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SE LA CRISI DI ATENE ENTRA IN BANCA

Lungi dall’essere risolta, la crisi greca ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione monetaria europea. Una volta messo in moto, il processo di integrazione comporta una serie di costi, oltre che di importanti benefici. Ma tornare indietro sarebbe molto rischioso e costoso. Meglio dunque andare avanti fino a quando l’Europa sarà un vero stato federale. Solo allora si potrà considerare la Grecia alla stregua di Los Angeles, che non ha banche né depositanti da salvare, ma solo un bilancio da sanare.

SALVIAMO LA GRECIA. DA SE STESSA

Il governo greco ha chiesto all’Unione Europea e all’Fmi di attivare i 45 miliardi di aiuti concordati. Ma è ancora possibile salvare a Grecia? E quanto costerebbe? Lasciato a se stesso, il paese è condannato al ripudio del debito pubblico. Eppure, la crescita del debito è in larga misura dovuta alla spesa per gli interessi e l’apertura di linee di credito internazionali potrebbero migliorare le cose. E non costerebbe neanche molto. Dopo il primo anno di aiuti, però, si dovrebbe lasciare la Grecia al proprio destino, preparando una ristrutturazione ordinata del debito.

DUE ANNI DI GOVERNO: ECONOMIA E FINANZA

Come ha agito il governo durante la crisi? È importante stabilire i fatti. La caduta del reddito nazionale dal picco precedente alla crisi al successivo punto di minimo è stata del 6,5 per cento in Italia; nella media dei paesi dell’area dell’euro è stata di oltre un punto più contenuta. In Germania il calo è simile all’Italia mentre in Francia è poco più della metà. I dati della produzione industriale raccontano una storia simile: dal picco al minimo la produzione crolla di un quarto in Italia e Germania e del 20 per cento in Francia e nella media dei paesi dell’euro. L’impatto della crisi è stato quindi altrettanto severo in Italia quanto in Germania e più severo che nella media dell’area dell’euro e in Francia – nonostante l’assenza da noi di fallimenti bancari, verificatisi invece Oltralpe. La scelta del governo è stata di alzare il bavero, aspettare e sperare che la bufera passasse, adottando provvedimenti minimi per fronteggiare l’impatto sul mercato del lavoro (ad esempio con l’estensione della cassa integrazione in deroga: vedi la relativa scheda) e stemperare il rischio di panico sulle banche, con interventi più di natura simbolica che di effettiva sostanza (i cosiddetti Tremonti bond). L’intento annunciato era di evitare impatti sulla finanza pubblica, oltre quelli inevitabili sul rapporto debito/Pil dovuti al calo del Pil e quelli sul disavanzo dovuti agli ammortizzatori sociali. Infatti, in Italia le misure di stimolo fiscale durante la crisi sono nulle, diversamente da Francia e Germania che hanno varato pacchetti dell’ordine di un punto di Pil. Si è quindi scelto di accettare un maggior impatto della crisi per evitare un aggravamento dei conti pubblici in un paese già fortemente indebitato. Alcuni benefici di questa politica si apprezzano oggi guardando alla esperienza della Grecia.
Ma, oltre ad aver evitato di adottare politiche fiscali anticicliche di qualche significato, il governo ha omesso qualunque politica economica. Se il primo atteggiamento aveva una sua ragion d’essere sul piano economico, il secondo è difficile da giustificare. Estendendo lo sguardo all’indietro, al decennio antecedente la crisi, fatto 100 il Pil del 2000, l’Italia perde 6 punti di Pil rispetto alla media degli altri paesi dell’euro e anche rispetto alla Francia; il divario nella produzione industriale è ancora più marcato e supera i 10 punti con la Germania. È come se la sola l’Italia negli otto anni prima di Lehman Brothers, fosse stata colpita da una crisi economica della stessa entità di quella gravissima sperimentata nell’ultimo anno e mezzo. In queste circostanze l’aspettativa legittima era che il governo, già dal suo insediamento avvenuto prima dello scoppio della crisi, varasse un piano di riforme per facilitare la ristrutturazione delle imprese, alleggerirle del peso della burocrazia, incoraggiarne la creazione, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, dotandolo di istituti propri per facilitare la riallocazione dei lavoratori e quindi la stessa ristrutturazione delle imprese. Misure spesso dal costo nullo per l’erario, ma con effetti rilevanti sui tassi di crescita di medio periodo. Niente di ciò è avvenuto. Ora sembra che le riforme siano ritornate all’ordine del giorno. Ma non è chiaro come quelle di cui si parla – federalismo fiscale, intercettazioni, semipresidenzialismo – possano aggredire il problema economico dell’Italia: evitare che ogni otto anni essa paghi, per l’inerzia della sua classe dirigente, l’equivalente di una grave crisi economica planetaria.

IL FALLIMENTO CHE L’EUROPA NON PUÒ PERMETTERSI

L’Unione Europea riforma il suo sistema di regolamentazione finanziaria, con l’istituzione di tre autorità di vigilanza a livello europeo. La proposta è il superamento delle logiche nazionali e dunque un enorme passo avanti. Potrebbe però essere un errore concentrarsi solo sui poteri da attribuire alle nuove istituzioni, soprattutto per la posizione che potrebbe assumere il futuro governo britannico. Meglio allargare la discussione ai problemi di efficacia e governance. Anche perché un fallimento avrebbe gravi conseguenze su tutto il processo di integrazione economica.

COME INSEGNARE L’ABC DELLA FINANZA

Proprio la crisi ci ha dimostrato come la scarsa conoscenza di nozioni economiche e finanziarie di base sia diffusa in larghi strati della popolazione, sia negli Stati Uniti sia in Europa. E ciò porta a prendere decisioni sbagliate sui mutui come sulle pensioni. Le conseguenze sono disastrose non solo a livelli microeconomico, ma anche macroeconomico. Per questo gli Usa hanno lanciato alcuni programmi per l’alfabetizzazione finanziaria nelle scuole. Ma non basta: corsi di questo tipo si dovrebbero tenere anche nelle aziende.

DUBBI DA UN MATRIMONIO

Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato da Tommaso Padoa-Schioppa il 21 dicembre 2007 al London Stock Exchange Christmas Party. Nel suo intervento, l’allora ministro dell’Economia spiegava le ragioni che lo avevano portato a preferire per Borsa italiana una soluzione diversa dall’alleanza con il mercato della City. Le recenti vicende , con conseguenti ripensamenti sull’opportunità della fusione, riportano d’attualità quelle considerazioni.

GLI INCENTIVI FANNO BENE ANCHE ALLA CONSOB

Il Governo deve nominare il presidente e un commissario della Consob. L’indipendenza è un requisito fondamentale. Ma servono anche competenze tecniche per tutelare la trasparenza dei mercati finanziari e prevenire frodi. Un ripensamento della struttura dei compensi del personale, con l’introduzione di incentivi, aiuterebbe a passare da una mentalità burocratica a un atteggiamento più focalizzato sui risultati. Di informazione finanziaria si discuterà al prossimo Festival dell’Economia di Trento.

INDIETRO TUTTA

Ieri il Ministro Bossi ha annunciato che i partiti della maggioranza prenderanno il controllo delle banche. Pare che i loro elettori glielo chiedano. In realtà è una vecchia ossessione della Lega. Bossi comunque mette il dito su un punto importante: le fondazioni bancarie sono oggi del tutto auto-referenziali. I loro vertici sono spesso l’ultimo baluardo dei vecchi partiti, un pezzo della Prima Repubblica che è ancora con noi. Chi rappresentano? Quali sono i loro obiettivi? Sono domande legittime. Le fondazioni influenzano, come azionisti, le scelte dei vertici e le strategie delle loro banche da una parte e spendono la loro quota di profitti per attività sociali. Il loro potere è dunque notevole ma a fronte di esso non si capisce a chi rispondano del proprio operato dei vertici delle fondazioni. Le convulsioni di questi giorni all’interno della Compagnia di San Paolo lo dimostrano in tutta evidenza. Bossi, in modo populista, dice essenzialmente: i politici hanno almeno ricevuto i voti dei cittadini. Dunque ad essi devono rispondere i vertici delle banche. Ma come utilizzerebbero i partiti il loro potere? Facile. Come facevano i partiti della prima Repubblica: per favorire imprenditori e società a loro amici e sfavorire quelli nemici. Per far deviare le banche dal perseguire l’obiettivo di profitto a favore di fini sociali non meglio identificati. Come del resto farà la nascitura Banca del Mezzogiorno. Insomma, questo è il sigillo finale, quello che chiude la breve stagione italiana delle privatizzazioni. Indietro tutta, senza pudore, verso il controllo politico del mercato del credito. Le banche, non solo quelle italiane, hanno dato una pessima prova di sé negli ultimi anni. I salvataggi fatti con i soldi dei contribuenti hanno giustamente posto il problema di definire un miglior sistema di controllo dell’attività bancaria. Ma la risposta non è certo una maggiore presenza dei partiti nella vita delle banche. Dalla politica ci si dovrebbe aspettare la lungimiranza di fare un passo avanti, mettendo mano al nodo delle fondazioni e salvaguardando al contempo l’indipendenza delle politiche del credito dall’ingerenza dei partiti. E anche le fondazioni potrebbero beneficiare da un maggior distacco dalle banche, dato che in ogni caso i dividendi che esse pagheranno nei prossimi anni saranno presumibilmente ridotti.  Ma questo è chiedere troppo ai nostri politici. Perché il vincitore delle elezioni dovrebbe rovesciare il tavolo quando è il suo turno di mangiare?

GRECIA, ORA IL PERICOLO È LA FUGA DAI DEPOSITI

Le notizie che giungono dalla Grecia segnalano che la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro. Finora l’attenzione è stata tutta concentrata sulle necessità di finanziamento del settore pubblico. Ma la scorsa settimana ha fatto intravedere una possibile improvvisa crisi di liquidità del sistema bancario di quel paese, con elevato rischio di contagio internazionale. L’accordo dell’11 aprile tra i ministri dell’Eurogruppo è un passo avanti, ma ampiamente al di sotto di quanto sarebbe necessario e urgente.

LACRIME DI COCCODRILLO SULLA BORSA ITALIANA

Le vicende del rappresentante di Borsa italiana nel board di London Stock Exchange hanno riaperto la discussione sull’alleanza siglata tre anni fa. Ma davvero il controllo di Lse danneggia le possibilità di raccolta di capitali delle nostra imprese? In realtà, le aziende italiane, soprattutto le piccole e medie, restano lontane dal listino e preferiscono ricorrere alle banche. E le risposte a questo antico problema non sono da ricercare nelle strutture della Borsa, ma in tre nodi irrisolti, che riguardano il sistema industriale, quello bancario e politiche fiscali inadeguate.

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