Lavoce.info

Categoria: Banche e finanza Pagina 73 di 115

UNA DISCIPLINA UMILE*

Si continua a discutere di crisi e di economisti, anche in Francia o in Inghilterra. E qualcuno mette in dubbio l’utilità di una categoria che non ha saputo prevedere gli ultimi eventi. Sotto accusa anche la formazione, troppo concentrata sulla matematica. Ma il mestiere dell’economista non è fare previsioni. Così come sarebbe disastroso abbandonare un percorso di formazione rigoroso per sostituirlo con un disordinato miscuglio multidisciplinare. L’economia è una disciplina intellettuale che deve essere umile, che cerca di essere utile nella comprensione di un mondo reale estremamente complesso.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Che le società di public service degli enti locali siano state utilizzate per scopi non sempre coerenti con gli intenti normativi non è un mistero. I principali difetti sono almeno due: l’elusione dei vincoli alla gestione del personale ed alle connesse spese, nonchè un’incidenza impropria nel mercato.
Le recenti riforme, tuttavia, è evidente non colgano nel segno. Come troppo spesso accade, il legislatore interviene in termini generali, caricando di divieti o vincoli l’azione di tutti, invece di attivare strumenti per colpire e sanzionare comportamenti non corretti. Sarebbe stato certamente più meritocratico individuare selettivamente quali enti locali e quali società hanno eluso norme e distorto il mercato, invece di lasciare in piedi gli apparati, ma prevedendo regole e appesantimenti. Col pericolo, per altro, che chi ha eluso prima, lo farà anche dopo.
Il tanto vituperato concorso viene considerato uno strumento meritocratico. E’ un bene che sia così. Ma, attenzione: la norma estende alle società la forma e le formalità. La sostanza del concorso, già difficile da garantire negli enti, potrebbe perdersi tra le molte altre fughe in avanti che appunto caratterizzano le società.
Per i cittadini e le finanze pubbliche è fondamentale contare sulla possibilità di ottenere dalle public utilities servizi efficienti a costi di mercato, o altrimenti rivalersi anche contro gli enti locali che le controllano. In  mancanza di strumenti finalizzati a misurare efficienza dei servizi, regole che estendono adempimenti burocratici sembrano fini a se stesse.
Quanto osserva il Battini è in larga parte condivisibile e, in realtà, è in linea con quanto affermato nell’articolo. Si è voluto, infatti, sottolineare l’antinomia tra il tentativo di dare efficienza all’azione amministrativa puntando su sistemi di gestione e valutazione assimilabili a quelli conosciuti nel privato, e la contestuale burocratizzazione di quei soggetti privati, a capitale pubblico, che invece quegli schemi avrebbero dovuto già utilizzare al meglio.
La circostanza, lo si ribadisce, che dal processo di "pubblicizzazione" del lavoro nelle public utilities restino fuori le società quotate rivela come lo stesso legislatore percepisca tale pubblicizzazione un appesantimento, dal quale ha voluto salvaguardare i capitali investiti in borsa. Sicchè, le società più grandi e ricche potranno continuare ad agire in una sorta di zona che diviene franca (con possibili clientelismi ed altri effetti distorsivi di contorno).
Il legislatore, allora, dovrebbe con chiarezza scegliere quale sia la strada da seguire, perchè le commistioni e gli ibridi portano con loro il rischio di rassumere gli aspetti negativi dei modelli di base.
Ma, invece di cercare una convergenza virtuosa tra modelli gestionali o contratti collettivi, si creano continuamente ossimori: il pubblico privatizzato o il privato pubblicizzato.

UN QUANT DI RESPONSABILITÀ

Nel mondo della finanza si è da anni consolidato il ruolo dei cosiddetti quan, persone che hanno ottenuto un PhD in una materia scientifica e che prestano i loro servizi all’industria. Sono stati additati tra i responsabili della crisi per i disastrosi errori che hanno commesso. Soprattutto, però, c’è bisogno di una matematica nuova per una finanza nuova. E gli scienziati nel mondo finanziario sono chiamati a fare il loro mestiere, ottenendo così credibilità e, di conseguenza, la responsabilità dovuta nel processo di investimento.

TREMONTI BOND: UN AFFARE PER IL TESORO

La tesi secondo cui le banche dovrebbero ricorrere ai Tremonti bond per avere le risorse sufficienti a finanziare le imprese e allentare così la stretta sul credito è tutta da dimostrare. Attualmente, la stretta creditizia è meno evidente di quanto si pensi, e le banche non sembrano avere bisogno del sostegno pubblico per rafforzare il patrimonio. Perché allora il ministero insiste? Perché finanziarsi al 4 per cento, ad esempio con l’emissione di un Btp a dieci anni, e investire all’8,5 per cento in un Tremonti bond è un buon affare per il Tesoro. Lo è meno per gli azionisti delle banche.

A CHE PUNTO È LA CRISI

I nuovi dati sull’andamento dell’economia mondiale mostrano segnali di ripresa della produzione industriale, del commercio e dei mercati azionari. Ma è presto per l’ottimismo perché la crisi resta grave. Come si può vedere dal confronto tra gli indicatori di oggi e quelli del periodo della Grande Depressione. Grafici su produzione mondiale, mercato azionario, scambi globali, produzione industriale di 12 paesi.

NON ABBIAMO IMPARATO ABBASTANZA DALLA CRISI GIAPPONESE *

Stati Uniti ed Europa rischiano di ripetere gli stessi errori fatti dal Giappone negli anni Novanta, insistendo con politiche macroeconomiche che non servono a risolvere la crisi. Precondizioni di una ripresa economica sono la ripulitura dei bilanci delle banche e la ristrutturazione dei grandi debiti. Altrimenti, le crisi finanziarie continueranno a ripresentarsi. La teoria economica dovrebbe perciò elaborare un nuovo approccio nel quale gli intermediari finanziari siano al centro dei suoi modelli.

IL BUONO DEI BONUS*

I compensi dei manager sono sempre al centro dell’attenzione. Ma le tecniche di remunerazione oggi sotto accusa possono anche costituire una componente cruciale di stimolo alla crescita economica. Anche in Italia serve un completamento della regolamentazione che ci avvicini alle prassi seguite in altri paesi e alle raccomandazioni della Commissione europea. Per scongiurare il rischio che a una reazione emotiva di rifiuto dell’impiego degli incentivi si accompagni un incremento indiscriminato dei compensi fissi, a prescindere dal merito (o dal demerito) dei destinatari.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo gli intervenuti, aggiungendo un nostro commento che non ha pretesa di essere esaustivo rispetto a tutte le osservazioni a noi fatte. Sono certamente condivisibili le riflessioni che affermano che l’attuale configurazione dei licei italiani dovrebbe essere più onnicomprensiva, più flessibile e al tempo stesso più verificabile nei suoi esiti di apprendimento. Così pure lo sono le osservazioni sulle discipline forti, alle quali nessun giovane dovrebbe rinunciare nella sua formazione. Tuttavia, se ci poniamo in una prospettiva pragmaticamente costruttiva, che a noi sembra corretta, il dato da cui partire è la riforma già approvata nella sua architettura generale, che risulta migliorabile solo con riferimento ai contenuti. In buona sostanza la riforma conferma il modello liceale italiano – idealistico gentiliano -, introducendo alcune novità, alcune delle quali a nostro avviso interessanti. In particolare, e questo è il tema del nostro intervento, riteniamo positivo che vi siano delle nuove opzioni liceali dedicate alle scienze della modernità: le economico-sociali e le scientifico-tecnologiche. In particolare le scienze economico-sociali possono assumere una valenza formativa liceale se dispiegano appieno il loro valore di lettura, interpretazione ed orientamento rispetto alla complessità delle società moderne. Questo passaggio rappresenta un’evidente discontinuità da quello tecnico-professionale sinora assolto dall’economia (aziendale più che politica) nei corsi tecnici per ragionieri e periti, quali Igea ed altri. Il modello di riferimento è quello francese, in cui l’economia fonda un vero e proprio Liceo Economico e sociale, che ha un taglio liceale generale molto apprezzato dai giovani francesi (costituisce, infatti, la seconda scelta per numero tra le tre previste nella Voie générale). D’altra parte l’economia ha un ruolo professionalizzante nei corsi STG (Science et technologies de la gestion), simili ai nostri corsi tecnici per ragionieri.
Riuscirà il nuovo Liceo Economico e sociale a produrre effetti generatori di nuove e più ampie conoscenze per la società italiana? Occorre a questo punto entrare nel merito, perché i rischi che si tratti di un’operazione nominalistica di facciata destinata a fallire nel giro di poco tempo ci sono tutti. La questione fondamentale, su cui vedremmo con piacere un positivo movimento di opinione, è che discipline, orari, metodologie siano coerenti a una concezione delle scienze economiche, sociali, giuridiche, aziendali e quantitative come scienze forti in quanto aperte, duttili, critiche. Chiaro cha questo obiettivo potrà essere raggiunto solo se le discipline, i piani orari e le metodologie saranno ad esso coerenti. Occorrono quindi sostanziosi miglioramenti al regolamento prima della sua definitiva emanazione. Come spesso accade, il successo di una riforma dipende più dai regolamenti attuativi che dal quadro generale Questi miglioramenti renderanno più credibile quella giustamente auspicata maggiore presenza dell’economia (e del diritto e delle altre scienze sociali) in tutti i licei italiani e nella cultura dell’Italia di oggi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i ventotto lettori della Voce che hanno trovato il tempo di inviare un commento alla mia breve nota sugli economisti. Mi perdoneranno se, per comodità, cercherò in alcuni casi di offrire una risposta singola a gruppi di commenti che ritengo affini, ben consapevole di non fare piena giustizia ai contributi individuali.
Due notazioni preliminari. Anzitutto la mia nota rappresenta, come indicato, il breve sunto di uno scritto più lungo all quale rinvio per argomentazioni più compiute. In secondo luogo, mentre alcuni colleghi avevano osservato un eccesso di critica verso la professione e la disciplina, la larga maggioranza dei commentatori mi imputa il peccato opposto, di eccesso di clemenza (il che, trattandosi di lettori della Voce, dovrà far meditare).
A) Secondo un primo gruppo di commenti, io mi sono posto problemi di poco rilievo, perché il vizio sta, per così dire, nel manico, o nei manici: vizi intrinseci di un sistema capitalistico ("disperato", Pietro Palermo, Antonio Pugliesi)¸ degenerazione per eccesso di finanziarizzazione (Armando Pasquali, "mirco") mentre restano insoluti i problemi fondamentali della povertà (Tarcisio Bonotto, Marco Bellarmi); economisti forse ingenui, ma comunque funzionali al sistema di potere (lo osservano in tanti: Antonio Aghilar, "onaocn", Alfredo Rosini, Ciro Daniele, Giovanni Ingrosso, "claudio"), che tuttavia meritano l’isolata difesa di Giuseppe Coco (grazie).
Ecco gli elementi per una risposta che dovrebbe e vorrebbe essere ben più articolata. (i) Per limiti della mia formazione e conformazione intellettuale, di fronte a una questione preferisco non mandare la palla fuori campo sostenendo che "ben altro è il problema": è una formula a volte troppo comoda. (ii) Questa crisi ci ha fatto troppo presto dimenticare che il decennio 1995-2005 andrà agli atti della storia economica mondiale come un periodo eccezionale: ovunque (salvo che in Italia) forte crescita e inflazione bassa e stabile; riduzione delle disuguaglianze fra paesi e dei livelli di povertà con l’emersione prepotente di nuovi attori sulla scena mondiale. (iii) La mancata soluzione di alcuni squilibri e, soprattutto, gli eccessi incontrollati della nuova finanza, di cui ho scritto altrove, certamente provocarono la degenerazione del sistema e la sua crisi. (iv) Gli economisti hanno, come ho scritto, delle responsabilità obiettive, ma per colpa più che per dolo: ricordando comunque che la questione riguarda quanti di essi, ma non tutti, si occupavano di macroeconomia. La sfida che dovranno affrontare coinvolge un profondo ripensamento della disciplina. (v) Tuttavia si consideri quanto è stata utile l’elaborazione economica sulle crisi precedenti, per impedire che questa crisi, pur non prevenuta, si trasformasse in una recessione.
B) L’edificio teorico che serve di riferimento agli economisti è mal fondato o sbagliato: (i) astrologia invece di economia ("Inkognitus"), e poi due indicazioni opposte – (ii) si impieghino modelli simili a quelli delle scienze pure e dure, con riferimento alla termodinamica (Enrico Quarta) o alle neuroscienze per elaborare modelli matematici dei processi cognitivi (Giuseppe Varicella) o (iii) al contrario, si abbandonino le pretese di usare modelli matematici complessi (Claudio Robiati, "giovanni", Fabrizio Villani).
Ho argomentato circa l’inadeguatezza intrinseca dei modelli macroeconomici correnti a dar conto dei cicli finanziari: questa inadeguatezza è forse anche dovuta a un luciferino desiderio di elegante completezza. Tuttavia, a mio avviso, la soluzione non consiste né nell’abbandono del ragionamento teorico né, al contrario, nell’adozione sic et simpliciter di modelli mutuati dalle discipline scientifiche: l’astrazione teorica è sempre necessaria per una comprensione dei fenomeni che non si esaurisca in una cronaca di fatti; d’altro canto la pretesa di trovare altrove la pietra filosofale dell’economia non ha mai dato risultati. Non è facile trovare un equilibrio fra le due esigenze solo apparentemente opposte dell’astrazione e della rilevanza (ma, per citare due esempi di rilievo, vi riuscì Keynes e vi riuscì anche Friedman). Il suggerimento di "mirco" è saggio: una maggiore attenzione dedicata alla storia economica. E vale anche l’esortazione di Marcello Basili a nno dimenticare Frank Hahn, un economista con credenziali teoriche ineccepibili ma con un chiaro senso del limite (forse per questo lasciato ai margini del mainstream).
D) Varia
Rosanna Sapori e Ivan Berruti segnalano che Eugenio Benetazzo, un operatore, aveva previsto con esattezza la crisi; secondo Berruto anche Larouche lo aveva fatto. Mi scuso per l’ignoranza. Osservo solo che una previsione insistita e generica di crisi anno dopo anno non è una previsione se non contiene un’analisi degli squilibri che generano la crisi: un orologio fermo segna per forza l’ora esatta due volte al giorno. Luca Bozzelli segnala uno scritto di Tommaso Paodoa-Schioppa, per la sua sistematica completezza.
Ringrazio "davide" per la segnalazione di link utili per approfondire le questioni (fra cui quello della lettera di economisti inglesi alla Regina d’Inghilterra, che, visitando la London School of Economics, chiese come mai nessuno si era accorto di nulla).
Riecheggiando una canzone degli anni trenta, Alfredo Lisi, constata quanto si spende in giro e si chiede se questa crisi c’è stata veramente. Non siamo al ’29, ma ebbene sì questa crisi c’è stata: grandi banche fallite (non da noi), caduta del prodotto mondiale, aumento della disoccupazione e della povertà. Forse ci hanno salvato dal peggio le economie asiatiche.
Gerardo Fulgione, che ringrazio per le espressioni gentili, vorrebbe un approfondimento sui compiti e sulle falle della regolazione. Qualcosa di più ho scritto nel testo più lungo. Qualcosa di più ho detto in un’arringa al festival dell’economia di Trento (in rete). Oggi la questione viene affrontata nel dibattito (iniziato vigoroso ma oggi indebolito) sulla riforma dei mercati finanziari.
Il collega Pierluigi Porta mi pone la domanda più complicata: se vale la mia tesi che gli economisti contribuirono allo Zeitgeist che favorì la crisi, non dovremmo ripensare tutta la situazione della disciplina e del suo insegnamento, con esemplificazione nella classificazione degli articoli e delle riviste in base al cosiddetto impact factor? Caro Porta, comprendo e apprezzo i problemi che tu sollevi. Consiglierei tuttavia di esercitare la necessaria critica senza emarginarsi in territori radicalmente alternativi, che fanno la fine delle riserve indiane.

AMERICA IN VANTAGGIO NELLA PARTITA DELLA VIGILANZA FINANZIARIA

A poche settimane di distanza l’uno dall’altra, il dipartimento al Tesoro americano e la Commissione Europea hanno varato due radicali progetti di riforma dei sistemi di regolazione e vigilanza finanziaria. Molte le similitudini, ma tante anche le differenze, a partire dal diverso ruolo assegnato alla banca centrale. Neanche il progetto americano riesce a produrre un definitivo consolidamento delle ipertrofiche strutture di vigilanza. Ma l’Europa, ancora invischiata nei veti reciproci, non è andata al di là di un più stretto coordinamento delle autorità esistenti.

Pagina 73 di 115

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén