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COMPROMESSO CON CHI?

Editorialino del Sole24ore pagina 12. Non firmato. Titolo "Un Compromesso per il referendum". Un incipit che fa rabbrividire: "in politica non sempre le soluzioni migliori sono quelle praticabili". Si narra della data del referendum sulla legge elettorale. L’anonimo editorialista ritiene che chi stima in 400 milioni il costo di non tenere il referendum assieme alle elezioni europee ed amministrative del 7 giugno "esagera"  (dove, come e quando? e perché rendere anonimi anche gli autori delle stime impedendo ai lettori di documentarsi?), ma conviene, bontà sua, che il costo comunque "sarebbe significativo". Tuttavia "la Lega non accetterà mai quella data", cioè il 7 giugno, per un election day. Ecco allora la proposta di "mediazione": "si voti il 21 giugno con il secondo turno delle amministrative". Come documentato su questo sito, costerebbe comunque 315 milioni in più dell’election day. Domanda: perché un giornale economico prende il diktat di un partito, votato dall’8 per cento degli italiani, come un imperativo categorico? In economia ci sono dei vincoli da rispettare e, dunque, dei compromessi da trovare: come in una famiglia, non ci si può permettere tutto, una casa del 20 per cento più grande, la moto e la macchina nuova, magari anche la botte piena con la moglie ubriaca, perché c’è un vincolo di bilancio da rispettare. Ma cosa c’entra Bossi con il vincolo di bilancio? Qui stiamo comparando una soluzione che fa risparmiare soldi allo Stato e tempo e denaro alle famiglie con una soluzione che costa ai contribuenti e a chi va a votare — e che per giunta riduce la partecipazione al voto, uno dei valori conclamati nella nostra Costituzione — pur di fare un piacere a un partito. Tra quali diverse esigenze dei cittadini sta il Sole24ore cercando di mediare? In nome di cosa vorrebbe farci buttare via più di 300 milioni di euro in un periodo di crisi? In questo caso il compromesso è solo tra i soldi dei cittadini italiani e l’interesse di un partito politico. Per noi è rilevante solo il primo. Ci stupiamo nello scoprire che per il Sole24ore sia rilevante anche il secondo.

QUANDO IL GIOCO SI FA DURO

La proposta di affidare ai prefetti un ruolo di controllori del sistema bancario italiano ha sollevato molte polemiche. Da più parti si sono avanzati dubbi sull’opportunità di dare una picconata all’autorevolezza della Banca d’Italia e sulle competenze dei prefetti in materia di credito. E sullo sfondo aleggia ormai la proposta di affidare le vigilanza alla Banca Centrale Europea. Ma cosa pensano i prefetti di questo loro nuovo ruolo? Sono a disagio nel dover svolgere un compito molto lontano dalle loro competenze? Sono preoccupati dal passare dalla firma delle patenti alla direzione degli osservatori regionali sul credito? Niente affatto, come ha spiegato il Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, sulla Repubblica del 14 marzo. “In tempi ordinari una decisione di questo genere non sarebbe mai stata presa, la vigilanza della stessa Banca d’Italia è eccellente e sarebbe bastata. Ma ci troviamo di fronte ad una grave crisi economica: il ricorso ai prefetti diventa uno strumento di garanzia in più per tutti che sottolinea l’eccezionalità del momento. Tutto qui…Mi sembra che siamo considerati sempre più garanti della tenuta del sistema”. Chissà perché, a me le parole del prefetto di Milano hanno fatto tornare in mente Gianluca Vialli, il quale, commentando il suo rientro in squadra al posto di Roberto Baggio in occasione di Italia – Argentina, semifinale del Mondiale ’90, disse “quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”. Il finale, purtroppo, è noto a tutti.

COME SI DICE PREFETTO IN INGLESE?

Il ministro dell’Economia ha approntato lo strumento dei Tremonti bond per aiutare gli istituti bancari con problemi di scarsa capitalizzazione. Le banche potranno emettere obbligazioni sottoscritte dal Tesoro per rafforzare la loro solidità patrimoniale, pagando un tasso compreso tra il 7,5 e l’8,5 per cento. Ma, come ha ricordato anche il ministro Bossi, il vero fine dei Tremonti bond non è il salvataggio delle banche a rischio, ma aiutare le imprese, specie quelle medio-piccole, a non trovarsi di fronte ad un serio problema di razionamento del credito. E’ per questo che nel decreto che istituisce i Tremonti bond è previsto un monitoraggio delle condizioni di credito verso famiglie e imprese. I problemi delle banche sono gli stessi in tutta Europa. Il primo ministro inglese Gordon Brown ha salvato la settimana scorsa il Lloyds Banking Group, facendo salire la sua partecipazione azionaria dal 43 al 77 per cento. In cambio, il gruppo bancario si impegna ad erogare nei prossimi due anni prestiti alle imprese in difficoltà a mutui alle famiglie per 28 miliardi di sterline. Il ministro del Tesoro inglese ha detto: “Le banche sono il cuore del sistema, se si fermano va tutto in tilt”. Insomma, i problemi e le dichiarazioni dei governi sono simili in Italia e in Gran Bretagna. C’è solo una differenza: in Italia saranno i prefetti a vigilare sull’erogazione del credito a famiglie e imprese. In Gran Bretagna, non avendo i prefetti, sembra che riusciranno a farcela anche senza. Chissà come faranno. Probabilmente chiederanno alla Banca d’Inghilterra di vigilare. Il che fa sorgere la domanda: ma la Banca d’Italia non dovrebbe saper svolgere il ruolo di vigilanza sul credito meglio dei prefetti? Che competenze specifiche sul credito hanno i prefetti? O si tratta solo di un dispetto del ministro al governatore della Banca d’Italia?
A ben vedere le differenze con il Regno Unito  in realtà sono due. Quando il governo britannico ha salvato Royal Bank of Scotland, il vecchio management è stato accompagnato alla porta. Da noi, malgrado nell’ultimo mese il prezzo delle azioni Unicredit sia sceso del 46% e quello di Intesa Sanpaolo del 43%, è quasi impossibile leggere un articolo che critichi l’operato di Profumo e Passera. Anzi, secondo il presidente dell’Abi Faissola “Gli istituti bancari italiani hanno dimostrato in questa crisi di essere i migliori del mondo”. Sarebbe bello sapere qual è il criterio usato dal presidente dell’Abi per stilare questa graduatoria. In Inghilterra qualcuno glielo avrebbe chiesto.

IL PONTE DEI MIRACOLI E I MIRACOLI DEL PONTE

Il Ponte sullo Stretto era esplicitamente citato come priorità nel programma elettorale del Popolo delle libertà. Però, nel programma della Lega Nord si diceva, altrettanto esplicitamente, che il Ponte si sarebbe dovuto costruire solodopo la Tav Torino-Lione e a costo zero per lo Stato. La decisione del Cipe del 6 marzo di stanziare 1,3 miliardi per il Ponte deve dunque essere letta come una duplice sconfitta politica per la Lega. Intanto partirà prima il Ponte della Tav e poi di costi per lo Stato ce ne saranno e parecchi. Quanto stanziato copre meno di un quarto dei 6 miliardi di costi previsti (quelli effettivi saranno più alti di almeno il 30%, in base alle esperienze internazionali di progetti di dimensioni comparabili). Con lo Stato che deve salvare le banche, pure i più entusiasti sostenitori del Ponte ritengono improbabile che il ricorso alla finanza di progetto abbia qualche probabilità di successo. La bugia più pietosa riguarda l’immediata “cantierabilità” del Ponte. Bugia necessaria a far digerire la decisione in un periodo in cui ogni centesimo stanziato andrebbe speso il giorno dopo per sostenere i redditi ed avere così un accettabile effetto anticiclico. In realtà, a qualche ben informato è sfuggito di scrivere che sarebbe un miracolo se si cominciasse a lavorare prima della fine del 2010. Infatti, Pietro Ciucci – presidente di Anas nominato da Di Pietro e storico presidente della Società Stretto di Messina (controllata all’82% dalla stessa Anas) si è affrettato a dire che l’impatto positivo sul Pil si sentirà subito, anche se per i primi 15-18 mesi non ci saranno nuovi occupati tra tecnici e operai. Lo stimolo alla domanda verrà dall’impiego di tanti nuovi ingegneri necessari alla progettazione. E beati gli ingegneri. Ma se c’è ancora tanta progettazione da fare e se 4,7 miliardi sono ancora da trovare, il miracolo, si realizzasse, sarebbe un MIRACOLO!

LA CRISI AMERICANA RISPARMIA LE DONNE?

Gli ultimi dati del mercato del lavoro statunitense mostrano che più dell’80 delle perdite di posti di lavoro hanno riguardato gli uomini. Gli uomini infatti sono  prevalentemente occupati in settori più colpiti dalla crisi (manifattura, costruzioni, auto),  mentre le donne sono impiegate prevalentemente nei servizi e quindi meno sensibili ai boom e alle recessioni. In recessione il numero di famiglie in cui il principale procacciatore di reddito è una donna è destinato a salire. Secondo le stime dell’economista Casey Mulligan la percentuale di donne nella forza lavoro è aumentata di cinque punti percentuali anche nelle due precedenti recessioni (1990-1991 e 2001) incrementi superiori a quanto avvenuti negli anni tra le recessioni. Se si proiettano simili incrementi per i mesi futuri, le donne, che sono oggi il 49,1 della forza lavoro secondo i dati BLS (Bureau of Labor Statistics), diventeranno piu del 50 per cento della forza lavoro sorpassando per la prima volta la proporzione maschile. Tuttavia questo possibile traguardo storico può implicare famiglie più fragili e povere. Va ricordato che gli alti tassi di occupazione delle donne in USA riguardano in gran parte lavori part time, spesso non coperti da copertura previdenziale e i cui guadagni medi sono comunque inferiori a quelli maschili anche a parità di orario (circa l’80% ). Inoltre a meno che i padri decidano di cambiare radicalmente il loro comportamento nella divisione dei ruoli familiari e sostituirsi in gran parte al lavoro delle donne in casa, le difficoltà saranno insormontabili in un welfare state che offre ben poco aiuto alle donne che lavorano e che hanno lavori di cura.

LA DISINFORMAZIONE

Repubblica del 5 febbraio riporta le dichiarazioni del Presidente Berlusconi sulle azioni del suo governo per arginare la crisi finanziaria. "Un governo che si è mosso subito e per primo… Sono stato il primo il 10 ottobre ad annunciare agli italiani che non avrebbero dovuto avere timore per i depositi che avevano nelle banche e a mettere la garanzia dello Stato contro il loro fallimento: questa nostra iniziativa è stata poi esportata in Europa… Sono riuscito a convincere Bush e i suoi collaboratori, inerti di fronte al fallimento della Lehman Brothers, che lo Stato doveva intervenire. La prima idea, la prima iniziativa, il primo spunto abbiamo l’orgoglio di dire che è venuto da noi". Giusto orgoglio, condividiamo. Ma quello che è incomprensibile è che di questa leadership mondiale non vi è traccia sulla stampa internazionale. Su Google è facile trovare link che parlano del piano Paulson (il Tarp, cioè l’acquisto degli asset "tossici"), del piano Brown (la ricapitalizzazione delle banche) o del piano Zingales (il debt-for-equity swap). Ma quando si parla di piano Berlusconi ci si riferisce al massimo al salvataggio di Alitalia. Peggio ancora, il 13 ottobre scorso, appena tre giorni dopo che Berlusconi aveva indicato al mondo la via di salvezza, i media britannici (anche quelli tradizionalmente legati ai conservatori) attribuivano il ruolo di leader e modello al loro premier, Gordon Brown.
E’ chiaro che qua ci sono solo due possibili spiegazioni. La prima è l’eccessiva modestia del nostro primo ministro, il quale ha dato di nascosto le idee giuste ai leader mondiali che le hanno fatte proprie senza ringraziarlo e citarlo. La seconda è che siamo invece di fronte ad un caso clamoroso di disinformazione. Dei media internazionali, ovviamente. Fanno dunque bene i media italiani a dare ampio risalto al Silvio’s plan.

UNA GHEDDAFI TAX PER L’ENI

Il disegno di legge di Ratifica del trattato con la Libia, approvato dalla Camera, prevede l’impegno dell’Italia a finanziare la realizzazione in Libia di progetti infrastrutturali di base per 5 miliardi di dollari: 250 milioni di dollari (180 milioni di euro) all’anno per venti anni. Tutti questi soldi verranno raccolti con un’addizionale all’Ires… sull’Eni. Ovviamente il testo di legge non si esprime esattamente in questi termini: secondo l’art. 3, questa addizionale si applica nei confronti di tutte le società e gli enti commerciali residenti che rispondono a un insieme di requisiti che di fatto solo l’Eni soddisfa. E in effetti, per fare i calcoli del gettito atteso dall’addizionale, la relazione tecnica fa riferimento a dati di bilancio coerenti con quelli… dell’Eni. Per la terza volta nel giro di pochi mesi, l’utile dell’Eni viene quindi in aiuto alle finanze dello Stato: con la Robin tax, con il finanziamento “volontario” di 200 milioni per la social card (su un totale di 450 milioni), con questa nuova Gheddafi tax  di durata ventennale. Cosa può giustificare un ricorso così disinvolto a norme fiscali ad personam? Forse la volontà di portare via all’Eni una parte della sua rendita da monopolista. Ma l’estrazione della rendita del monopolista dovrebbe avvenire con la regolamentazione, e andare a beneficio degli utenti, garantendo loro prezzi più bassi. Obiettivo che non solo non è stato ancora raggiunto ma che, evidentemente, non si intende perseguire neppure nei prossimi vent’anni. Della rendita di questo monopolista lo Stato già gode, in quanto azionista: l’effetto della Gheddafi tax, come della Robin tax, sarà quindi, più modestamente, quello di evitare che essa si traduca in dividendi anche per gli azionisti privati, perché l’azionista pubblico, a cui ne spetterebbero solo il 37,7 se li porta via prima che vengano distribuiti approfittando del suo… power to tax.

ALITALIA, LES JEUX SONT FAITS

Si è conclusa finalmente la questione Alitalia Air France. Come pronosticato più volte negli ultimi mesi, Alitalia è finita nell’orbita di Air France, quindi finalmente la partita è chiusa. E’ una buona compagnia aerea senza grandissime ambizioni che però avrà un suo futuro, un futuro dato proprio da questo partner straniero perché dà solidità alla compagine azionaria, dà garanzie ai clienti, dà garanzie ai lavoratori. Ci si può chiedere perché è stata così lunga la strada per arrivare a questa soluzione, che era già stata prefigurata, con condizioni peraltro migliori per lo stato italiano, molti mesi fa. Ora resta aperta la partita degli aeroporti. Si fa un gran parlare di Malpensa e di Linate, ma la questione è relativamente semplice: Cai accetta di investire in Malpensa a patto di eliminare ogni concorrenza con gli aerei da Linate. Altro non è che il vecchio piano che, da dieci anni a questa parte, ha cercato di mandare avanti. In realtà è un piano che già negli anni scorsi si è mostrato fallimentare e che è contrario agli interessi di sviluppo del Nord. Ci sono le infrastrutture che sono Linate e Malpensa; l’unica strada coerente con le esigenze di sviluppo è proprio quella di liberalizzare l’utilizzo degli aeroporti e di conseguenza aumentare l’offerta. E’ l’unica strada utile per lo sviluppo industriale del paese.

ETA’ DI PENSIONAMENTO: MEGLIO FLESSIBILE

La proposta di equiparare l’età di pensionamento delle donne a quella degli uomini (rispettivamente 60 e 65 nella legislazione attuale) è sensata da un punto di vista “attuariale” se si considera che le donne vivono in media più a lungo degli uomini. Inoltre una compensazione ex post per gli svantaggi che le donne devono fronteggiare durante le loro carriere, che consiste nella possibilità di uscire prima dal mondo del lavoro, conferma le differenze tra uomini e donne invece di appianarle. In particolare la differenza più marcata tra uomini e donne è nella partecipazione al lavoro e un trattamento pensionistico di favore non rappresenta certamente la molla che convincerà le donne a partecipare alle attività produttive. Tuttavia occorre precisare che la sentenza della corte europea, tesa ad armonizzare le età di uscita, si concentra sui lavoratori pubblici, in quanto appartenenti a uno specifico regime “professionale”, e quindi non obbliga l’Italia ad un trattamento di parità previdenziale tra generi in tutti i casi.
Il vero problema è che, pur essendo cresciuta l’età media di pensionamento, i lavoratori italiani vanno ancora in pensione troppo presto rispetto alla media europea, uomini e donne. La soluzione è quella di ristabilire, da subito, i criteri di uscita flessibili della legge del 1995 (legge Dini). Queste regole prevedevano una finestra di uscita tra i 57 e i 65 anni con livelli diversi della prestazione pensionistica che crescevano al crescere dell’età di pensionamento. Per agganciarsi alla normativa vigente per le pensioni di anzianità si potrebbe prevedere una finestra di 58-66 anni. Naturalmente in questo caso l’intera pensione (e non solo la quota contributiva) dovrà rispondere alle regole del sistema contributivo con una penalizzazione per chi va in pensione prima (una decurtazione della pensione) e un premio per chi va più tardi. Oltre a garantire una parità di trattamento tra uomini e donne, sarebbe salvaguardata la sostenibilità del sistema pensionistico e si realizzerebbero dei risparmi per le casse dello stato.

MA IL MERCATO DEL LAVORO HA SIN QUI TENUTO

Il mercato del lavoro ha tenuto, più che altro, grazie ai lavoratori stranieri. I dati pubblicati oggi dall’indagine sulle forze lavoro relative al terzo trimestre del 2008 mostrano un mercato del lavoro che tra giugno e settembre del 2008 non ha perso posti di lavoro. Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione è rimasto invariato al 6,1 per cento rispetto al secondo trimestre.
Anche se non vi è stato il crollo temuto, la situazione del mercato del lavoro segna un chiaro peggioramento su base annua. Confrontando i dati con il terzo trimestre del 2007, i nuovi occupati nell’anno sono stati 100 mila circa, una quantità decisamente inferiore a quella registrata negli ultimi due anni.
Il dato forse più significativo su base annua è la leggera caduta del tasso di occupazione, ossia del rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa. E’ la prima volta da diversi anni. Il motivo della caduta di questo rapporto è legata all’aumento del numero di lavoratori potenziali. Quest’ultima, a sua volta, è legata alla popolazione straniera e al suo assorbimento nel campione delle forze lavoro. Nel dettaglio, in un anno l’occupazione straniera è aumentata di 285 mila unità, mentre l’occupazione italiana è diminuita di circa 180 unità. In altre parole, dobbiamo ringraziare gli immigrati se il mercato del lavoro ha tenuto.
Sul fronte interno, si conferma il forte dualismo territoriale. L’occupazione nel Nord del paese è infatti aumentata dell’1 per cento, quando nel mezzogiorno si è registrata una diminuzione dello stesso ammontare. Anche questo dipende in larga misura dagli immigrati, perché sappiamo bene che gli immigrati sono molto più mobili e tendono a spostarsi in posti a maggior domanda di lavoro.

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