Così i giornali stranieri giudicano la situazione italiana dopo il voto di aprile. In Germania si sottolineano le difficoltà di Governo per la risicata maggioranza del centrosinistra al Senato e l’eterogeneità della coalizione. Ma anche l’impegno europeista di Prodi. Le Monde ritorna sui due punti che hanno permesso la rimonta finale di Berlusconi: la televisione e il Nord. Per l’Economist la vittoria di misura dell’Unione rende ancora più delicata la situazione dell’economia. E il Wall Street Journal teme per la legge sul conflitto d’interessi.
Categoria: Rassegna Stampa Pagina 1 di 2
Riproduciamo una serie di documenti, utili ai lettori per farsi unopinione sulle vicende Banca dItalia:
La relazione di autodifesa presentata alla riunione del CICR del 26 Agosto, dal Governatore della Banca dItalia.
Il testo integrale delle intercettazioni telefoniche.
Il codice di condotta dei membri del consiglio direttivo della Bce.
Lultima versione disponibile del ddl sul risparmio.
Il Testo Unico bancario.
La Legge Draghi.
Una rassegna della stampa internazionale.
Il primo ministro italiano Silvio Berlusconi ha posticipato dal 2005 al 2006 i tagli alle imposte sui redditi (Irpef) degli italiani, nonostante le promesse fatte durante la campagna elettorale del 2001. Secondo l’International Herald Tribune (www.iht.com) i motivi dietro la decisione del governo sono semplici: le finanze pubbliche non lasciano sufficienti margini di manovra ed è comunque mancato l’accordo tra i partiti della coalizione. Il quotidiano si sofferma soprattutto sullo stato precario dei conti pubblici italiani, saliti alla ribalta della cronaca internazionale nel mese di luglio, quando l’agenzia Standard & Poor’s aveva abbassato il proprio rating sul debito del Bel Paese: era la prima volta dall’introduzione della moneta unica nel 1999 che una nazione dell’area Euro riceveva un downgrading. Per Standard & Poor’s l’abbassamento del rating era dovuto all’eccessivo ricorso di Roma a misure una tantum, efficaci solo nel breve periodo, per mettere un po’ di ordine nel bilancio statale.Il quotidiano inglese Financial Times (www.ft.com), invece, sottolinea come la decisione di Berlusconi sia in linea con le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale per il riequilibrio dei conti pubblici. La testata inglese riporta anche le dichiarazioni di Piero Fassino (“L’opposizione sostiene da un pezzo che il taglio delle tasse non è un’opzione possibile, visto lo stato disastroso del bilancio statale”) e i commenti positivi di Luca Cordero di Montezemolo sulla riduzione delle imposte societarie. Per il presidente di Confindustria, infatti, il governo ha mandato “un segnale che noi imprenditori apprezziamo molto”. Anche El Pais (www.elpais.es) si sofferma sulla posizione di Montezemolo, per il quale il problema più urgente del sistema Italia resta la scarsa competitività delle aziende. E’ un tema che, come riporta il quotidiano spagnolo, Berlusconi ha affrontato direttamente, dichiarando: “Avrei preferito fare il contrario, vale a dire ridurre le tasse sui redditi delle persone fisiche già dal 2005 e spostare al 2006 i cambiamenti nelle imposte societarie. Tuttavia, quello che poi è stato fatto sembra essere più utile a promuovere la competitività”.La testata francese Le Figaro (www.lefigaro.fr) torna sull’importanza della posizione del Fondo monetario internazionale, che, raccomandando a Roma un maggiore rigore di bilancio, avrebbe contribuito al ritardo nell’implementazione delle riduzioni fiscali promesse in campagna elettorale. Con il rinvio all’anno successivo, come riporta il quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt (www.handelsblatt.com), i tagli alle tasse dei redditi delle persone fisiche si concretizzeranno solo nel gennaio del 2006, e cioè cinque mesi prima della fine dell’attuale legislatura.Ma la riforma del sistema fiscale non si trova solo nell’agenda di Berlusconi. Anche il presidente americano Bush, come scrive il Wall Street Journal (www.online.wsj.com), ha promesso novità a riguardo. Anzi, ha messo la riforma tra i punti fondamentali del programma del suo secondo mandato. Tuttavia, continua la testata della finanza Usa, molti economisti non condividono le scelte del presidente. Secondo un’inchiesta del giornale, infatti, per un terzo degli esperti d’economia d’oltre Atlantico la vera priorità d’affrontare è un’altra: il disavanzo del bilancio pubblico. Una percentuale minore, il 25%, condivide invece la decisione della Casa Bianca di mettere la revisione del sistema tributario in cima alla lista dei punti più importanti.
35, 36 o 40 ore a settimana? Maggiore flessibilità sul lavoro? L’argomento è di scottante attualità, tanto che il Financial Times vi ha dedicando l’intera pagina “Comment & Analysis” del numero di venerdì. Tutto è cominciato il mese scorso, quando la tedesca Siemens è riuscita a strappare ai sindacati un nuovo contratto, che ha allungato la settimana lavorativa da 35 a 40 ore. In cambio, l’azienda si è impegnata a non spostare all’estero alcuni livelli della produzione. Successivamente altre imprese, anche in Francia, hanno cominciato a considerare o a mettere già in pratica l’esempio di Siemens. Intanto le statistiche, continua il quotidiano inglese, sembrano dare ragione a chi, in Europa, propone di lavorare di più. Il “productivity gap” tra Stati Uniti e Vecchio Continente, infatti, è spiegato più dalla quantità (in ore) che dall’efficienza: il prodotto per lavoratore in Europa è solo il 70% di quanto realizzato oltre Atlantico, mentre il corrispondente prodotto per ora lavorata si attesta su un più accettabile 91% (in Francia, addirittura, è al 105%). Sono percentuali confermate dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, secondo cui “in quanto a Pil pro capite, i vantaggi degli Stati Uniti sull’Europa sono principalmente dovuti a differenze nel totale delle ore lavorate per persona, invece che ad un maggiore prodotto per singola ora lavorata”. Questa prima differenza, sottolinea l’Ocse, sta diventando un fattore importantissimo alla base dei diversi tassi di crescita tra le due sponde dell’Atlantico. Tornando in Germania, dove “tutto è cominciato”, il quotidiano Handelsblatt ripercorre tutti i casi aziendali che stanno sposando la settima lunga, con la benedizione della legge, che non impone il rispetto delle 35 ore. Dopo Siemens, le 40 ore hanno conquistato anche Thomas Cook (agenzie di viaggi) e Stihl (motoseghe). Inoltre, trattative in questo senso con i sindacati sono cominciate a Karstadt-Quelle (grandi magazzini). Dulcis in fundo, anche il nuovo accordo tra Daimler-Chrysler e sindacati prevede il ritorno alle 40 ore per i 20.000 dipendenti del ramo “ricerca e sviluppo”. Dal canto suo l’azienda, come ha riportato la Frankfurter Allgemeine Zeitung , ha garantito la sicurezza di migliaia di posti di lavoro e ha ridotto del 10% i compensi del management. Ma per Juergen Schrempp, numero uno della casa automobilistica, 5 ore in più non sempre sono la soluzione giusta. Piuttosto, è necessaria una maggiore dose di flessibilità in tutte le contrattazioni tra imprenditori e sindacati. Il presidente degli industriali tedeschi Ludwig Georg Braun, invece, insiste sulla validità universale dell’allungamento della settimana di lavoro. In un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung , Braun ha sottolineato l’importanza dell’innovazione come fattore concorrenziale delle imprese tedesche. E per essere in grado di innovare bisogna lavorare tanto: 35 ore in sette giorni e 30 giorni di ferie all’anno sono troppo pochi per crescere e competere seriamente con l’estero. Dopo la Germania, l’onda della controriforma nell’orario di lavoro è arrivata anche in Francia. Prima Bosh e poi Doux (alimentari) e SEB (elettrodomestici) hanno rimesso in discussione l’opportunità delle 35 ore, che in questo paese sono garantite per legge. Secondo il quotidiano Le Monde , il dibattito nazionale è confuso e disordinato. Lanciata dal presidente Chirac e dal ministro dell’economia Sarkozy, la discussione sulla necessità di riforme manca ora di regole e obiettivi. Cittadini, lavoratori e operatori economici non riescono a capire quale indirizzo prenderà la questione, mentre alcune aziende agiscono in ordine sparso proclamando il proprio interesse, in sostanza, a non rispettare la legge delle 35 ore. Se quest’ultima deve essere riformata, tuttavia, dialogo e chiarezza sono fondamentali. Tutto il contrario di quello che sta succedendo, con colpi ad effetto di scoordinate iniziative imprenditoriali.
“L’Italia ha bisogno di un governo in grado di dare un calcio alle zuffe interne, per concentrarsi sulla riduzione del debito pubblico e sulla riforma di pensioni, sanità e mercato del lavoro. Ma, al momento, le probabilità che tutto questo accada sono molto basse”. Sono le parole del quotidiano economico inglese Financial Times, subito dopo il declassamento del debito italiano da parte di Standard & Poor’s. Il giornale rosa salmone non usa mezzi termini anche quando dà del “ridicolo” alle liti nell’alleanza di centro-destra tra chi vuole ridurre le imposte per 14 miliardi di euro e chi, invece, chiede che il fiume di sussidi che da Roma scende al Mezzogiorno continui senza interruzioni.
Per l’americano Wall Street Journal, il declassamento di Standard & Poor’s non poteva capitare in un momento peggiore, attribuendo maggiore risalto ai problemi di Berlusconi nel dare forma a una qualche politica economica e nel tenere unito e in piedi il governo. Inoltre, il downgrading è probabilmente più dannoso di un “early warning” da Bruxelles, perché Roma dovrà così pagare un onere maggiore per il debito, spingendo nuovamente verso l’alto il deficit. Quali, invece, le cause del declassamento del rating? Per Giovanni Zanni, economista di CSFB a Londra, “dietro la decisione di Standard’s & Poor’s, oltre alla crisi politica, c’è la mancanza di chiarezza nei conti pubblici italiani”. Ma non solo. A rincarare la dose ci pensa l’Economist, la bibbia dei settimanali economici mondiali: sono le tante, troppe misure una tantum ad aver spinto l’agenzia di rating verso il giudizio AA- (da AA) sul debito del Bel Paese. Intanto, continua l’Economist, i provvedimenti strutturali scarseggiano, il primo ministro lavora per dipanare la matassa dei propri problemi legali e le audaci promesse elettorali sembrano dimenticate. Con il risultato che oggi l’Italia è in gara con la Germania per il titolo di “malato d’Europa”.
Anche la stampa dell’America latina non ha mancato di riportare e commentare la notizia. La testata argentina Mercado, per esempio, ironizza sul giudizio AA-, che mette l’Italia, quarta economia dell’Unione Europea, sullo stesso piano di Slovenia, Cipro e Andorra. E ancora, il declassamento di Standard & Poor’s è il primo per un paese del G7 dall’aprile del 2002, quando il Giappone era passato da AA ad AA-. E’ un paragone non felice per Roma, dopo i tanti e prolungati problemi di Tokyo, alle prese per anni con stagnazione e deflazione. Tutto questo, secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt, comporta una grossa perdita d’immagine per l’Italia, che, stando ai giudizi dell’agenzia di rating, è meno meritevole di paesi come il Portogallo. Restando in Germania, per la Sueddeutsche Zeitung il declassamento può aprire la porta a nuovi downgrading per altre capitali europee, tra cui la stessa Berlino.
Ma il problema, come evidenzia il francese Le Figaro, non è limitato al 2004. Anzi, la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi due anni con un deficit al 4% del Pil, se i promessi tagli alle imposte saranno implementati senza ridurre anche la spesa pubblica.
Lo sviluppo dei paesi poveri è un tema che si presta a molti commenti, che variano dallo sdegno alle accuse e alle proposte. Ma a volte un fatto di cronaca può essere altrettanto interessante e significativo. Come, per esempio, la notizia riportata a fine aprile dal quotidiano economico inglese Financial Times: per la prima volta nella quarantennale storia delle estrazioni petrolifere in Nigeria due lavoratori stranieri sono stati uccisi in un’imboscata. I due dipendenti di ChevronTexaco, assassinati insieme ad altre cinque persone, potrebbero essere stati attaccati con lo scopo di rubare le armi che portavano con sé. Oppure per protestare contro i piani dell’azienda americana di estendere le proprie estrazioni nel paese. Sono solo supposizioni, che certamente non fermano ChevronTexaco, ma possono essere indicative di un certo risentimento locale verso alcuni tipi di investimenti esteri. D’altronde, il disagio sociale è più diffuso e la crescita economica è più ridotta proprio nei paesi che maggiormente dispongono di risorse naturali, soprattutto se minerarie o petrolifere. A sostenerlo sono Desmond Tutu e Jody Williams, premi Nobel rispettivamente nel 1984 e nel 1997, in un articolo di commento pubblicato dall’International Herald Tribune. È il “paradosso dell’abbondanza” o “maledizione delle risorse naturali”, che ha portato a una lunga guerra civile in Angola e a livelli incredibili di corruzione in Nigeria. In quest’ultimo paese negli anni ’90 si sarebbero volatilizzati nel nulla quasi 4 miliardi di dollari di proventi del greggio. Per questo, concludono gli autori, è opportuno che la Banca Mondiale indirizzi i propri investimenti solo dopo un attento esame dei governi locali e, in ogni caso, in regioni senza guerra o violenze etniche. Un altro importante intervento è l’analisi di John Kufuor, presidente del Ghana, sulle pagine del Financial Times: “Per lo sviluppo economico l’Africa ha bisogno di maggiore assistenza finanziaria e accesso ai mercati mondiali”. In breve: più soldi per crescere e rafforzarsi in casa e meno protezionismo, da parte dei paesi ricchi, per giocare e vincere nel mondo. E le ambizioni non mancano: Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Gambia e Guinea hanno stabilito dei criteri di convergenza per un’unione monetaria prevista per luglio dell’anno prossimo. A livello internazionale, intanto, i paesi in via di sviluppo hanno segnato un importante punto nella lotta ai sussidi garantiti dalle nazioni occidentali a consistenti settori delle proprie economie. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), infatti, ha stabilito che gli aiuti concessi da Washington ai 35.000 produttori nazionali di cotone sono contrari alle regole del libero commercio mondiale. Secondo il francese Le Figaro, la Casa Bianca si opporrà con ogni mezzo alla decisione. Anche perché tra qualche mese si svolgeranno negli Stati Uniti le elezioni presidenziali, e George W.Bush cerca di assicurarsi il sostegno dei tanti stati del sud, produttori di cotone e fedeli alla causa repubblicana. Il Wall Street Journal, invece, pone l’accento sugli scenari futuri che si aprono dopo la sentenza dell’Omc. I paesi in via di sviluppo, infatti, potranno fare riferimento alla decisione dell’organizzazione per rafforzare la propria posizione liberoscambista all’interno dei round negoziali di liberalizzazione dei commerci. E sempre dall’Organizzazione Mondiale del Commercio è arrivata negli ultimi giorni una dichiarazione significativa, riportata sul Financial Times, a tutto vantaggio di Cina e India. Un funzionario senior dell’Omc si è espresso contro la proroga del regime delle quote nel mercato nei prodotti tessili. La prossima liberalizzazione, ora quindi più probabile, aprirà già dal 2005 nuove fette di mercato ai produttori cinesi e indiani, fortemente avvantaggiati dai bassi costi di produzione e dall’efficiente e sistematica organizzazione dei processi produttivi. Una ricerca Usa prevede che Pechino si aggiudicherà tre quarti del mercato statunitense, con la chiusura di 1.300 stabilimenti americani e la perdita di 650.000 posti di lavoro. Contemporaneamente, 200 miliardi di dollari di “fatturato tessile” si sposteranno sulla Cina nei prossimi anni, almeno secondo le stime della Banca Mondiale. Per il settimanale The Economist è stato lo sviluppo del capitalismo in molte nazioni asiatiche, come nelle già citate Cina e India, a rendere più competitive e ricche le rispettive economie. L’analisi del prestigioso periodico contiene anche alcune considerazioni ottimistiche: dagli anni ’70 la percentuale di coloro che vivono con meno di un dollaro al giorno è calata. Nell’articolo sono citati due studi, uno dei quali sotto l’ombrello della Banca mondiale, che confermano, dati alla mano, questa tesi. Anche le ineguaglianze, continua l’Economist, sono cresciute tra ricchi e poveri all’interno di Cina e India. Tuttavia, lo sviluppo disordinato e mal distribuito dei due paesi dimostra, se paragonato all’Africa più povera, che ci sono cose peggiori delle ineguaglianze economiche e sociali. Milano, 4 maggio 2004
In un’editoriale intitolato “La Spagna ci impartisce una lezione di democrazia”, il Financial Times chiede una maggiore cooperazione, in tema di lotta al terrorismo, tra europei, americani e mondo arabo. E ribadisce che, nell’affrontare crisi come quella dell’11 marzo, i leader politici hanno bisogno non solo di convinzioni e determinazione, ma anche della fiducia dei propri elettori. Una fiducia che Aznar, con il probabile depistaggio delle indagini, ha perso senza appello. Perché “i risultati elettorali sono imputabili all’indignazione popolare per la cattiva gestione della crisi da parte del governo; in particolare, ad Aznar è stata rimproverata l’ostentata certezza nell’attribuire all’Eta la colpa del massacro.” Sulla stessa linea d’onda è anche l’altro pilastro della stampa economica britannica, il settimanale The Economist, per cui il motivo più importante dietro la sconfitta del Partito Popolare sono stati “i tre giorni in cui il governo e i mezzi di comunicazione di stato, pesantemente influenzati da Madrid, hanno insistito con la responsabilità dell’Eta negli attentati”. E’ di Morgan Stanley uno dei primi giudizi sull’impatto economico degli attentati di Madrid. La banca, in occasione della pubblicazione di alcuni dati trimestrali, ha dichiarato che la strage spagnola ha minato la fiducia tanto dei propri clienti istituzionali quanto di quelli privati. Come ha riportato il già citato Financial Times, Stephen Crawford, responsabile amministrativo di Morgan Stanley, ha evidenziato “l’effetto psicologico” degli attacchi. Secondo Crawford “rispetto alle settimane antecedenti agli attentati, oggi le persone mostrano meno fiducia nei confronti dei mercati finanziari”.
Secondo il Wall Street Journal, il quotidiano finanziario americano per eccellenza, “uccidendo centinaia di innocenti i terroristi sono stati capaci di annientare uno dei pilastri della coalizione occidentale contro il terrore”. Restando nella Grande Mela, il New York Times ha accusato la Casa Bianca di trasformare le elezioni americane del prossimo novembre in una questione di sicurezza nazionale e in un referendum sul terrorismo; mentre i cittadini statunitensi dovranno invece decidere tra due uomini e due linee politiche.
Ritornando in Europa, il britannico Daily Telegraph ritiene che gli spagnoli abbiano disonorato i propri morti, permettendo ai terroristi di disarcionare il governo di una primaria democrazia dell’Occidente. Attraversando la Manica, per il francese Le Monde Gorge Bush ha perso molto di più dell’appoggio di Aznar: con le elezioni spagnole sono cambiate le intere relazioni tra Stati Uniti ed Europa. Più ironico è invece Liberation: con la partecipazione alla guerra in Iraq Aznar voleva che la Spagna contasse di più nel mondo; e la nazione, esprimendosi il 14 marzo, ha dimostrato che, in effetti, la propria opinione conta davvero negli equilibri planetari.
In Germania l’agenzia di stampa Dpa-AFX sostiene che sia stata la mancanza di un chiaro mandato elettorale (i socialisti non dispongono della maggioranza assoluta in parlamento) ad aver spiazzato la borsa spagnola subito dopo le elezioni. Ma il cambio di governo non dovrebbe portare a rilevanti novità nella politica economica di Madrid, perché Zapatero sta formando una squadra di economisti dal programma liberale e pare non essere intenzionato ad interferire in un’economia in pieno boom. E se il turismo non risentirà più di tanto dell’effetto-attentati, come spiegato da Jesus Martinez Millan dell’associazione nazionale di settore, a poter subire qualche cambiamento sono i vertici delle ex aziende di stato. Dopo la privatizzazione, infatti, il governo Aznar aveva nominato persone di fiducia alla guida di Telefonica, Repsol YPF ed Endesa. Ma i socialisti hanno già respinto, per ora, l’ipotesi di un gito di vite dei superdirigenti.
E in Spagna? Il quotidiano più importante, El Pais, ha ammonito il nuovo governo di Zapatero, ricordandogli che non potrà sperare nella classica luna di miele con la stampa nei primi cento giorni di lavoro. Entro il 30 giugno, infatti, dovrà esserci la disdetta della presenza militare in Iraq, a meno che l’Onu non prenda il comando delle operazioni. Anche in economia ci sono alcune questioni urgenti: dall’avvio di un dialogo con i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro al ripristino delle normali condizioni di tranquillità e fiducia nei mercati finanziari.
Tanto rumore per nulla
Antonio D’Amato, presidente di Confindustria, ha esposto al nostro giornale l’urgente bisogno italiano di un sistema più forte di controllo sulle aziende, soprattutto se quotate in borsa. Ha inoltre invocato maggiori verifiche a livello internazionale sul lavoro di revisori e analisti finanziari, soprattutto quando questi ultimi operano in conflitto di interessi. Tuttavia nella storia mondiale recente le richieste post-scandalo di una più decisa supervisione di banche e mercati azionari non hanno quasi mai portato a dei sostanziali miglioramenti. E la cosa sembra valere anche per il caso Parmalat, da cui è nato solo un grande “liberi tutti”, in un confronto tra politici e operatori che è più emotivo che lucido e razionale. Per arrivare a una soluzione è importante rendersi conto che legislatori e controllori devono disporre di poteri effettivi, e non pro-forma.
Da “Parmalat scandal underscores the need for solid overhauls”, Wall Street Journal Europe, 12 gennaio 2004, http://online.wsj.com/public/europe
I baroni rampanti
“E’ dura la vita a Firenze per l’uomo ricco”, scriveva Lorenzo de’ Medici nel 1473, “a meno che non controlli i poteri dello stato”. E’ una strategia, quella di utilizzare l’autorità pubblica per ossigenare gli interessi privati, che Lorenzo perseguì nei 23 anni in cui si trovò a gestire la banca di famiglia. Molti commentatori ne fanno un paragone con Berlusconi, altri con le complicità e connivenze politiche che hanno tenuto in piedi Parmalat negli ultimi dieci anni. Sta di fatto in ogni caso che nello scandalo Parmalat ci sono delle peculiarità tipicamente italiane, come la figura del barone (Calisto Tanzi) di città, adulato spesso senza ritegno. Come già lo è stato Gianni Agnelli, con le interminabili agiografie seguite alla sua morte e per la totale assenza di considerazioni oggettive sulla sua effettiva abilità imprenditoriale, in opposizione alla sua capacità di ottenere sussidi pubblici. Tutto questo dimostra quanta presa tali figure abbiano sull’immaginario popolare italiano. E il non plus ultra, la manifestazione più eclatante e frequente del potere di questi baroni, è il possesso della squadra calcistica cittadina: Tanzi con il Parma, Cagnotti (Cirio) con la Lazio e Cecchi Gori con la Fiorentina. A questo punto è chiaro come qualsiasi cambiamento nelle regole e nei controlli delle aziende sarà irrilevante di fronte a una dinamica psico-sociale così forte.
Da “Parmalat Now that’s Italian!”, The Wall Street Journal Europe, 19 gennaio, http://online.wsj.com/public/europe
Un 2004 sottotono per Piazza Affari
Con l’esplodere della bomba Parmalat, il Mib30 non ha riscontrato variazioni significative dall’inizio di dicembre, mentre l’indice Eurotop è salito del 4%. L’andamento deludente della borsa italiana rispetto ai principali concorrenti è destinato a perdurare, esattamente come è successo nel 2003 ai titoli olandesi dopo lo scandalo finanziario della società Ahold. L’anno scorso, infatti, l’indice AEX (Paesi Bassi) non si è mosso, mentre il resto dell’Europa registrava forti incrementi nei valori azionari.
Dalla rubrica “Breakingviews”, Wall Street Journal Europe, 12 gennaio 2004, http://online.wsj.com/public/europe
Meno regole, più efficienza
Ricorrere a nuove leggi e regolamenti per evitare futuri scandali finanziari non è spesso la soluzione migliore, per Parmalat oggi come lo è stato per Enron, WorldCom e Tyco ieri con la legge Sarbanes-Oxley. I nuovi vincoli giuridici, stilati e approvati velocemente dopo lo scoppio del bubbone, tendono a ridurre l’efficienza del sistema perché interferiscono con le libertà economiche. E aumentano i costi legali, portano a uno spreco di tempo per i consigli di amministrazione e scoraggiano le società dal quotarsi in borsa.
Da “The wrong way to avoid a corporate scandal”, Financial Times, 9 gennaio 2004, http://www.ft.com
La corsa delle parole in difesa del sistema
Dopo i miglioramenti degli ultimi cinque anni nella corporate governance delle imprese del Bel Paese, il caso Parmalat ha riacceso nel mondo i vecchi timori sull’affidabilità del sistema Italia. Tuttavia esperti e dirigenti delle grandi aziende italiane ritengono che le aziende del paese restino sopra la media europea in termini di controlli e diritti dei soci di minoranza. Per Erik Bomans, un avvocato specializzato nella tutela dei diritti degli azionisti, in Italia i detentori di quote di minoranza dispongono di alcuni poteri, ma devono imparare ad usarli. Tra i sostenitori della validità del sistema italiano c’è anche Corrado Passera, amministratore delegato di Banca Intesa, secondo cui le aziende italiane sono dotate di buoni controlli, e purtroppo nessun apparato di corporate governance al mondo avrebbe potuto fermare il dissesto di Parmalat.
Da “Rush to restore Italy’s corporate image”, Financial Times, 16 gennaio 2004, http://www.ft.com
Per un’Europa unita di fronte a Parmalat
La risposta europea al crack di Parmalat è finora stata molto debole, senza il vigore americano del dopo Enron. Molti osservatori infatti considerano il caso come un affare esclusivamente italiano. Dopotutto, sostengono, non è questo il paese del lassismo berlusconiano nei confronti del falso in bilancio? E, continuano, non è l’Italia un modello di disaffezione verso le regole per una corretta e trasparente gestione aziendale?
Ma al di là del contesto italiano, il problema deve essere inquadrato in un’ottica europea. Bruxelles ha infatti tutto l’interesse a ridurre le discrepanze tra le diverse legislazioni nazionali in tema di corporate governance, soprattutto in vista dell’allargamento a est, con l’inevitabile aggiunta di nuovi colori al già tanto variegato sistema legislativo dell’Unione. E i governi nazionali dovrebbero appoggiare ogni tentativo comunitario di armonizzazione, a cominciare dalle regole di contabilità e di revisione di bilancio.
Da “The pause after Parmalat”, The Economist, 17-23 gennaio 2004, http://www.economist.com
Se tardi non è meglio di mai
Anche se lo scandalo Parmalat è scoppiato solo a metà dicembre, alcuni segnali erano già emersi mesi prima, soprattutto da parte di analisti economici e rappresentanti sindacali. Molti sono quindi quelli che si chiedono come mai ci sia voluto tanto tempo prima di arrivare all’implosione finale ed esplicita dell’azienda emiliana. Il governo Berlusconi accusa la Banca d’Italia di non aver prestato abbastanza attenzioni alle forti esposizioni di alcune banche verso Parmalat. E la Banca d’Italia, a sua volta, punta il dito contro l’operato del ministro Tremonti. Infine, anche la Consob è sotto il mirino dei commentatori, perché normalmente non comincerebbe alcuna inchiesta senza che prima succeda qualcosa sui mercati finanziari, quindi spesso troppo tardi. In generale sembra che legislatori, controllori e investigatori abbiano riposto troppa fiducia sulla grandezza e sull’apparente successo dell’azienda di Tanzi.
Da “Italians wonder why it took so long to spot Parmalat’s problems”, International Herald Tribune, 15 gennaio 2004, http://www.iht.com
Parmalat, uno scandalo fra tanti
Il fallimento del gigante agro-alimentare italiano lascia un’impressione di “déjà vu” e mette la comunità finanziaria internazionale di fronte alle proprie debolezze, al di là delle specificità del sistema Italia. Alcuni fatti sono particolarmente inquietanti, o curiosi:
· Quando nel marzo del 2003 la banca Lehman Brothers aveva preavvisato i propri clienti sulle difficoltà di Parmalat, Calisto Tanzi sporse immediatamente denuncia per diffamazione di fronte alla Consob.
· Nonostante le pressioni di Londra, la dipendenza inglese delle isole Cayman continua a rifiutarsi di applicare la direttiva europea sul risparmio e contro le frodi fiscali.
· Per avere l’autorizzazione a girare alle isole Cayman il film tratto dal libro “Il socio” di John Grisham, una storia di riciclaggio di denaro sporco mafioso ambientata nel paradiso caraibico, la Paramount Pictures ha dovuto aggiungere tra le scritte di fine pellicola la frase “Questo lungometraggio non corrisponde assolutamente alla realtà”. Parmalat ha dimostrato il contrario.
Da “Parmalat, comme tant d’autres ”, Le Monde, 14 gennaio 2003, http://www.lemonde.fr
La grande illusione
Calisto Tanzi gestiva il proprio impero economico come la famiglia. Veniva informato su tutti i problemi e ne organizzava l’occultamento. Dietro di lui si scopre una rete di omertà mafiose, nepotismi, dirigenti senza scrupoli e banche accondiscendenti. E una forte somiglianza con gli altri casi all’estero, come evidenzia Marco Vitale, professore universitario e acuto conoscitore del mondo di “corporate Italy”. Perché, in Italia come per esempio negli Stati Uniti di Enron, le banche d’affari, le agenzie di rating e le società di revisione sono le stesse, come simili sono i meccanismi della grande truffa.
Da “Milchmann in Groessenwahn”, Handelsblatt, 12 gennaio 2004, http://www.handelsblatt.de
Politici conniventi
Secondo fonti giudiziarie l’inchiesta Parmalat sta concentrandosi sui legami dell’azienda con la classe politica, che avrebbe avuto un importante ruolo, insieme alle istituzioni finanziarie, nel consentire a Calisto Tanzi di ingannare gli investitori e occultare la verità sui propri conti. Si tratta della prima volta in cui il sistema della giustizia fa riferimento a una possibile implicazione politica nella frode parmense.
Da “La investigaciòn del caso Parmalat llega a la clase politica”, Expansiòn, 13 gennaio 2004, http://www.expansion.com
Il fatto
Secondo il compromesso raggiunto la Germania dovrebbe dunque abbassare il deficit 2004 dello 0,6%, depurato della congiuntura, e dello 0,5% nel 2005.
Le reazioni in Germania: i politici. Il compromesso sul deficit fra Germania ed UE ha creato ulteriore tensione fra governo rosso-verde e opposizione (Cdu-Csu e liberali); lo si è visto al Bundestag nella seduta di presentazione dell’equivalente tedesco della nostra finanziaria. Ciò fra l’altro renderà ancora più complesse le trattative in corso al comitato di mediazione, dove si stanno discutendo le riforme del mercato del lavoro e i cui risultati sono attesi a breve. Il cancelliere Schroeder ha difeso il compromesso, sostenendo che chi vi si oppone, tralascia l’opportunità di una maggior crescita nel prossimo anno. Il nome completo del patto è Patto di Stabilità e Crescita; per cui vi sono fasi in cui bisogna tenere in maggior considerazione il secondo obbiettivo. Schroeder ha poi definito l’accordo come un compromesso ragionevole fra ulteriore consolidamento e sostegno ai segnali di crescita. Se la Germania avesse accettato i risparmi imposti, ne sarebbe stata gravemente danneggiata l’economia e soprattutto la congiuntura interna. Per rafforzare gli impulsi di crescita in Germania è infatti necessario anticipare al 2004 la riforma fiscale prevista per il 2005 e ciò non sarebbe stato compatibile con i risparmi voluti dalla commissione UE. Sempre secondo il cancelliere la Germania avrebbe potuto adempiere alle richieste della Commissione, se avesse rinunciato ad anticipare lo sgravio fiscale. Schroeder ha difeso la violazione alle regole del patto davanti al Bundestag e ha definito il medesimo aperto a interpretazioni. Per il ministro delle finanze Eichel il Patto non è morto e va mantenuto così com’è, solo va applicato in modo sensato. Eichel ha suggerito di fare pressioni di consolidamento sugli stati nelle fasi di forte crescita, riprendendo un pensiero del suo collega e oppositore olandese Zalm.
Soddisfatti del compromesso si sono dichiarati anche i verdi e il sindacato DGB, mentre l’Unione (CDU-CSU) teme che la violazione del patto abbia effetti negativi sull’euro. E per bocca del capogruppo Merz sostiene che i ministri finanziari hanno violato nello spirito e nella lettera il patto. Non si tratterebbe, com’è stato presentato, di un compromesso, ma di una brutale decisione a maggioranza dalle conseguenze imprevedibili. Non è escluso che ben presto altri paesi chiederanno un trattamento speciale come la Germania e la Francia. Anche se nel breve periodo le conseguenze non saranno rilevanti, nel medio aumenteranno i deficit e a lungo termine vi saranno pesanti ripercussioni sul livello degli interessi ed anche sulla stabilità della moneta. Dello stesso parere la Csu: Stoiber vede nel comportamento del ministro Eichel la fine del patto e un segnale completamente sbagliato per i paesi candidati all’ingresso nella UE.
Le reazioni in Germania: economisti e commentatori
A sostegno della posizione di Eichel sono intervenuti alcuni esperti. Ad es. Selm di HWWA (Hamburgisches Welt-Wirtschafts-Archiv) vede nell’attuale sviluppo la possibilità che dal vecchio patto ne sorga uno nuovo. Questo Patto di stabilità II dovrebbe essere più completo del precedente, che prevede eccezioni solo in caso di recessioni reali. Al momento dell’attuazione del patto non si era calcolato la possibilità che ci fossero tre anni di stagnazione, sebbene le conseguenze per i bilanci pubblici siano simili a quelli di una forte recessione. Inoltre le nuove linee guida dovrebbero obbligare gli stati a consolidare di più nei periodi di boom che in tempi di crisi congiunturale. L’obiettivo dovrebbe essere quello di avere bilanci in pareggio nell’arco di un intero ciclo congiunturale.
Tuttavia la maggior parte degli economisti sono più critici: essi concordano sul fatto che il compromesso raggiunto a Bruxelles segna lo smantellamento del patto, e uno dei 5 saggi, Wolfgang Franz, mette in guardia da una perdita di fiducia e da un forte aumento degli interessi a lungo termine come conseguenza della decisione presa. Per l’esperto monetario Neumann il patto è praticamente morto, se lo si mette fuori gioco nel momento del bisogno. Anch’egli tuttavia sostiene che il patto non era stato concepito per una stagnazione continua, in quanto si orientava al ciclo congiunturale noto fino a quel momento. Tuttavia la stagnazione non si affronta con deficit persistenti, bensì con cambiamenti strutturali tempestivi, cosa che né Germania né Francia hanno fatto.
Per molti commentatori non si tratta solo di valutare in che misura soffrirà la futura stabilità dell’euro, se viene data dispensa per una politica di bilancio deficitaria: in discussione è il modo brutale in cui il governo francese e tedesco si sono imposti sulla Commissione europea e sui piccoli stati membri. Non esistono dunque regole uguali per tutti, e ciò che viene concesso alla Germania, il Portogallo se lo può ancora per un pezzo sognare. Nessuno dovrebbe sottovalutare le devastanti conseguenze di un simile fatto; sia che si tratti della futura Costituzione europea che di politica estera o di difesa comune molte belle idee provenienti da Berlino o da Parigi saranno da ora in poi guardate con sospetto, in quanto possibili portatrici di interessi occulti. Per questo trionfo effimero di Schroeder e di Eichel su Bruxelles pagherà la Germania, quando il governo rosso-verde sarà solo storia. Conseguenze visibili saranno in tempi non troppo lontani più elevati deficit di bilancio non solo in Germania e in Francia, bensì anche nell’eurozona. Senza la Germania a difesa della cultura della stabilità, i ministri finanziari dei paesi che si sforzano ancora seriamente per il pareggio di bilancio, si troveranno ancora più in difficoltà nell’affrontare le forti lobby politiche che esercitano pressioni sulle finanziarie. La rottura del patto diminuisce le opportunità di una crescita più elevata e quindi di più posti di lavoro e maggior benessere per tutti i cittadini. Ma i politici sanno bene che l’importo di queste perdite a medio termine non è quantificabile, mentre gli effetti congiunturali ottenibili con il denaro distribuito nel breve periodo può aiutare a vincere in un’elezione o nell’altra, ad esempio nel 2005 nel Nordreno Vestfalia. Per consolidare il suo potere il cancelliere ha gettato al vento anche il monito dei più strenui controllori del patto, e dunque non indugerà a fare pressioni politiche sulla Banca centrale europea, se questa per i deficit crescenti si dovesse vedere costretta ad aumentare gli interessi.
Il presidente del Consiglio degli esperti per la valutazione dello sviluppo economico, Wolfgang Wiegard, nel presentare il 12 novembre il rapporto annuale sull’economia, ha sollecitato il governo a rispettare il patto; un nuovo superamento del deficit nel prossimo anno, senza che vengano applicate sanzioni, rischia di smantellare il patto stesso, che è invece necessario anche per il consolidamento interno. Per il presidente della Bundesbank Welteke, fra i compiti principali di un’assennata politica pubblica vi è quella di avere i conti in ordine e a questo servono le norme del patto di stabilità.
Anche per Hundt, presidente di BDA (Confederazione federale delle associazioni tedesche dei datori di lavoro) la decisione dei ministri finanziari rappresenta lo smantellamento del patto di stabilità; particolarmente fastidioso risulta il fatto che proprio chi ha voluto il patto contribuisca ora alla sua fine.
Per la maggior parte degli analisti la decisone dei ministri finanziari non avrà gravose conseguenze sul corso dell’euro; ieri non vi è stata quasi variazione. Anche per il DIW (istituto di ricerca economica) il compromesso non dovrebbe portare ad un ulteriore aumento dell’euro; il patto di stabilità non lo influenzerebbe quasi. I mercati avrebbero già recepito il conflitto e la soluzione adottata non è poi una grande sorpresa, ha dichiarato Horn, capo di DIW-congiuntura. Il conflitto era inevitabile ed è buona cosa che si sia arrivati al compromesso. Finché gli stati europei possono bloccare l’inflazione, si avrà un euro forte. Il legame fra gli adempimenti dei criteri di stabilità dell’euro e la forza della moneta comune è minimo. Se si arrivasse ad una situazione come quella Argentina, allora sarebbe diverso, tuttavia sia la Germania che l’Europa ne sono ben lontane. Decisiva per la forza dell’euro è la crescita dei prezzi; tuttavia l’inflazione non è prevista nel patto di stabilità e Horn, che si è sempre dichiarato molto critico nei confronti del patto, vede confermata la sua opinione in merito alla necessità di riformarlo, prendendo in considerazione le influenze congiunturali.
Anche Rolf Elgeti di Commerzbank Securities ritiene che il mercato ha già da tempo recepito un ammorbidimento del patto; tuttavia ciò ha causato danni strutturali per quanto riguarda la stabilità della moneta sul lungo periodo. Per il momento sul mercato azionario le conseguenze saranno positive: un euro forte è certamente il rischio più temuto dal mercato azionario stesso; un euro forte assottiglia i profitti delle imprese europee esportatrici e il mercato tedesco e belga dovrebbero essere quelli che traggono maggiori benefici dall’attuale situazione, in quanto è massima la loro dipendenza dall’export. Le imprese che hanno debiti o costi in dollari e le cui attività di bilancio o i fatturati sono nell’eurozona saranno invece quelle più penalizzate dall’ euro debole
Comunque la Germania deve risparmiare di più, questo è il monito che l’economista Wurzel dell’Ocse ha lanciato alla presentazione della nuova previsione di crescita; egli invita a non finanziare l’anticipo della riforma fiscale attraverso i debiti: la riforma dovrebbe avera una quasi totale copertura, in modo particolare attraverso il taglio delle sovvenzioni. Secondo l’Ocse la Germania non raggiungerà neppure nel 2005 l’obiettivo posto dal patto di stabilità; nel 2003 il deficit sarà di 4,1, per l’anno successivo del 3,7% e nel 2005 di 3,5%.
La rassegna stampa si basa su articoli apparsi in: Financial Times Deutschland, Handelsblatt, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Sueddeutsche Zeitung, Tagesspiegel-online
“Keynesian loyalist noted for life-cycles saving theory”, Financial Times, 28 settembre 2003. “Professor Franco Modigliani, Nobel prizewinning economist and author of the life-cycle theory of spending”, The Independent 29 settembre 2003. “Franco Modigliani, 85, MIT teacher, Nobel laureate in economics”, The Boston Globe, 26 settembre 2003. “Franco Modigliani, 85, Nobel-winning economist, dies”, The New York Times, 26 settembre. “Franco Modigliani, prix Nobel d’économie 1985”, Le Monde, 27 settembre 2003. “Wirtschafts-Nobelpreistraeger Modigliani gestorben”, Basler Zeitung Online, 25 settembre 2003. “Fallace el premio Nobel de Economìa Franco Modigliani, estudioso del aborro domestico”, El Mundo, 26 settembre 2003.
Franco Modigliani è stato indubbiamente uno dei più grandi cervelli che Hitler ha regalato agli Stati Uniti. Ebreo, fuggito dall’Italia durante le persecuzioni antigiudaiche ispirate al modello tedesco, l’economista si poi rifiutato per lungo tempo di avere a che fare con il suo paese natale. Ma ritornò nel 1955 e, pur criticando gli eccessi gerarchici dell’accademia italiana, tenne diverse lezioni universitarie e collaborò con il Corriere della Sera, dalle colonne del quale si oppose con forza alla pratica della “scala mobile”.
L’economista, autore della teoria del ciclo vitale e premio Nobel nel 1985, non aveva mai perso una delle principali qualità di un intellettuale: sapere ascoltare. Raramente parlava per primo, e spesso apriva bocca per dire: “Interessante, raccontatemi di più!”. Grande uomo di studi, riconosceva il ruolo strumentale della teoria, che doveva nascere dal mondo reale, per poi svilupparsi sulla carta. Per tornare quindi alla realtà, sui cui dati doveva confrontarsi e verificare la propria validità.
“Il più grande economista vivente”, così lo ha definito il collega Paul Samuelson, aggiungendo che, oltre al Nobel per l’economia, avrebbe potuto vincere anche in altri rami. Modigliani è riuscito a individuare gli aspetti semplici di complessi sistemi economici, dalla finanza aziendale ai risparmi personali, e li ha insegnati a generazioni di studenti. “Scienza dell’economia e politica economica sono sue cose diverse”, sosteneva, “e noi economisti possiamo avere opinioni divergenti in politica, ma l’economia come scienza ci unisce”.
Franco Modigliani, uno degli economisti che meglio hanno spiegato i cambiamenti economici degli ultimi 50 anni, è rimasto ancorato al suo compito fino alla fine. Criticando la politica fiscale espansiva dell’attuale governo statunitense, accusato di mandare all’aria i risparmi accumulati nel tempo, con inopportune misure di tagli alle imposte e conseguente aumento del deficit.
L’economista, di origine italiana ma residente negli Stati Uniti, si è interessato fino a una settimana prima della morte alla politica del proprio paese natale. Inviando una lettera di protesta, co-firmata con i colleghi Paul Samuelson e Robert Solow, contro la decisione di un’associazione ebraica americana di conferire un premio a Silvio Berlusconi. Il quale aveva precedentemente scagionato Mussolini dalle accuse di genocidio, definendo le deportazioni di Ebrei come “un lungo esilio”.
L’economista italiano, residente negli Stati Uniti, è sempre stato un critico osservatore della politica economica del Bel Paese. Personaggio molto richiesto dai mezzi di comunicazione italiani, Modigliani accusava spesso il suo paese natale di carente senso dello stato e di poca fiducia nelle istituzioni pubbliche.
Franco Modigliani non è nato economista. I suoi primi studi sono stati in legge. Ciononostante, durante l’università gli riuscì di vincere un premio di economia organizzato da un’associazione culturale progressista, nella quale maturarono le sue idee antifasciste. Costretto a lasciare l’Italia per le persecuzioni contro gli Ebrei, Modigliani raggiunse gli Stati Uniti, dove cominciò la sua carriera accademica che lo ha portato al Nobel