una molteplicità di settori oggi impegnati in queste sfide, capace di dialogo con le imprese, le forze sociali e le autorità indipendenti, attento alla dimensione europea delle politiche industriali e della concorrenza. E non dovrebbe invece essere persona di limitate prospettive, irrimediabilmente attratta dal settore televisivo, incapace di resistere alla tentazione di entrare in campo e favorire una squadra, maldestra paladina di interessi di parte nelle discussioni a Bruxelles. Insomma, per intenderci, non uno come Paolo Romani.
Post scriptum, 4 ottobre 2010: …appunto.
Scriveva l’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel febbraio 2009 in merito alle fondazioni bancarie:
“La loro centralità per la stabilità, soprattutto nell’attuale fase, deve, quindi, necessariamente essere bilanciata da una nuova e trasparente modalità d’azione, sotto un duplice profilo: la loro modalità di azione come azionisti e la loro stessa struttura di governance. È infatti necessario che le fondazioni rendano trasparente il processo decisionale sulle modalità con le quali esercitano i diritti di voto nelle società partecipate, nonché definiscano i criteri in base ai quali le stesse fondazioni – anche unitamente ad altri azionisti – selezionano i candidati da proporre per le cariche degli organi di governo delle società partecipate, in quest’ultimo caso anche alla luce dell’esigenza di non candidare soggetti caratterizzati da conflitto di ruoli”.
Le due domande che rivolgiamo alle fondazioni azioniste di Unicredit sono: in base a quali criteri avete preso la recente decisione sull’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo? Come intenderete procedere per la sua sostituzione?
Nei mesi scorsi avevamo capito che fosse in cantiere un cambiamento epocale di finanza pubblica. Il governo ha dichiarato che avrebbe finalmente fatto la faccia dura contro l’evasione. Ha poi fatto seguire i fatti alle parole e ha approvato provvedimenti che in futuro dovrebbero portarci a migliorare i risultati su questo fronte. Siamo qui in trepida attesa. Intanto mese dopo mese, si accumulano i dati sulle entrate dello Stato che (come minimo) segnalano la necessità che questa svolta diventi operativa presto. Dal Bollettino della Banca d’Italia di metà settembre si legge: Le entrate tributarie nei primi sette mesi dell’anno sono state pari a 210,374 miliardi di euro, 7,411 miliardi in meno rispetto al periodo gennaio-luglio del 2009, quando sono arrivate a 217,785 miliardi. In termini percentuali, la riduzione è del 3,4 per cento. Se si guarda solo alle entrate tributarie, la voce più facilmente misurabile e che risente meno di minori o maggiori voci straordinarie che sono invece contabilizzate nella voce ”Altre entrate”, le cose vanno anche peggio. Facendo le somme, viene fuori che sono stati persi 11,3 miliardi di euro di entrate nei primi sette mesi del 2010 rispetto agli stessi mesi del 2009. Dato che le entrate tributarie del periodo gennaio-luglio 2009 erano 210 miliardi, vuol dire che le entrate tributarie sono scese di 5.4 punti percentuali. Nel frattempo nello stesso periodo il Pil a prezzi correnti aumentava di circa 2.5 punti percentuali (+1 per cento circa il Pil reale e +1.5 per cento l’inflazione). Aumenta il Pil, scendono le entrate tributarie. Ah è vero, sarà perché il governo ha tagliato le tasse come aveva promesso. Beh, veramente no, tagli e riforme fiscali sono argomenti per le chiacchiere estive, mica li si fanno veramente. Verrebbe da dire che se il ministro dell’Economia occupasse una parte più consistente del suo tempo a far arrivare i soldi nelle casse dello Stato anziché andare per sagre di partito a discettare della sicurezza sul lavoro, darebbe un bel contributo a - come dice lui – mettere i conti in sicurezza.
Il Ministro Gelmini è stata molto presente nel dibattito pubblico estivo, intervenendo ad esempio sui contrasti tra il Premier Berlusconi e il Presidente della Camera Fini, sui licenziamenti della Fiat o semplicemente parlando della sua vita privata.
Non ha neanche trascurato i suoi doveri di Ministro dell’Istruzione, rassicurando le scuole paritarie che i fondi a loro destinati non sarebbero stati toccati. Ma nulla ha detto e, soprattutto, fatto per l’edilizia scolastica.
Pubblicando i risultati degli stress test delle maggiori banche europee, l’Ue ha compiuto un passo verso la maggior trasparenza e stabilità dei mercati finanziari. Ma alcuni aspetti del processo destano notevoli perplessità e altri risultano poco chiari, per cui nonostante le soddisfatte reazioni di policy maker, di molti commentatori e dei banchieri, gli scopi che l’Ue si prefiggeva con la pubblicazione di questi risultati non sono stati pienamente raggiunti. Tanto che vi è stato anche chi ha detto che si è trattato di un’occasione sprecata.
La norma che innalza la soglia per gli assegni di invalidità dal 74 per cento all’85 per cento sarà cancellata dichiara martedì 6 luglio l’onorevole Antonio Azzollini, relatore di maggioranza della manovra economica in discussione in questi giorni in Parlamento. Ma le associazioni che rappresentano le persone con disabilità non si fidano e confermano la giornata di protesta prevista per il 7 luglio davanti a Montecitorio.
Grazie ai militanti della Lega adesso sappiamo davvero cosa è il federalismo in salsa padana. Nei giorni scorsi hanno tempestato di telefonate sedi di partito ed emittenti padane alla ricerca di chiarimenti. I sindaci del Carroccio si sono rifiutati di salire sul palco della festa di Pontida. Come è possibile, si chiedevano molti di loro, che un Governo in cui la Lega conta sempre di più abbia regalato miliardi alla Sicilia spendacciona, abbia salvato dalla bancarotta il Comune di Catania, regalato 300 milioni a quello di Roma in un momento in cui ne taglia 2500 a tutti gli altri, e adesso riduca del 14 per cento i fondi alle Regioni del Nord? Che razza di federalismo, si chiedevano, può di fatto commissariare tutti gli enti territoriali togliendo loro qualsiasi margine di autonomia fiscale, con l’eliminazione dell’Ici e il blocco di tutte le addizionali?
La risposta, un po’ stizzita, è arrivata da Pontida. Umberto Bossi e gli altri leader della Lega ci hanno finalmente chiarito qual è la visione federale del partito. Si regge su quattro pilastri.
Il primo è il folklore. La squadra della Padania ha vinto i campionati mondiali di calcio, ha sottolineato con orgoglio il padre del Trota, team manager della rappresentativa. Non sappiamo se al prestigioso Campionato partecipasse la rappresentanza di Bahia, capitanata da Ricardino Kakà. O solo la squadra dell’oratorio di Klagenfurt. Ma l’importante è vincere. Evviva.
Il secondo è l’amore. Come ha sottolineato Bossi, la Lega è amata in tutto il mondo. Per fare un esempio, ha parlato della Svizzera. Lì i banchieri e le mucche, se ci presenta come militanti della Lega, ti accolgono come fratelli. Si hanno tutte le porte (incluse quelle delle cassette di sicurezza?) spalancate.
Il terzo pilastro è l’acqua. Finalmente il Lago Maggiore è tornato in Lombardia, finalmente la regione più ricca ha la sua spiaggia. Ce ne rallegriamo. Potremo finalmente non doverci più portare appresso il passaporto (e in bicicletta appesantisce alquanto la pedalata) quando andiamo a Stresa.
Il quarto è il campanile. Lavori pubblici e servizi sociali solo ai residenti di quel municipio, possibilmente da almeno 10 generazioni. Solo che qui si sa dove si comincia e non dove si finisce. Perché Sulbiate inferiore dovrebbe accettare che anche i residenti di Sulbiate superiore partecipino a un concorso per vigile urbano? E la frazione della frazione di Buccinasco che diritti ha? Inutile spiegare a Bossi & C. che le grandi federazioni, come gli Stati Uniti, si reggono proprio sulla mancanza di ogni discriminazione territoriale tra i cittadini residenti in luoghi diversi. Come tra parentesi, fa anche la nostra Costituzione e il Trattato Europeo. Dal Bill of Rights siamo passati al Boss of Rights.
La vicenda della trattativa di Pomigliano sta prendendo una brutta piega. Il rifiuto della Fiom di firmare l’accordo apre la porta a qualunque scenario, incluso la smobilitazione dello stabilimento. Tutti, dal sindacato ai politici ai commentatori, interpretano la trattativa in chiave di significati altri: il futuro della contrattazione aziendale, la costituzione, un cavallo di troia per attaccare i diritti di tutti i lavoratori. Sono temi importanti, ma che fanno perdere di vista l’aspetto fondamentale: il sito produttivo di Pomigliano. Perché la Fiat pretende clausole molto dure in termini di rispetto degli impegni assunti? La ragione è che teme la rinegoziazione ex post. La Fiat vuole rilanciare Pomigliano utilizzando tecnologie produttive d’avanguardia, che richiedono l’accordo con forza lavoro per un utilizzo intensivo degli impianti e per ridurre al minimo costose interruzioni della produzione. Oggi la Fiat ha molto potere contrattuale, perché può decidere di spostare l’investimento altrove. Ma una volta spesi gli 800 milioni sarà molto più complicato usare questa minaccia: ex-post, il potere negoziale si sposta dalla parte dei sindacati. L’intento della Fiat è quindi di mantenere potere contrattuale anche dopo aver fatto l’investimento, imponendo la clausola di responsabilità. Lo stabilimento di Pomigliano è notoriamente difficile. Le richieste di garanzia della Fiat rispecchiano anche la storia del sito. Esistono altri modi credibili per garantire il rispetto degli impegni da parte dei lavoratori? Se la risposta è no, il sindacato dovrebbe accettare le clausole, per quanto dure, e rilanciare la negoziazione in termini di stipendi. Se si raggiungono determinati target, anche grazie al rispetto degli impegni da parte dei lavoratori, parte dei benefici dovrebbe per contratto andare ai lavoratori. Nel frattempo, non carichiamo sui lavoratori di Pomigliano il futuro delle relazioni industriali italiane. Hanno già abbastanza problemi per conto loro.