Ringrazio i ventotto lettori della Voce che hanno trovato il tempo di inviare un commento alla mia breve nota sugli economisti. Mi perdoneranno se, per comodità, cercherò in alcuni casi di offrire una risposta singola a gruppi di commenti che ritengo affini, ben consapevole di non fare piena giustizia ai contributi individuali.
Due notazioni preliminari. Anzitutto la mia nota rappresenta, come indicato, il breve sunto di uno scritto più lungo all quale rinvio per argomentazioni più compiute. In secondo luogo, mentre alcuni colleghi avevano osservato un eccesso di critica verso la professione e la disciplina, la larga maggioranza dei commentatori mi imputa il peccato opposto, di eccesso di clemenza (il che, trattandosi di lettori della Voce, dovrà far meditare).
A) Secondo un primo gruppo di commenti, io mi sono posto problemi di poco rilievo, perché il vizio sta, per così dire, nel manico, o nei manici: vizi intrinseci di un sistema capitalistico ("disperato", Pietro Palermo, Antonio Pugliesi)¸ degenerazione per eccesso di finanziarizzazione (Armando Pasquali, "mirco") mentre restano insoluti i problemi fondamentali della povertà (Tarcisio Bonotto, Marco Bellarmi); economisti forse ingenui, ma comunque funzionali al sistema di potere (lo osservano in tanti: Antonio Aghilar, "onaocn", Alfredo Rosini, Ciro Daniele, Giovanni Ingrosso, "claudio"), che tuttavia meritano l’isolata difesa di Giuseppe Coco (grazie).
Ecco gli elementi per una risposta che dovrebbe e vorrebbe essere ben più articolata. (i) Per limiti della mia formazione e conformazione intellettuale, di fronte a una questione preferisco non mandare la palla fuori campo sostenendo che "ben altro è il problema": è una formula a volte troppo comoda. (ii) Questa crisi ci ha fatto troppo presto dimenticare che il decennio 1995-2005 andrà agli atti della storia economica mondiale come un periodo eccezionale: ovunque (salvo che in Italia) forte crescita e inflazione bassa e stabile; riduzione delle disuguaglianze fra paesi e dei livelli di povertà con l’emersione prepotente di nuovi attori sulla scena mondiale. (iii) La mancata soluzione di alcuni squilibri e, soprattutto, gli eccessi incontrollati della nuova finanza, di cui ho scritto altrove, certamente provocarono la degenerazione del sistema e la sua crisi. (iv) Gli economisti hanno, come ho scritto, delle responsabilità obiettive, ma per colpa più che per dolo: ricordando comunque che la questione riguarda quanti di essi, ma non tutti, si occupavano di macroeconomia. La sfida che dovranno affrontare coinvolge un profondo ripensamento della disciplina. (v) Tuttavia si consideri quanto è stata utile l’elaborazione economica sulle crisi precedenti, per impedire che questa crisi, pur non prevenuta, si trasformasse in una recessione.
B) L’edificio teorico che serve di riferimento agli economisti è mal fondato o sbagliato: (i) astrologia invece di economia ("Inkognitus"), e poi due indicazioni opposte – (ii) si impieghino modelli simili a quelli delle scienze pure e dure, con riferimento alla termodinamica (Enrico Quarta) o alle neuroscienze per elaborare modelli matematici dei processi cognitivi (Giuseppe Varicella) o (iii) al contrario, si abbandonino le pretese di usare modelli matematici complessi (Claudio Robiati, "giovanni", Fabrizio Villani).
Ho argomentato circa l’inadeguatezza intrinseca dei modelli macroeconomici correnti a dar conto dei cicli finanziari: questa inadeguatezza è forse anche dovuta a un luciferino desiderio di elegante completezza. Tuttavia, a mio avviso, la soluzione non consiste né nell’abbandono del ragionamento teorico né, al contrario, nell’adozione sic et simpliciter di modelli mutuati dalle discipline scientifiche: l’astrazione teorica è sempre necessaria per una comprensione dei fenomeni che non si esaurisca in una cronaca di fatti; d’altro canto la pretesa di trovare altrove la pietra filosofale dell’economia non ha mai dato risultati. Non è facile trovare un equilibrio fra le due esigenze solo apparentemente opposte dell’astrazione e della rilevanza (ma, per citare due esempi di rilievo, vi riuscì Keynes e vi riuscì anche Friedman). Il suggerimento di "mirco" è saggio: una maggiore attenzione dedicata alla storia economica. E vale anche l’esortazione di Marcello Basili a nno dimenticare Frank Hahn, un economista con credenziali teoriche ineccepibili ma con un chiaro senso del limite (forse per questo lasciato ai margini del mainstream).
D) Varia
Rosanna Sapori e Ivan Berruti segnalano che Eugenio Benetazzo, un operatore, aveva previsto con esattezza la crisi; secondo Berruto anche Larouche lo aveva fatto. Mi scuso per l’ignoranza. Osservo solo che una previsione insistita e generica di crisi anno dopo anno non è una previsione se non contiene un’analisi degli squilibri che generano la crisi: un orologio fermo segna per forza l’ora esatta due volte al giorno. Luca Bozzelli segnala uno scritto di Tommaso Paodoa-Schioppa, per la sua sistematica completezza.
Ringrazio "davide" per la segnalazione di link utili per approfondire le questioni (fra cui quello della lettera di economisti inglesi alla Regina d’Inghilterra, che, visitando la London School of Economics, chiese come mai nessuno si era accorto di nulla).
Riecheggiando una canzone degli anni trenta, Alfredo Lisi, constata quanto si spende in giro e si chiede se questa crisi c’è stata veramente. Non siamo al ’29, ma ebbene sì questa crisi c’è stata: grandi banche fallite (non da noi), caduta del prodotto mondiale, aumento della disoccupazione e della povertà. Forse ci hanno salvato dal peggio le economie asiatiche.
Gerardo Fulgione, che ringrazio per le espressioni gentili, vorrebbe un approfondimento sui compiti e sulle falle della regolazione. Qualcosa di più ho scritto nel testo più lungo. Qualcosa di più ho detto in un’arringa al festival dell’economia di Trento (in rete). Oggi la questione viene affrontata nel dibattito (iniziato vigoroso ma oggi indebolito) sulla riforma dei mercati finanziari.
Il collega Pierluigi Porta mi pone la domanda più complicata: se vale la mia tesi che gli economisti contribuirono allo Zeitgeist che favorì la crisi, non dovremmo ripensare tutta la situazione della disciplina e del suo insegnamento, con esemplificazione nella classificazione degli articoli e delle riviste in base al cosiddetto impact factor? Caro Porta, comprendo e apprezzo i problemi che tu sollevi. Consiglierei tuttavia di esercitare la necessaria critica senza emarginarsi in territori radicalmente alternativi, che fanno la fine delle riserve indiane.