All’indomani del referendum che metteva al bando il nucleare, l’allora Ente nazionale per l’energia atomica si era trovato di colpo senza una mission. Carico di tecnici esperti della materia, l’organismo si era successivamente riconvertito al tema dell’energia e dell’ambiente sopravvivendo secondo modalità più vicine a quelle del carrozzone pubblico che non a quelle di un efficiente organismo tecnico-consultivo con finalità di analisi e supporto alle decisioni politiche. Era stato con l’allora commissario Luigi Paganetto, economista in prestito dall’università di Roma-Tor Vergata, che l’Enea aveva ritrovato agli inizi del 2000 una sua mission: sfruttando la crescente attenzione anzitutto scientifica e poi politico-economica per il tema dei cambiamenti climatici, il commissario poi divenuto presidente aveva restituito un ruolo importante all’Enea come punto di rifermento nazionale in ordine all’efficienza energetica e soprattutto alle nuove tecnologie energetico-ambientali, un aspetto assolutamente cruciale del problema. Il focus su questi temi ha valso all’Enea la nomina ad Agenzia nazionale per l’efficienza energetica, come previsto dalle direttive europee. E non più tardi dell’inizio della scorsa estate, in una lettera d’indirizzo il Ministro dello sviluppo economico Scajola aveva attribuito all’Enea un ruolo propulsivo sul fronte dell’efficienza energetica, delle fonti rinnovabili e addirittura del nucleare. Ma forse è stato troppo…Evidentemente chi tocca il nucleare di questi tempi rischia di rimanere scottato. Sta di fatto che la bozza del DDL "manovra 1441-ter" (il decreto "manovra" originario si era diviso in due, la prima parte diventata il famoso DL 112 poi convertito in legge, mentre la seconda parte è stata divisa in tre ed è attualmente al vaglio del parlamento: una di queste parti contiene tutte le disposizioni sul nucleare), licenziata dalla Camera ed approdata al Senato, prevede il commissariamento non solo della Sogin, ma anche dell’Enea. Volevano addirittura cambiargli nome – doveva essere Enes – così da rendere la discontinuità con il brand ancora più netta. E perché commissariare l’Enea? In vista di una non ben motivata né chiara riforma, che non si sa quando arriverà e che giunge proprio nel momento in cui, mentre si abbandona il tentativo di azzerare i vertici dell’Autorità per l’energia con la scusa anche qui di una riforma, l’Enea sembrava aver trovato stabilmente una sua ben definita vocazione. Quando si dice il potere costruttivo, ma anche distruttivo, della politica…
Categoria: Archivio Pagina 33 di 58
- 300 Parole
- Corsi e Ricorsi
- Dicono di noi
- Europee 2019
- Lavoce fuori campo
- Licenza Poetica
- Pro e Contro
- Question Time
- Rassegna Stampa
- Ricette
- Segnalazioni
- Vocecomics
Dal piano alla collina,
dal monte alla marina,
di teste una foresta
da voce alla protesta.
Ovunque cè un lamento
e chiedesi l aumento
perché finì la grana,
pria dellultima semana.
Ma il deficit è in affanno
e i soldi dove stanno?
Qualcuno mi risponda
che il Pil è qui chaffonda.
Si pagan gli interessi
dei debiti pregressi,
cè il costo della casta,
cui desinar non basta,
è poco il che sapprende,
ma molto più si spende,
sui banchi della scuola,
mentre la sanità da sola
ha un buco così grande,
che sempre più si espande
e tal che sballa i conti
che vuol quadrar Tremonti.
Si va presto in quiescenza,
per cui la previdenza
aumenta il disavanzo:
ci pagherà la cena o pranzo?
Si spende in ospedale,
ben grande un capitale
e a Roma e alle regioni
che fanno i fannulloni?
Le casse sono vuote
il fisco in men riscuote;
sui sprechi giù laccetta,
la cinghia va ristretta!
Non bastan più i milioni!
Ma lo saprà il Veltroni??
Il Piano Fenice non è la soluzione che si poteva sperare alla lunga crisi dell’Alitalia. Ma ormai è l’unica soluzione sul tappeto, a parte il fallimento. Certamente, se fosse stata accettata la proposta primaverile di Air France i costi per lo Stato e per i consumatori italiani sarebbero stati inferiori e il profilo strategico delloperazione sarebbe stato più chiaro: Alitalia sarebbe divenuta parte del più grande gruppo mondiale di vettori aerei tradizionali (full cost). Dal Piano Fenice sembra emergere per la nuova Alitalia un profilo vicino a quello di una low cost. (nessun hub, sei basi nazionali, disponibilità del personale a trasferirsi nella base cui sono assegnati, maggior peso alla parte variabile della retribuzione per i piloti, maggior flessibilità nellimpiego per gli assistenti di volo). È probabile che la trattativa con il partner straniero si chiuda proprio nella prospettiva di offrire ad esso (chiunque sia) un vettore capace di coprire la fascia price sensitive del mercato, oltre che portare voli dallItalia agli hub stranieri di riferimento. Cosa questo abbia a che fare con la compagnia di bandiera (tanto fortemente voluta dal premier italiano) è poco chiaro.
Piloti e assistenti di volo hanno capito perfettamente che il profilo professionale del personale viaggiante è molto diverso tra compagnie low cost e compagnie full cost. E il nuovo profilo non è a loro per niente gradito. Il Ministro Matteoli ha reso noto che chi rifiutasse l’offerta di lavoro di Cai verrebbe escluso dai benefici degli ammortizzatori sociali. La minaccia si basa sull’art. 1-quinquies della legge 291/2004, dove si prevede l’esclusione dal trattamento di cassa integrazione di colui che non accetti l’offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20% rispetto a quello delle mansioni di provenienza. Secondo quanto riportato dai giornali a fine settembre, lo stipendio offerto da Cai a piloti e assistenti di volo sarebbe più basso di quello percepito nella vecchia Alitalia, ma di meno del 20%. Ma produttività e flessibilità dovrebbero essere molto maggiori. Se così effettivamente stanno le cose, la minaccia del Ministro sembra credibile. Mentre sembra incredibile che alcuni piloti e assistenti di volo non abbiano capito che forme di lotta ai limiti della legalità e oltre, dopo aver contribuito al declino dellAlitalia, possono ora contribuire al taglio definitivo di chi vi ricorre.
Mentre si discetta su come venire fuori dalla recessione incombente e si guarda al prossimo incontro di Washington del 15 novembre prossimo dove secondo Sarkozy dovranno essere prese decisioni forti, la China ha appena annunciato un piano di spesa pubblica per infrastrutture e spese sociali – nel solco della tradizione keynesiana delle politiche anticicliche – di 586 miliardi dollari (460 miliardi di euro), il 7% del PIL cinese, una cifra enorme. E’ la risposta cinese alla recessione che se minaccia le economie occidentali, colpisce irrimediabilmente quella cinese, causando una forte rallentamento. E la conseguenza della globalizzazione: il rallentamento in occidente si riverbera in oriente. Ma qui possono, grazie a finanze pubbliche meno compromesse delle nostre, compensare il calo di domanda estera con una espansione di domanda interna. Questa a sua volta attiverà non solo la produzione domestica ma anche la domanda di importazioni in Cina dal resto del mondo, contribuendo a mitigare la crisi in occidente. Chi ancora ieri biasimava la Cina come causa dei nostri malanni dovrà forse ora ringraziarla.
Allinterno del Disegno di legge sullo sviluppo, approvato per fortuna solo dalla Camera, vi è un aspetto apparentemente piccolo ma significativo. Usando come pretesto il rilancio del nucleare, si è deciso di commissariare Sogin, limpresa del Tesoro che si occupa attualmente della dismissione degli impianti ex Enel (Caorso, Trino) e attività collegate. In generale il commissariamento interviene per sanare atti gravi, e ci si chiede che senso abbia in questo caso. Si potrà dire: la norma decide una pesante ristrutturazione di unimpresa di proprietà del Tesoro, e per guidare questa ristrutturazione è opportuno avere un Commissario. Osservazione del tutto priva di fondamento. Quando il decreto Bersani (1999) o quello Letta (2000) intervennero ancora più pesantemente su Enel (allora al 100% del Tesoro) ed Eni nulla di tutto questo avvenne. Se cè una legge, la si applica. E si mandano via gli amministratori solo se si rifiutano di farlo. Il Commissariamento è altro. E il rientro della politica nelle imprese, ed è un pessimo segnale. Due informazioni, giusto per dare unidea. Sogin è stata creata dal 1999. Da allora per anni è stata unimpresa senza un piano industriale, nella quale si infilavano plotoni di impiegati amministrativi o generali in pensione. Da circa un paio di anni ha un vero Consiglio di amministrazione, si è dotata di un piano industriale, risparmia sul personale amministrativo, mette a posto i suoi conti. Guarda caso, alla prima occasione mandiamo il Commissario. Difficile non pensar male. Per favore, onorevoli Senatori, mostrate più saggezza dei vostri colleghi della Camera!
Le banche italiane non solo non sono immuni dalla crisi, ma soffrono la crisi più delle altre. Dal fallimento di Lehman Bros il titolo Unicredit ha perso circa il 60 % del proprio valore, Intesa SanPaolo circa il 45%, più delle banche quotate al Dow Jones, nellepicentro della crisi. Sapremo presto in che misura su questo andamento contano i ritardi con cui da noi si sta procedendo alla ricapitalizzazione delle banche in Italia. Lo capiremo anche dal modo con cui il mercato reagirà ai provvedimenti che verranno introdotti da Governo e Banca dItalia. Ma limpressione è che ci sia dellaltro: organi direttivi troppo passivi, che hanno delegato troppo potere agli Amministratori Delegati negli anni passati, sull’onda dei successi in termini di acquisizioni e di profitti e che oggi non sembrano in grado di reagire alla crisi. All’inizio di ottobre, in mezzo alla tempesta che aveva colpito il suo titolo, l’Amministratore Delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, davanti agli studenti del Collegio di Milano, aveva ribadito la sua intenzione di lasciare il timone della sua banca per il suo sessantesimo compleanno, cioè tra nove anni. Nove anni alla testa di un gruppo bancario così rilevante sono molto lunghi, specie se si tiene conto che Profumo occupa lo stesso posto da più di dieci anni. In nove anni può cambiare il mercato, rendendo obsolete alcune competenze, possono spuntare manager più giovani e più adatti a guidare la banca oppure la banca può essere oggetto di unacquisizione. Insomma, Profumo deve sentirsi saldo in sella per fare una simile affermazione. E’ giusto che un manager che ha avuto in passato tanti successi abbia fiducia nelle sue capacità. Ma la fiducia in se stessi non basta. Occorre anche che Profumo sia anche molto fiducioso che il suo Consiglio di Amministrazione lo appoggerà in modo incondizionato. E forse è proprio questa la chiave di lettura della sofferenza delle banche italiane: Ci sono troppi intrecci societari che danno luogo a veti incrociati. Tutti sono rappresentati, anche indirettamente chi siede in banche concorrenti. Tutti (o quasi) sulla carta indipendenti, compresi Gianfranco Gutty, Salvatore Ligresti o Carlo Pesenti, tanto per non fare dei nomi. Neanche il barlume di un fondo istituzionale, che rappresenti i piccoli azionisti. E un consiglio fatto col il manuale Cencelli, con ben cinque vicepresidenti, età media 65 anni, e ben 23 poltrone per accontentare tutti. In questi giorni si discute della possibilità di abolire la passivity rule nella normativa sulle OPA. Pessima idea, come abbiamo avuto modo di sottolineare. Meglio sarebbe ridurre la passivity dei Consigli dAmministrazione delle nostre banche.
Sul Corriere della Sera del 16 ottobre Giovanni Sartori stigmatizza gli economisti per non aver saputo prevedere nè evitare questa crisi, e ne trae la conclusione che leconomia è "un sapere «pratico» che consiglia male e che prevede altrettanto male, produce guai o comunque ci lascia nei guai". Certo, è difficile negare che nellinsieme il prestigio degli economisti esca abbastanza malconcio da questa crisi. Ma è vero che tutti gli economisti siano stati così ciechi come dice Sartori? Basta leggere per esempio gli scritti di un grande economista come Robert Shiller sulla bolla immobiliare per rendersi conto che non è così. E non pochi avevano sottolineato l’eccessivo lassismo della politica monetaria fino al 2005 e i conflitti di interessi nelle società di rating e nelle banche, che hanno avuto parte non piccola nella genesi di questa crisi.
Ma – si dirà – queste sono state posizioni minoritarie. Se così non fosse, perché avremmo avuto la crisi? Innanzitutto, una frase del genere presuppone che gli economisti siano sempre ascoltati e influenti: a noi piacerebbe che fosse così, ma non è vero. Ma facciamo pure lipotesi eroica che gli economisti siano sempre ascoltati e che quindi la terribile crisi attuale sia colpa della loro miopia. Allora, caro Sartori, quando le cose vanno bene dovremmo darne merito agli economisti: quante crisi sono state evitate o attutite perché gli economisti – per esempio, quelli al lavoro nelle banche centrali – le hanno previste e debellate sul nascere? Si ricorda per caso della sventata crisi finanziaria dopo la crisi di LTCM nel 1998? E di come sono state attutite le conseguenze del crollo di borsa del settore hi-tech tra la fine del 2000 e linizio del 2001, nonché quelle dello shock dell’11 settembre 2001? E si tratta solo di alcuni esempi recenti – la lista si allungherebbe fino alla noia se iniziassimo dalla fine della seconda guerra mondiale… Dovremmo allora portare gli economisti in trionfo per la maggior parte del tempo?
Ovviamente no. Innanzitutto perché è ingenuo pensare che, sia nelle scelte giuste che in quelle sbagliate, noi economisti abbiamo il ruolo determinante immaginato da Sartori, soprattutto a confronto con quello dei politici. E poi perchè siamo ben consci che il nostro "sapere pratico" è molto imperfetto e che di errori ne facciamo tanti, sia nella comprensione che nella previsione del comportamento di un sistema molto complesso, risultante dall’interazione di milioni di persone, il cui comportamento individuale è a sua volta solo parzialmente chiaro non solo a noi economisti ma anche a psicologi e medici. Al pari degli studiosi di meteorologia, che a volte non riescono a prevedere la formazione e la direzione di cicloni e tornadi, anche noi facciamo errori. Ma non ci risulta che nessuno abbia chiesto l’abolizione delle stazioni meteorologiche dopo un errore di previsione sul percorso di un devastante tornado.
Per Sergio Marchionne, sul Sole 24 Ore del 17 ottobre, è inaccettabile che siano le imprese e i loro lavoratori a pagare il costo della crisi. Questo è un problema. Ci sono tre tipi di agenti economici: le imprese, i lavoratori, e coloro che non lavorano. Se il conto non possono pagarlo né le prime né i secondi, rimangono i disoccupati, i pensionati, le casalinghe, e i bambini. Dubito che sia questo che intendeva Marchionne.
In realtà, cè un altro agente: il solito, vecchio Pantalone, cioè lo Stato. E, infatti, Marchionne avanza la legittima richiesta di un pacchetto di aiuti di almeno 40 miliardi di euro, naturalmente per lindustria dellauto europea. Facciamo due conti: ci sono 217 milioni di lavoratori nellUnione Europea, di cui circa 12 milioni nellauto. Se tutti i settori avanzassero la stessa legittima richiesta, il conto salirebbe a 720 miliardi. Togliamo pure le banche, che hanno già avuto; questo lascia diciamo 600 miliardi, circa i 2/5 del PIL italiano.
Il problema, ovviamente, è che Pantalone non esiste: prima o poi la spesa pubblica va finanziata con tasse, e le tasse le pagano proprio i lavoratori e le imprese. Ma Marchionne chiede anche una detassazione dei lavoratori. Qualcosa non quadra.
Come era da prevedere, uno delle conseguenze più gravi della crisi attuale è che ha messo miracolosamente tutti daccordo sugli aiuti alle imprese. Si può capire che politici di destra e di sinistra, a cominciare dal Presidente del Consiglio, cavalchino questa tigre; ma per la Confindustria è un gioco molto rischioso. Si ha un bel dire che gli aiuti devono essere provvisori, che lo Stato deve ritirarsi appena sarà passata la buriana. Sappiamo tutti che non sarà così. E far credere che con gli aiuti pubblici vincono tutti la politica che compra voti e consensi, le imprese, i lavoratori, e i nostri figli – è irresponsabile.
Ieri il Primo Ministro, spaventato dalla possibilità che il calo di corsi azionari abbia effetti sugli assetti proprietari delle imprese italiane, ha avanzato la proposta di adottare misure per proteggere acquisizioni ostili. "Molte aziende italiane" – ha detto il premier "hanno oggi una quotazione che non corrisponde assolutamente al loro giusto valore. Quindi credo che sono delle ottime occasioni per chi, disponendo di capitali e penso a certi fondi sovrani, volesse proporre delle Opa ostili". Provvedimenti anti-OPA avranno un solo effetto: scoraggiare lafflusso di capitale fresco nel mercato azionario. Ci sono almeno due motivi per cui questa non è una buona idea. Primo, ostacolare lingresso di capitale nei mercati adesso è come chiudere i rubinetti idrici al culmine di una siccità. Con la prospettiva di una stretta creditizia alle porte, bisogna piuttosto incentivare tutti i possibili canali di reperimento di fondi da parte delle imprese, incluso il capitale di rischio. Secondo, il problema principale del mercato per il controllo societario italiano è la sua scarsa contendibilità. La struttura di controllo delle imprese italiane è pietrificata: se si escludono le privatizzazioni, il peso relativo dei soggetti controllanti (persone fisiche, società finanziarie, soggetti esteri ecc.) è rimasto pressoché immutato negli ultimi trentanni. In particolare, il ruolo del controllo familiare è sempre dominante. Un ingresso di nuovo capitale finanziario e manageriale porterebbe solo benefici: i fondi esteri sono oggi più che mai un’opportunità per i risparmiatori, gli investitori e le imprese italiane. E allora perché questo allarme contro le OPA ostili? A vedere con ostilità le OPA straniere sono i dirigenti delle società che potrebbero perdere il loro posto, le loro laute remunerazioni e i loro benefit e chi, utilizzando leva finanziaria e scatole cinesi, mantiene il controllo di unimpresa rischiando poco di tasca sua. In nome della difesa dellitalianità sono già stati combinati abbastanza pasticci: basta, please!
I più ricchi siam del mondo,
di un tesoro senza fondo,
che di senno del di poi
più di tutti abbiamo noi.
Quando al calcio la partita
agli azzurri è non riuscita,
assai chiaro laveo detto
ciò a cui il Mister fa difetto.
Ogni fatto, anche privato,
poi che avvenne è contestato,
se cè in ballo una questione,
poscia sol cè spiegazione.
Ora accadde là a Vuol Stritte
che al disastro andaron dritte
grandi banchi e finanziari,
pria coi mutui immobiliari,
poi coi fondi e derivati,
sol di carta accreditati,
che bel belli hanno impaccato
e allEuropa rifilato.
Dopo il botto dei subpremi
si è costrutto teoremi
per spiegare laccaduto
che nessuno ha preveduto.
Quando poi la Lehman è esplosa
tutti quanti han fatto chiosa
proprio tutti, i professori,
giornalisti e controllori,
però niun lha fatto ex ante,
se ne è scritto, ma a post stante.
E i modelli futuristi?
Che dicevan, chi li ha visti?
Poi cè pure un buco nero:
le agenzie, cui diam tre zero.
Belli i tempi del Maynardo,
quando pur con qualche azzardo,
le grandezze eran reali,
merci, impianti e capitali,
cera insomma la sostanza,
or di foglio cè finanza!