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Categoria: Unione europea Pagina 97 di 98

La politica economica secondo la Convenzione

Dal progetto di Trattato traspare un faticoso compromesso più che un disegno comune sulle competenze di politica economica da attribuire alla Ue. Ma la strada indicata è quella giusta. La politica monetaria resta affidata alla Bce. Il Parlamento europeo acquista un ruolo maggiore, soprattutto sul bilancio. La Commissione guadagna poteri formali di iniziativa nella denuncia delle violazioni delle politiche comuni, mentre all’euro-gruppo viene affidato il coordinamento della disciplina di bilancio.

Quattro domande sull’Europa

La Conferenza intergovernativa di Roma è alle porte. All’Italia la responsabilità di guidare il processo che porterà all’adozione del nuovo testo di costituzione sulla base del progetto elaborato dalla Convenzione. È bene dunque che la discussione su questi temi sia quanto più ampia e informata possibile. Proponiamo perciò la sintesi di un dibattito tra Marco Buti, Alberto Majocchi, Jean Pisani-Ferry e Guido Tabellini sulla proposta Giscard. (Nella rubrica “Pro e contro” la versione integrale in inglese). Migliora l’efficienza decisionale dell’Unione, ma non la sua capacità di affrontare i grandi problemi europei. Sulla governance economica le critiche più accese.

Quanto cambia l’Unione

La Convenzione non dà all’Europa una costituzione in senso proprio. Ma l’ordinamento prefigurato resta un buon risultato perché chiarisce i principi, come la prevalenza del diritto comunitario, e semplifica i meccanismi decisionali. Resta sostanzialmente immutata la suddivisione di competenze tra Stati membri e Ue, mentre nelle istituzioni europee si rafforza il potere di ordinamento e indirizzo della Commissione. Nell’economia, l’euro-gruppo assume un ruolo più incisivo nel coordinamento economico interno.

I “quattro Grandi” dopo la proposta Giscard

Il metodo della doppia maggioranza indicato nella bozza di costituzione europea non si limita soltanto a qualificare le decisioni del Consiglio sulla base della popolazione. Ma sposta la distribuzione del potere politico a vantaggio dei grandi Paesi, a scapito degli Stati di medie dimensioni. E dietro il recupero dell’efficienza decisionale, si cela forse il desiderio di rafforzare l’asse franco-tedesco, che rischiava di scomparire con un allargamento a Est realizzato con le regole del Trattato di Nizza.

Regole vecchie e nuove

Prima di Nizza l’equilibrio politico nella Ue era garantito da un sistema di attribuzione di voti nel Consiglio che tutelava i piccoli Paesi attribuendo ai Grandi un sostanziale diritto di veto. Un equilibrio che si rivela equo anche secondo i principi della statistica. Ma mantenerlo dopo l’allargamento a Est avrebbe significato condannare l’Unione alla incapacità di prendere decisioni. Di qui la necessità di una riforma, come quella elaborata dalla Convenzione con il sistema della doppia maggioranza.

Vivere in un Paese, votare in un altro

Una situazione sempre più frequente. E molto illogica. Perché chi vive all’estero elegge nel Paese di nascita rappresentanti che decideranno su temi e questioni che non lo toccano, mentre non ha nessuna voce in capitolo per scegliere chi prenderà decisioni che lo interessano da vicino. Nonostante i proclami sulla cittadinanza europea, nessun partito politico si fa paladino di una revisione del sistema di voto. Sarà il mercato a imporre i cambiamenti necessari.

Formazione, povertà ed esclusione sociale

Un rapporto della Commissione europea mostra come il rischio di esclusione sociale sia concentrato sulle persone con bassi livelli di istruzione. E come la povertà in Italia duri più a lungo e sia spesso ereditata da una generazione all’altra.

Un Patto più flessibile

Le ragioni che spinsero le parti sociali e il Governo alla firma del Patto del luglio 1993 sono ancora valide. Tuttavia l’accordo va rivisto, per rendere più flessibile la contrattazione collettiva sul territorio e tener conto delle disparità fra i mercati regionali del lavoro

Il Patto italiano: perché non esportarlo in Europa?

Il modello italiano.
L’eredità del Patto del 1993 consente di rilanciare il modello italiano dei patti sociali nelle nuove condizioni economiche e politiche del 2003. La “nuova concertazione” tuttavia si distingue nettamente dalle esperienze precedenti: essa deve essere di tipo europeo per le sue caratteristiche e per la visione di riequilibrio strutturale e di integrazione economica internazionale che propone.

Le prospettive economiche.
Il confronto con il 1993 parte dalle prospettive economiche: nel 1993 siamo all’inizio di una fase di crescita economica sostenuta tirata dagli USA e dalla “new economy”. In Europa l’attenzione é centrata sul mercato unico, sull’UEM e sulle condizioni per l’allargamento. In Italia l’enfasi è sulle politiche di disinflazione, risanamento finanziario e consolidamento fiscale. Oggi, ci troviamo di fronte a rischi di recessione, squilibri dell’economia internazionale, difficoltà dell’Europa a fare da locomotiva e crisi di competitività e di investimenti nell’economia italiana. Nella fase precedente il 1993, il disavanzo delle partite correnti americane era stato riportato in equilibrio grazie alla “concertazione” del Plaza e alla forte rivalutazione di marco e yen. L’Europa ne pago’ il prezzo con la rottura dello SME e le crisi finanziarie dei paesi a moneta debole, tra cui l’Italia. Oggi l’economia europea, e ancor piu’ quella giapponese, hanno vincoli strutturali alla crescita e non paiono in grado di tenere una forte rivalutazione del cambio; l’Asia e la Cina non fanno la loro parte, e quindi c’è il rischio che l’aggiustamento dell’economia americana si realizzi con un impatto sulla crescita dell’economia mondiale. Una recessione globale avrebbe un’incidenza drammatica sugli squilibri Nord-Sud, che permangono gravi e che minacciano anche la sicurezza nei paesi industrializzati. L’Italia è particolarmente esposta in rapporto ai problemi aperti nei Balcani, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nell’Est europeo. Un patto sociale in Europa potrebbe dare un segnale importante di riforma e di ripresa degli investimenti con incidenza positiva sulle aspettative, la fiducia delle famiglie e delle imprese. L’Italia potrebbe svolgere un ruolo di avanguardia in questo campo, non solo per le sue responsabilità di presidenza dell’UE, ma anche per la sua esperienza nel dialogo sociale. Occorre pero’ che nel patto siano coinvolti (direttamente o implicitamente) anche Ecofin e BCE.

I temi e i contenuti della nuova concertazione.
L’economia italiana si trova nel pieno dell’aggiustamento all’Euro e alle nuove condizioni che impone per i recuperi di produttività. I temi percio’ del dialogo sociale sono diversi da quelli del 1993: allora occorreva focalizzarsi sulla moderazione salariale, sulla struttura dei costi e della contrattazione, sulla riqualificazione del personale e la ristrutturazione dei processi produttivi. Oggi, piu’ che sulla “svalutazione interna”, occorre puntare invece sull’innovazione, la qualità dei prodotti e dei processi, la compatitività di sistema, le reti e le tecnologie, le infrastrutture, i servizi pubblici, la ricerca, ecc.

Il significato del Patto per le relazioni industriali.
La rivisitazione del Patto del 1993 in rapporto a quelli che lo precedono e lo seguono consente di definire un “modello italiano” di dialogo sociale. Esso non è riconducibile nè al modello neo-corporativo dell’Europa continentale, nè a quello neo-contrattualista dell’esperienza anglosassone. Esprime invece un modello originale di partecipazione, che allarga i confini della democrazia parlamentare e rende piu’ efficaci i meccanismi di “governance”.

I soggetti coinvolti.

La caratteristica fondamentale di questo modello di dialogo sociale è il pluralismo e il multilateralismo. Si contrappone percio’ nettamente al bilateralismo rigido della tradizione nordica e al tripartitismo neo-corporativo. Esso riflette d’altronde l’articolazione della struttura industriale e la complessità della società italiana. Nella cultura delle relazioni industriali del nostro Paese inoltre conta non solo la rappresentanza, ma anche la rappresentatività, e quindi l’ambizione a portare nella concertazione anche interessi generali, compresi quelli degli outsiders.

Il rapporto con il sistema politico.
Nel passato la concertazione ha svolto funzioni di supplenza rispetto alla debolezza degli esecutivi, alla democrazia bloccata, alla mancanza di alternanza. Oggi, il dialogo puo’ rappresentare l’espressione della maggiore stabilità politica, complemento e arricchimento della dialettica tra le forze politiche, strumento di partecipazione della società civile e delle forze produttive ai processi decisionali delle istanze democratiche. Il Patto sociale percio’ non si sovrappone, nè spiazza i Patti elettorali e la dialettica democratica tra maggioranza e opposizione. Non lede l’autonomia e la responsabilità dei diversi interlocutori (governo, parti sociali, organizzazioni non-governative) che restano responsabili dei loro processi decisionali.

Non conta solo il risultato, conta anche il processo.

Nel passato la vecchia concertazione ha dato importanza eccessiva agli aspetti formali, ai risultati cartacei, alla lettera degli accordi (che poi sono talora restati lettera morta). La “nuova concertazione” non è semplice strumento, ma deve essere fine in sè, modus operandi della economia e della politica della conoscenza. L’economia della conoscenza ha cambiato in profondità i termini del conflitto industriale.

Il dialogo sociale in Europa.

Questa interpretazione è coerente con i risultati cui giunge il Rapporto sul dialogo sociale in Europa della Commissione Rodriguez. Riflettendo sulla esperienza, sinora molto deludente, del dialogo sociale in Europa, la Commissione insiste sulla necessità di incidere sulla qualità dei processi, propone il metodo della “open coordination”, che ha già dato buoni frutti in altri campi della politica europea, indica la strada del benchmarking e degli indicatori per ancorare il dialogo alla concretezza e alla misurazione dei risultati raggiunti, e soprattutto punta sulla “peer pressure”, allo stimolo di miglioramento continuo e reciproco che viene dal confronto leale e reale sulle idée.

*Questo saggio è tratto dalla relazione presentata al Convegno su: “Politica dei redditi e coesione sociale a dieci anni dal Patto del 1993”, che si è tenuto presso la Camera dei Deputati il 23 luglio 2003.

Anche la legge fallimentare scoraggia gli investimenti

La normativa sulla crisi di impresa fa sì che i costi dell’accesso al credito e il livello del premio di rischio siano più alti in Italia rispetto agli altri Paesi Ue e agli Stati Uniti. Sul primo pesa la lunghezza dei tempi delle procedure e la percentuale minima di recupero dei crediti. Sul secondo, regole molto restrittive che non danno all’imprenditore strumenti per il rilancio dell’azienda, ma solo la possibilità di rinegoziare le scadenze. E una responsabilità patrimoniale che sopravvive al fallimento.

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