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IL TIMONE AL G20*

Il G20 sostituisce il G7 nella guida dell’economia mondiale. Certo non si poteva costruire una riforma del sistema economico globale, della Banca mondiale o del Fondo monetario nella ristretta cerchia dei sette grandi. Ma anche il G20 ha i suoi problemi. Prima di tutto pratici per il numero di paesi che lo compongono. Poi di legittimità: chi li ha delegati a rappresentare le altre 190 nazioni del mondo? Ma anche di metodo di lavoro, con quattro gruppi che andrebbero riunificati per arrivare a un accordo generale. Sono tutte questioni risolvibili. A patto che vengano affrontate.

COSA PUO’ FARE L’EUROPA PER I PAESI SULL’ORLO DEL CRAC

Al meeting informale di Bruxelles i leader europei hanno ipotizzato eventuali interventi in soccorso di singoli Stati. Dal punto di vista giuridico l’intervento sembra ammissibile, appellandosi al principio di solidarietà. Meno realistico appare invece sotto il profilo finanziario e politico. Il bilancio dell’Unione andrebbe integrato con contributi specifici degli Stati membri. Ma è difficile spiegare ai cittadini europei che parte delle risicate risorse nazionali devono essere impiegate a favore di un altro Stato. Ancor più difficile se è un paese dell’Europa dell’Est.

COME SI DICE PREFETTO IN INGLESE?

Il ministro dell’Economia ha approntato lo strumento dei Tremonti bond per aiutare gli istituti bancari con problemi di scarsa capitalizzazione. Le banche potranno emettere obbligazioni sottoscritte dal Tesoro per rafforzare la loro solidità patrimoniale, pagando un tasso compreso tra il 7,5 e l’8,5 per cento. Ma, come ha ricordato anche il ministro Bossi, il vero fine dei Tremonti bond non è il salvataggio delle banche a rischio, ma aiutare le imprese, specie quelle medio-piccole, a non trovarsi di fronte ad un serio problema di razionamento del credito. E’ per questo che nel decreto che istituisce i Tremonti bond è previsto un monitoraggio delle condizioni di credito verso famiglie e imprese. I problemi delle banche sono gli stessi in tutta Europa. Il primo ministro inglese Gordon Brown ha salvato la settimana scorsa il Lloyds Banking Group, facendo salire la sua partecipazione azionaria dal 43 al 77 per cento. In cambio, il gruppo bancario si impegna ad erogare nei prossimi due anni prestiti alle imprese in difficoltà a mutui alle famiglie per 28 miliardi di sterline. Il ministro del Tesoro inglese ha detto: “Le banche sono il cuore del sistema, se si fermano va tutto in tilt”. Insomma, i problemi e le dichiarazioni dei governi sono simili in Italia e in Gran Bretagna. C’è solo una differenza: in Italia saranno i prefetti a vigilare sull’erogazione del credito a famiglie e imprese. In Gran Bretagna, non avendo i prefetti, sembra che riusciranno a farcela anche senza. Chissà come faranno. Probabilmente chiederanno alla Banca d’Inghilterra di vigilare. Il che fa sorgere la domanda: ma la Banca d’Italia non dovrebbe saper svolgere il ruolo di vigilanza sul credito meglio dei prefetti? Che competenze specifiche sul credito hanno i prefetti? O si tratta solo di un dispetto del ministro al governatore della Banca d’Italia?
A ben vedere le differenze con il Regno Unito  in realtà sono due. Quando il governo britannico ha salvato Royal Bank of Scotland, il vecchio management è stato accompagnato alla porta. Da noi, malgrado nell’ultimo mese il prezzo delle azioni Unicredit sia sceso del 46% e quello di Intesa Sanpaolo del 43%, è quasi impossibile leggere un articolo che critichi l’operato di Profumo e Passera. Anzi, secondo il presidente dell’Abi Faissola “Gli istituti bancari italiani hanno dimostrato in questa crisi di essere i migliori del mondo”. Sarebbe bello sapere qual è il criterio usato dal presidente dell’Abi per stilare questa graduatoria. In Inghilterra qualcuno glielo avrebbe chiesto.

QUELLO CHE NON SAPPIAMO DEI TREMONTI BOND

Dopo il sì dell’Europa, arriva il decreto attuativo sui Tremonti bond, i nuovi strumenti finanziari che potranno essere emessi dalle banche a corto di liquidità. Restano però i dubbi sulla loro effettiva operatività. Perché neanche la normativa di attuazione indica quali siano le conseguenze per le banche che non ottemperino gli obblighi sociali collegati al prestito. Né si può escludere il rischio che gli istituti inducano la propria clientela, anche attraverso i fondi di investimento gestiti, a sottoscrivere la parte dei titoli necessaria a superare la soglia di adesione.

IMPRENDITRICE? IL BANCHIERE NON SI FIDA

Le donne hanno difficoltà ad ottenere finanziamenti bancari per attività di impresa e di investimento. Una ricerca mostra che i problemi tra le banche e le clienti nascono proprio sulla capacità di negoziare le condizioni di accesso al credito. Ma qui gioca un ruolo cruciale l’intermediario finanziario. Le sue caratteristiche ideali comprendono capacità di mediazione, di relazione, di ascolto e comprensione. Forse per migliorare la situazione basterebbe che ad ascoltare le istanze di imprenditrici e professioniste fosse un operatore bancario di genere femminile.

TELECOM ITALIA: QUANDO L’INDUSTRIA FINANZIA LE BANCHE

Gli azionisti di Telecom Italia sono soprattutto istituzioni finanziarie, ben liete di incassare i consueti lauti dividendi in un periodo di crisi. In questo modo però il denaro non va dalle banche alle imprese, come sarebbe naturale, ma fa il percorso inverso. E gli investimenti sulla nuova rete? Tra scarse risorse e perdurante incertezza istituzionale, Telecom rinvia e diluisce gli impegni. Occorre chiarezza sulle scelte di fondo della politica. Pensando anche ai ritardi nell’informatizzazione del nostro paese.

GLI HEDGE FUND? DIAMOGLI UNA REGOLATA *

Le regole servono per imporre comportamenti ispirati alla prudenza a tutti i grandi operatori del sistema finanziario, compresi gli hedge fund. A quelli di notevoli dimensioni in grado di causare un danno sistemico si potrebbe applicare lo stesso sistema di norme imposto alle banche. E se la regolamentazione diretta è difficile e costosa, si può utilizzare quella indiretta, propria delle borse. In ogni caso, hanno oggi un’occasione unica per dimostrare alla collettività che l’evasione fiscale non è la loro unica ragion d’essere.

QUANDO LO STATO NON PAGA

Il ritardo con il quale la pubblica amministrazione regola i propri debiti commerciali è mostruoso. E ogni anno genera una domanda di credito da parte delle imprese di circa 67 miliardi di euro. Nel decreto anticrisi c’è un timido tentativo di intervenire aumentando la liquidità dei crediti verso la Pa, favorendone la monetizzazione o la cessione a intermediari finanziari. Tuttavia, manca ancora una totale consapevolezza dei costi che una simile situazione procura non solo al sistema produttivo, ma agli stessi conti dello Stato.

COME SALVARE LE BANCHE *

La soluzione della crisi non passa attraverso la nazionalizzazione delle banche. Anzi, molto probabilmente sarebbe una scelta controproducente. Cosa fare allora? Lo Stato si impegni ad acquistare fino al doppio del numero di azioni oggi in circolazione al doppio del loro recente prezzo medio, ma fra cinque anni. Un improbabile intervento futuro con un impatto immediato. Si invertirebbero le dinamiche negative dei mercati azionari e le banche potrebbero tornare a raccogliere capitale privato. Senza costi per il contribuente.

NAZIONALIZZAZIONE: C’E’ DA FIDARSI?

Per riavviare le politiche di prestito occorre fare pulizia dei titoli tossici. Ma le banche sono in grado di farlo da sole oppure lo Stato deve gestire direttamente gli istituti, oltre che comprare i titoli? Si tratta di scelte pragmatiche, non ideologiche. E in Italia? Prima di tutto bisogna vedere se c’è davvero necessità di nazionalizzazioni. Poi dare adeguate garanzie sulla salvaguardia dell’autonomia della gestione delle politiche di credito e sulla durata dell’intervento statale. La storia passata e recente del nostro sistema bancario invita alla diffidenza.

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