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Categoria: Unione europea Pagina 65 di 98

REGOLE COERENTI PER GLI INVESTIMENTI ESTERI IN EUROPA

Anche in Europa crescono gli investimenti delle economie emergenti. E con essi le preoccupazioni per possibili effetti sulla sicurezza dei paesi europei. È un terreno delicato, considerata la diversità di attitudine alla questione degli Stati membri. L’Unione Europea deve dotarsi di una base giuridica chiara e coerente che permetta di proteggere le poche società veramente strategiche sotto il profilo tecnologico o della sicurezza e consenta il controllo di reti e infrastrutture nevralgiche. Evitando però che questa legislazione venga utilizzata come scusa per bloccare affari inoffensivi.

BUON 2011 ALL’EURO

Il 2010 è stato un anno terribile per l’Europa. Andrà meglio nel 2011? Dipende da come verranno affrontati i problemi fondamentali. Chi dovrebbe garantire la disciplina fiscale, i singoli paesi o un rafforzato Patto di stabilità? E come si dovrebbe consentire la ristrutturazione dei debiti sovrani? Il diverso grado di competitività dei paesi è un falso problema. E se gli ottimisti vedono in un futuro Fme i semi di una possibile autorità sovranazionale che superi i limiti di una moneta senza Stato, c’è il rischio che conduca invece al fallimento del progetto dell’euro.

UN’ALTRA STORIA D’IRLANDA

Che cosa sarebbe accaduto in Irlanda, a parità di altre condizioni, se non vi fosse stato quel fenomeno, non considerato nell’articolo di Alberto Bagnai, di bolla immobiliare innescatasi all’inizio dell’ultimo decennio e implosa dal 2008 in avanti? Una possibile risposta è che la Repubblica d’Irlanda, oggi, non avrebbe quasi conosciuto la crisi economica e finanziaria che invece ben conosce.

LA BOLLA D’IRLANDA

L’economia e la politica economica sono il regno del relativo più che dell’assoluto, e quindi della misura e delle distinzioni più che delle visioni tolemaiche. Giacché l’Irlanda è un paese molto piccolo demograficamente, con molta manodopera ben istruita che parla correntemente inglese, non è sorprendente che in un periodo storico di straordinaria apertura del commercio mondiale abbia fondato la propria crescita sull’attrazione di capitali multinazionali e sugli scambi commerciali. Ciò che sorprende, invece, è che il modello di crescita della tigre celtica non sia stato governato con maggiore decisione, evitando la bolla immobiliare che ha poi finito in larga parte per determinare la crisi attuale.
Leggendo in almeno due fasi la storia d’Irlanda raccontata dal professor Bagnai si può introdurre una discontinuità nel modello di crescita irlandese, più o meno tra il 1998 e il 2002. È l’Economist a indicare questa interessante chiave di lettura. (1) Non è solamente l’ingresso nell’euro, infatti, a modificare il quadro macroeconomico, ma la crescita del settore immobiliare. La cosiddetta tigre celtica è già svanita quando il settore di punta diventa l’immobiliare. A quel punto infatti la crescita non è più trainata dalle esportazioni, ma dalla bolla immobiliare e dalla domanda interna: più che di crescita reale si tratta di crescita di prezzi, valori e investimenti in costruzioni, di cui una maggiore parte in edilizia residenziale. Questo tipo di crescita, sostenuto dal favore per l’indebitamento privato accordato dalle banche, mina alle fondamenta i risultati del periodo precedente. Un’altra storia d’Irlanda avrebbe potuto scriversi, dal 1999 o dal 2002 in avanti, senza questa lievitazione asimmetrica dei prezzi a favore dei settori più protetti dell’economia nazionale.

I DATI CHE SPIEGANO L’ULTIMO DECENNIO

Un dato importante per capire ciò che è avvenuto in Irlanda nell’ultimo decennio è quello dei metri quadri di nuove aree edificabili. Questo dato chiama a responsabilità innanzitutto i governi locali: si passa da circa 10 milioni di metri quadri di permessi di costruire autorizzati nel 1998, già in aumento rispetto alla media del decennio Novanta (intorno a 5 milioni di mq. annui), a 16 milioni di metri quadri nel 2001. Il continuo aumento di aree edificabili autorizzate raggiunge il suo massimo nel 2007, proprio un anno prima della crisi dei valori e dei volumi immobiliari, che inizia a sgonfiare rapidamente la bolla nel 2008. Solo nel 2009, quando la bolla si sgonfia, i nuovi permessi di costruire tornano al valore del 1998. La costruzione di infrastrutture costituisce una minima parte dei permessi, in gran parte dovuti ad abitazioni e a edilizia non residenziale.

Tabella 1. Permessi di costruire durante il “boom” edilizio

Permessi di costruire, in milioni di metri quadri
Anni Mq. % per scopi residenziali
1998 10.2 59.8
2001 16.2 64.2
2002 14.4 61.1
2005  20 66.0
2007  24 50.8
2008 16.8 58.3
2009 10.2 57.8

Fonte: Central Statistics Office Ireland

Leggendo con attenzione le statistiche si comprende che la crescita dei prezzi delle case usate è perfino più rapida di quella delle nuove. Una volta innescato, il boom edilizio coinvolge i vecchi proprietari ed è alimentato da crescenti margini di intermediazione commerciale.
La curva blu, nel grafico 1, evidenzia chiaramente il ritmo accelerato della crescita dei volumi dell’industria delle costruzioni dal 2002 fino alla caduta, che inizia nel 2007. Questo andamento è approssimato solo dalla Spagna, che ha tuttavia una curva più morbida, come relativamente più morbido è l’andamento dei volumi immobiliari italiano e di altri paesi dell’Unione Europea, e la media UE a 27. (2)

Fonte: Eurostat, reported by Ireland Statistics

N.B. Le serie storiche riportate sono utili a leggere la variazione annuale dei valori immobiliari in ciascun paese e non per comparare il livello dei prezzi tra paesi.

Quando arriva la crisi i cosiddetti settori tradizionali dell’economia irlandese, in ambito manifatturiero, tornano al livello di produzione della fine degli anni Novanta, mentre il settore moderno dell’economia (così definito nelle stesse statistiche irlandesi), su cui operano non solo le multinazionali ma anche imprese locali, non conosce alcuna crisi, proseguendo la crescita della produzione, o rimanendo stabile. Questo settore è soprattutto composto di beni di consumo non  durevoli (computer, informatica, ottica, chimica e farmaceutica, eccetera). L’indice di produzione industriale non mostra alcuna significativa flessione nemmeno per alcuni comparti di trasformazione agroalimentare. Non è quindi l’economia solida ed esportatrice a entrare in crisi, ma il mercato interno, drogato dalla bolla immobiliare, a ridimensionarsi pesantemente.

THE IRISH TIMES E “L’ANIMA SEMPLICE DELLA CLASSE LAVORATRICE”

In un numero del The Irish Times campeggia una storiella sulla crisi economica irlandese. (3) La storiella, in forma di lettera e sostanzialmente corretta, è firmata da una “anima semplice della classe lavoratrice, che non ha potuto studiare”. La storia racconta di come le banche irlandesi abbiano preso a prestito enormi somme di danaro da speculatori e investitori sui mercati monetari, per poi prestare questi danari a investitori e speculatori irlandesi, che a un certo punto non riescono a restituire i debiti.
A quel punto il governo interviene in soccorso delle banche, aumentando la spesa corrente e ricorrendo di nuovo agli speculatori e investitori internazionali per finanziare i propri bond.
Anche la crescita della disoccupazione negli ultimi due anni si spiega con l’aumento della popolazione in età lavorativa, connessa al boom immobiliare. I residenti in Irlanda sono cresciuti, dal 1991 al 2010, di circa 1 milione (erano 3,5 e sono oggi 4,5 milioni), ma di ben 600mila dal 2002 in avanti. Anche se dovessero oggi emigrare 500mila degli attuali residenti, l’Irlanda di domani non sarebbe più quella dell’inizio degli anni Novanta, grazie al primo decennio di crescita in cui sono cambiate la sua struttura produttiva e le capacità della forza lavoro, nella trasformazione industriale e nel terziario più innovativo. (4) Il boom immobiliare degli ultimi dieci anni ha contribuito invece solo a cambiare il panorama, riempiendolo di molte case vuote: la quota di mutui erogati per fini diversi dall’acquisto della “prima casa” è infatti costantemente cresciuta, andando ben oltre il 50 per cento. (5)

(1) “The party is definitely over. How wage cuts and tax rises might preserve the gains of Ireland’s Celtic Tiger years”, The Economist, March 19, 2009.
(2) La speculazione immobiliare si sposta dal 2007 nei paesi dell’Est Europa che non adottano ancora l’euro. L’inflazione immobiliare è connessa a un allentamento, quando non alla vera e propria violazione, delle regole edilizie (su proprietà dei terreni, concessioni e permessi di costruire), e alla mobilità dei capitali. Non è da attribuirsi direttamente alla moneta unica, anche se la possibilità di uniformare i prezzi degli immobili a “standard internazionali” può costituire chiaramente una opportunità per gli speculatori che operano nei paesi e nelle regioni più arretrate e periferiche.
(3) “Irish economic crisis – made simple”, in The Irish Times, September 23, 2010.
(4) L’emigrazione potrebbe forse frenare la discesa dei salari reali.
(5) Nel 2004 la percentuale di acquirenti di case che comprano “per la prima volta” è del 48 per cento.

LA RISPOSTA AI COMMENTI E A MARCO SPAMPINATO

Nel mio precedente intervento segnalavo che l’Irlanda presenta uno dei rapporti fra redditi da capitale corrisposti all’estero e Pil più elevati al mondo, chiaro indice di insostenibilità del debito estero (che nel suo caso è essenzialmente di natura privata). Prendendo la media del rapporto redditi netti dall’estero/Pil sul periodo 2002-2007, l’Irlanda (-15 per cento) è preceduta solo dal Congo (-23 per cento); molto più giù troviamo: Islanda (45esimo posto, -3.7per cento), Grecia (62esimo posto, -2.7 per cento), Portogallo (63esimo posto, -2.7 per cento), Spagna (84esimo posto, -1.9 per cento), Italia (98esimo posto, -1.1 per cento). Germania, Francia, Olanda (e Stati Uniti, Giappone, Cina) hanno saldi positivi (1). Non è anormale che un paese europeo paghi all’estero un carico di interessi da Africa sub-sahariana?

BOTH A BORROWER AND A LENDER BE… WITH CARE!

Nel 2007 il Congo era ottavo nella graduatoria (2) del debito estero netto (-140 per cento del Pil). L’Irlanda stava molto meglio, era solo 115esima (debito netto: -18 per cento del Pil). Se due paesi che ricorrono al capitale estero in quantità tanto diverse pagano conti simili, vuol dire che chi ne usa di meno ne ha scelto un tipo più costoso. Controprova: come fanno gli Usa, al 116esimo posto (debito netto: -17 per cento del Pil), a incassare redditi da capitale positivi avendo un debito di proporzioni “irlandesi”? Perché vendono all’estero bond (fra cui i famosi T-Bill che vanno in Cina), e acquistano dall’estero azioni, in buona parte per il controllo diretto di aziende (cioè a titolo di Ide). Siccome le azioni sono più remunerative dei bond, gli Usa coi proventi di 1000 miliardi di attività azionarie nette (Ide) compensano gli oneri di -3000 miliardi di passività obbligazionarie nette (3). Al netto sono in debito per -2000, ma alla fine ci guadagnano anche perché hanno composto bene il loro portafoglio. Gli irlandesi no, e il loro onere del debito estero è abnorme.

GLI IDE NON SONO UN FREE LUNCH

Ragazzi sostiene invece che gli Ide in entrata sono convenienti: quando il capitale estero arriva, se le cose vanno bene lo remuneri, se vanno male no, perché è impossibile rimpatriare profitti se prima non li si fanno. L’argomento fila, ma non quadra coi dati. L’Irlanda è in crisi dal 2008, la sua competitività è in calo dal 2002. I redditi passivi da Ide però sono saliti da 29 miliardi nel 2002 a 32 nel 2009 e dal 2004 le partite correnti irlandesi sono in rosso: l’attivo commerciale è crollato di 17 punti di Pil dal 2002 al 2007, ma i redditi netti da capitale pagati all’estero sono rimasti attorno ai 15 punti di Pil (4). Da sei anni l’Irlanda si sta indebitando con l’estero per pagare interessi all’estero, a causa degli Ide, poiché i redditi da altri investimenti esteri sono bilanciati. Vediamola al contrario: se fosse pacifico che gli Ide in caso di crisi non vengono remunerati, perché mai Usa (e Germania, e Giappone, e fra poco la Cina) sarebbero così ingenui da mantenere posizione netta positiva in Ide? Meglio prendere soldi a prestito e non pagare quando le cose vanno male, piuttosto che darli a prestito e non essere pagati, no? Ma le cose non vanno così.

LE BOLLE SONO PIENE DI SOLDI (ESTERI).

 Sintesi: l’Irlanda ha un problema di debito estero. Senza contestarlo, Spampinato sostiene che invece (?) il problema è la bolla: tutti si sono messi a comprare case, i prezzi sono cresciuti, ecc. Ma gli irlandesi i soldi per gonfiare la bolla dove li hanno trovati? Risposta: in banca. Perché, segnala Ragazzi, in Irlanda “le passività delle banche sono salite fino a 5 volte il Pil”. Va bene, ma allora le banche irlandesi i soldi dove li hanno trovati? Se hanno espanso indiscriminatamente i prestiti, cioè il debito (privato) dei loro clienti, finanziando bolle, evidentemente disponevano di liquidità esorbitante, che non poteva provenire solo dai risparmi di 4 milioni di irlandesi. E infatti proveniva dall’estero: in particolare, la raccolta all’esterno dell’eurozona è aumentata del 708 per cento nel decennio 1999-2008. Se risaliamo la catena causale, dalla bolla si arriva al debito estero.

ANTE HOC ERGO PROPTER HOC?

Io segnalo che agli irlandesi sono arrivati troppi soldi dall’estero, Spampinato aggiunge che li hanno usati male. Un dato consequenziale, non alternativo, al mio. Che le banche, pur di non tenere inutilizzato un eccesso di liquidità, lo prestino a debitori (privati) non solvibili è purtroppo nella logica delle cose ed è già successo in tutti i paesi alluvionati da capitali esteri, nei quali, è risaputo, si sono ovviamente sviluppate bolle: Thailandia, Islanda, Spagna, Stati Uniti… Di converso: senza alluvione di capitali, ci sarebbero stati soldi per gonfiare la bolla? Trascuravo “banks & bubbles” non per inconsapevolezza, ma per consapevolezza (condivisa dall’“anima semplice”) del fatto che esse sono “a valle” dell’afflusso di capitali. Nei casi citati, la bolla è stata preceduta da un peggioramento strutturale (5) dell’indebitamento estero (in Irlanda: -4 punti di Pil dal 1997 al 2002). Certo, per capire dopo cosa è successo in un paese i permessi di costruzione sono utili, ma per capirlo prima è più utile l’indebitamento estero.

BACK TO FUNDAMENTALS

Perché un paese si mette a crescere coi soldi altrui? Nel 2006 uno studio della Bce (6) individuava nell’eurozona due club: uno ad alta inflazione (Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Olanda) e uno a bassa (Germania, Austria, Belgio, Francia e Finlandia), con l’Italia isolata in posizione intermedia. Nel 2004 l’Olanda ha cambiato club. Nel primo sono rimasti i Pigs con la “I” di Irlanda, che hanno perso competitività, diventando (come da manuale) importatori netti di capitali e incrementando i loro debiti esteri netti di più di 60 punti di Pil dal 1999 al 2007 (ricordate da dove siamo partiti?). Anche l’euro non è un free lunch: non basta entrarci, bisogna saperci stare. L’Olanda lo ha capito, i Pigs no. Più dell’evidenza aneddotica su bolle e speculatori, sarebbe di aiuto capire come l’Olanda abbia aggiustato i suoi fondamentali fra il 2002 e il 2004, portando l’inflazione dal 4 per cento all’1 per cento, e di conseguenza abbattendo di 31 punti di Pil il suo debito estero, e superando la crisi con solo -0.2 per cento di Pil (contro il -11.4 per cento dell’Irlanda).

LA MORALE DELLA FAVOLA

La mia non è una requisitoria no global contro i movimenti di capitale, ma una constatazione: in un mondo globalizzato, il debito estero non è più un problema che riguarda solo persone col colore della pelle diverso dal nostro. La sua entità e la sua composizione vanno monitorate e gestite anche e soprattutto da noi. Il resto sono (importanti, interessanti, dolorosi) epifenomeni.

(1) International Financial Statistics, 2010#8
(2) www.philiplane.org/EWN.html
(3) www.bea.gov/international/xls/intinv09_t2.xls
(4) www.cso.ie/releasespublications/documents/economy/current/bop.pdf
(5) www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2010/02/weodata/download.aspx
(6) Busetti et al. (2006) “Inflation convergence and divergence within the European Monetary Union”, ECB W. P., 574

COMPETITIVITÀ TEDESCA, UN GIOCO DA BAMBINI. PRODIGIO

Il post-crisi è caratterizzato da uno spostamento dei centri del potere economico verso le grandi economie emergenti e da una disperata ricerca di produttività e competitività nelle grandi economie occidentali. C’è riuscita la Germania, che pure è stata pesantemente colpita dalla crisi globale. Come? Partendo dal riconoscimento delle difficoltà e con un’azione di politica economica ispirata a una visione chiara e realistica del futuro. Per creare le condizioni istituzionali e strutturali per lo sviluppo delle attività economiche di domani.

Tommaso l’europeista

Un fondo in affitto

La legge di stabilità mette la parola fine al fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione. E nello stesso tempo la bozza di decreto legislativo sulla fiscalità municipale introduce la cedolare secca sugli affitti con un’aliquota del 20 per cento. Che determinerà una consistente perdita di gettito senza benefici tangibili per le famiglie in difficoltà a pagare un canone di mercato. Non sarebbe meglio allora utilizzare una somma pari al guadagno che deriva ai proprietari dal nuovo sistema di tassazione per rifinanziare il fondo?

 

L’Europa di Tommaso Padoa – Schioppa

La morale della favola irlandese

Ci sono insegnamenti da trarre dalle recenti vicende dell’Irlanda. Intanto, non basta considerare quanto un paese cresce, occorre anche considerare perché cresce, poiché da questo dipende la sua capacità di onorare i suoi impegni finanziari. La crescita finanziata prevalentemente dal capitale estero si rivela intrinsecamente fragile. E certo, gli Ide sono meno facili da smobilitare, ma proprio per questo la necessità di remunerarli può essere una zavorra per un sistema economico per parecchio tempo.

 

My name is Bond, Eurobond

La proposta Tremonti-Juncker di istituire una nuova agenzia europea con il compito di creare un debito europeo che sostituisca gradualmente i debiti pubblici nazionali è una buona idea per realizzare infrastrutture e aumentare la liquidità dei mercati. Per essere politicamente realizzabile, richiede però la rinuncia alla sovranità fiscale. Il punto dolente è che diverrebbe operativa dopo il 2013: rischierebbe così di accelerare il default di tutti i paesi a rischio. Non è dunque una soluzione per la crisi di debito dell’Europa.

 

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