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Categoria: Immigrazione Pagina 31 di 41

PRIMA GLI EUROPEI *

Condivido le considerazioni di Maurizio Ambrosini sui “click-day” che si sono svolti questa settimana. Come sempre i numeri sono altissimi, ma ben poco hanno a che vedere con le reali condizioni del mercato del lavoro, poiché si tratta in gran parte di ricongiungimenti familiari. Speriamo si possa riformare al più presto l’intero meccanismo dei flussi. Ancora una volta però il decreto flussi (deciso unilateralmente dal governo) non è collegato a una organica politica di accoglienza e integrazione sul territorio. Ciò è destinato a riaprire l’annosa polemica sull’accesso degli immigrati ai servizi di welfare, soprattutto nelle regioni settentrionali.
Nelle fasi di crisi economica come l’attuale è comprensibile che si formino nell’opinione pubblica tendenze volte a limitare per gli immigrati l’accesso ad alcuni servizi di welfare. Nel nostro paese hanno trovato un’applicazione politico-amministrativa sia a livello nazionale, sia soprattutto a livello locale.
Sono impostazioni coerenti con la normativa europea? E si può parlare di una loro sostanziale efficacia rispetto alle tendenze di lungo periodo che si manifestano all’interno del fenomeno migratorio?

LA STAGIONE DELLE ORDINANZE

Negli ultimi anni, e in particolare dall’estate 2008, dopo l’entrata in vigore della legge n. 125, 24 luglio 2008, che aveva convertito il decreto legge n. 92 del 23 maggio (il cosiddetto "pacchetto sicurezza") si sono succedute alcune centinaia di ordinanze di sindaci di comuni settentrionali, volte a contrastare le fasce più povere dell’immigrazione e successivamente, a ostacolare l’accesso ai servizi e a varie forme di sostegno economico per la maggioranza degli immigrati.
Marco Revelli, nel suo ultimo libro "Poveri, noi" (Einaudi 2010), ne ha ricordate alcune, accuratamente censite dall’Associazione nazionale dei comuni italiani: 788 ordinanze emanate tra l’estate 2008 e quella 2009, per 445 Ccomuni coinvolti, prevalentemente concentrati in Lombardia, Veneto e Friuli, ma con emuli anche in Emilia-Romagna e altrove.
Si va dall’ordinanza "anti-sbandati" del comune di Cittadella (Pd) al "bonus-bebé" riservato a famiglie italiane di Brescia, Latisana (Ud), Palazzago (Bg) e altri; dalla legge della Regione Lombardia sui "phone center" a quella della Regione Friuli sul dialetto nelle scuole; fino all’ordinanza del comune di Rovato (Bs) sulla tutela dei luoghi di culto e a partire dai decreti del presidente del Consiglio del maggio 2008 sulle impronte digitali per i bambini rom.
In generale, i mezzi di informazione hanno dato ampio risalto a questo tipo di provvedimenti all’atto della loro emanazione (o addirittura del loro annuncio politico), senza però seguirne l’iter o monitorarne i risultati. In realtà molti dei provvedimenti sono già stati abrogati dai Tar, dalla Corte di Cassazione o dalla Corte Costituzionale (ad esempio tutti quelli citati in precedenza).
Numerosi ricorsi sono stati presentati e vinti dagli avvocati dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e la maggioranza delle ordinanze sopravvive solo in assenza di ricorsi, nei numerosi piccoli comuni che le hanno emanate.
Casi di magistratura orientata politicamente? Non proprio.

UN DIBATTITO MONDIALE

Il dibattito sull’accesso degli immigrati al welfare è antico quanto l’immigrazione nel mondo e antesignana sul tema può essere considerata la "Proposition 187" dello stato della California che riguardava addirittura l’accesso a determinati servizi degli immigrati clandestini, soprattutto minori. Confermata da un ampio consenso popolare (60 per cento) nel referendum del novembre 1994, dopo innumerevoli ricorsi e contro-ricorsi fu definitivamente abbandonata nel 1999, man mano che i "latinos" messicani acquisivano il diritto di voto.
Naturalmente, anche in Europa, dalla Gran Bretagna alla Francia, fino alla Germania (dove l’estate scorsa il libro di Thilo Sarrazin "Deutschland schafft sich ab" – la Germania si distrugge da sé – è stato accolto da forti polemiche) il dibattito su questi temi è sempre stato particolarmente aspro e l’Italia vi giunge buon’ultima. Come sempre, il confine tra diritti e discriminazione non è così chiaro e le norme europee e nazionali non vanno confuse con il consenso politico che in maggioranza è ancora orientato verso la discriminazione; non a caso uno slogan come "prima gli italiani" può essere considerato come uno dei più popolari nella discussione politica nostrana degli ultimi anni. Si può rileggere su questo sito il dibattito tra Tito Boeri e Hans Werner Sinn in vista del primo allargamento a Est dell’Unione Europea.
Non a caso, ad esempio, la quota degli immigrati residenti nelle case popolari in Lombardia e Veneto non è diversa da quella registrata in Emilia-Romagna o in Toscana. Quel che si vuole sottolineare in questa sede è che i contenuti delle ordinanze comunali si sono scontrati con una evoluzione del fenomeno migratorio nel nostro paese che sembra testimoniare un avanzamento del processo di integrazione o quantomeno di stabilizzazione e che vanno nella direzione opposta a quella dei "lavoratori ospiti" che forse era auspicata dal legislatore della "Bossi-Fini" e del "pacchetto-sicurezza", tendente a incoraggiare la cosiddetta immigrazione circolare.

CITTADINI CON PARI DIRITTI (E DOVERI)

L’immigrazione nell’Italia del 2011 è profondamente diversa da quella di dieci anni prima: in particolare, sono cresciute due tipologie di immigrati tutelate dalla direttiva europea 109/2003, che garantisce loro una sostanziale parità di trattamento rispetto agli autoctoni: i cittadini comunitari e i titolari della carta di soggiorno (o meglio del permesso di soggiorno Ce di lungo periodo).
Il graduale allargamento dell’Unione Europea ha portato i cittadini comunitari residenti in Italia alla cifra ragguardevole di 1.241.368 (dati 2009). I possessori del permesso di soggiorno Ce di lungo periodo sono arrivati (sempre nel 2009) a 1.011.967. Il documento, che si ottiene normalmente dopo cinque anni di residenza in Italia, non necessita più del rinnovo annuale (o biennale) del permesso di soggiorno e può rappresentare una tappa intermedia verso l’eventuale richiesta di cittadinanza italiana dopo ulteriori cinque anni.
Nel 2010 entrambe queste tipologie di immigrati sono ulteriormente cresciute, ma già nel 2009  rappresentavano il 53,2 per cento dei 4.235.059 immigrati allora residenti in Italia. Oltre la metà degli immigrati quindi è già titolare di uno status giuridico forte, che non può essere discriminato nell’accesso ai servizi di welfare, secondo la direttiva europea 109/2003.
Tanto per dare un’idea, gli alloggi popolari in Italia oggi sono poco più di seicentomila.
Si può obiettare che il significato delle ordinanze dei sindaci è da ricercare piuttosto nel facile consenso politico: è vero altresì che il consenso basato sulle mistificazioni, poggia in realtà su basi piuttosto fragili.
La verità è che l’esperienza degli altri paesi ha già dimostrato come sia impraticabile la strada di sbarrare l’accesso ai servizi, dopo che si è fatto entrare un numero rilevante di immigrati. Per il futuro quindi, l’Italia dovrebbe riflettere maggiormente sulle raccomandazioni europee che si muovono in tutt’altra direzione: permettere l’ingresso a un numero di lavoratori stranieri più modesto del passato, ma assicurare a questi piena parità di diritti e doveri rispetto agli autoctoni.

* Regione Emilia-Romagna. Rappresentante delle Regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione.

QUANTA IPOCRISIA IN UN CLICK-DAY

Il decreto flussi non serve all’ingresso in Italia di nuovi lavoratori dall’estero, richiesti nominativamente da imprese e famiglie. Serve a regolarizzare persone già presenti in Italia, ma prive di un permesso di soggiorno che li autorizzi al lavoro. Si riapre anche la possibilità dell’ingresso sotto sponsor, seppure in modo contorto e ipocrita. Ancora una volta, il governo della linea dura si rivela nei fatti incoerente. Meglio sarebbe una politica più trasparente, con la possibilità di convertire il permesso di soggiorno da turistico a lavorativo.

Solo parole nella lotta alla clandestinità

Il governo vanta successi nella lotta anti-clandestini. Ma con sei sanatorie in ventidue anni e i decreti-flussi che funzionano come sanatorie mascherate, l’Italia detiene il primato europeo delle regolarizzazioni di massa. Primato rafforzato dall’attuale governo. All’ostilità verso gli immigrati irregolari urlata a gran voce e inoculata nella coscienza dei cittadini corrisponde una tolleranza di fatto. Forse servirebbe una politica meno enfatica e più responsabile: difficile ottenerla in tempi normali, figuriamoci quando si profilano all’orizzonte le elezioni.

 

C’è l’indulto dietro il boom e lo sboom della criminalità *

Negli ultimi anni abbiamo assistito prima a un boom della criminalità e poi a una sua rapida diminuzione. Il governo attribuisce il calo del numero dei delitti denunciati alla stretta sull’immigrazione, soprattutto quella clandestina. Invece l’ondata prima crescente e poi calante potrebbe essere dovuta all’indulto voluto dal governo Prodi. Gli indulti, come i condoni per gli evasori e le sanatorie per gli immigrati, sono presentati come pezze temporanee per tappare buchi, ma producono il risultato permanente di indebolire la fiducia nella legge e il senso della legalità.

 

Un commento di Iacopo Viciani e la risposta degli autori

L’articolo ha il merito di presentare quello che dal 1993 l’analisi econometrica evidenzia sulla relazione aiuti, ma anche flussi commerciali, povertà  e migrazioni (Faini Venturini, 1993).
In sintesi, se gli aiuti sono efficaci e aumentano il redito procapite allora finché questo reddito non raggiunge una certa soglia (stimata intorno ai 7000 dollari PPP- circa il reddito di Sud Africa, Tailandia, fonte: Berthelemy, 2006) i flussi emigratori dal paese continuano ad aumentare. Superato questo reddito-soglia, la continua crescita aumenta gli incentivi economici a restare. L’’aumento dei flussi sarebbe perciò un effetto transitorio legato alla convergenza delle economie, tanto più breve quanto maggiore fosse la crescita del Paese d’emigrazione. Un’’analisi recente (Berthelemy, 2006) conclude che i flussi di immigrati aumentano in un paese che aumenti i suoi aiuti bilaterali, sopratutto per quanto riguarda la forza lavoro qualificata.
E’’ importante precisare che il rapporto aiuto/migrazione forse nasconde una causa più importante: il Pil procapite e la crescita di output del paese di immigrazione. Secondo la letteratura economica sulle migrazioni, questi sono le maggiori determinanti nella scelta della meta d’’immigrazione ma sono anche determinanti cruciali dei livelli di aiuto. Ossia, ad esempio, il Pil procapite alto della Svezia fa sì che questa sia meta ambita di immigrazione e che il livello di aiuti svedesi sia alto. Stabilire la causalità tra gli aiuti svedesi e l’emigrazione verso la Svezia può essere azzardato.
Anche il Pil procapite del Paese di emigrazione è tra le maggiori determinanti dell’’emigrazione, in termini assoluti. Affermare che gli aiuti hanno causato questa crescita di reddito procapite, significa riconoscere che l’’aiuto funziona. Purtroppo nessuno studio econometrico ha dimostrato una volta per tutte in maniera significativa questa correlazione tra aiuto e aumento del reddito/ crescita.
La crescita di reddito procapite in un Paese in via di sviluppo, o più semplicemente la sua crescita, è legata anche ad altri flussi finanziari e agli scambi commerciali. I Paesi Ocse potrebbero solo avere “selezionato” di investire maggiormente per l’’aiuto in quei paesi con già migliori performance economiche.
Infine sulla questione del “brain drain”, un documento Ocse del febbraio 2010 analizza il caso delle emigrazioni del personale infermieristico dai Paesi in via di sviluppo concludendo che non è l’’emigrazione la causa della mancanza cronica di personale sanitario. Inoltre una studio della Banca Mondiale del 2009 ha messo in evidenza che in molto Paesi in via di sviluppo la possibilità di emigrare se qualificati in una certa professione costituisce un significativo incentivo per formarsi. Le Filippine sono il Paese che invia il maggior numero di infermiere all’’estero ma non soffre di una carenza di personale infermieristico. In molti casi l’’emigrazione è solo temporanea i sanitari con un rientro dei professionisti qualificati attorno ai 30 anni  (World Bank, Microdeterminants of Migration, 2009).

Molto interessanti e appropriati gli spunti di  Iacopo Viciani. Esiste certamente una relazione tra aiuti erogati e Pil del Paese  donatore (che farebbe, nell’esempio citato, apparire la Svezia come forte donatore, in virtù del suo elevato Pil). Da un punto di vista  puramente tecnico, nelle nostre analisi, abbiamo tenuto conto di  questo problema esprimendo sempre l’ammontare di aiuti in percentuale del Pil del Paese donatore, in modo da “pesare” il volume di aiuti  erogati per la dimensione economica del Paese. Allo stesso modo, studiando i flussi migratori in uscita dai Paesi africani, abbiamo sempre pesato gli aiuti ricevuti dal singolo Paese beneficiario per il suo Pil.
Abbiamo anche cercato di trattare il volume di aiuti ricevuti come una  variabile endogena (in funzione
di alcune caratteristiche economiche del Paese beneficiario) proprio per tener conto della possibile “selezione” (da parte dei Paesi Ocse) dei Paesi verso cui dirigere più aiuti. Al di là di analisi aggregate, stiamo invece studiando quanto e  come gli aiuti si traducano effettivamente in un aumento di reddito, attraverso l’’uso di dati che consentano di analizzare le relazioni economiche bilaterali (e i loro effetti socio-economici) tra Paese donatore e Paese beneficiario.
Sulla questione cruciale del “brain drain”, concordiamo con Viciani: non sempre i Paesi esportatori di
capitale umano soffrono di carenza di capitale umano. Questo punto esula, per il momento, dalle nostre analisi; tuttavia, un spunto interessante potrebbe essere questo: se da una parte i flussi emigratori privano in una certa misura il Paese d’’origine di forza lavoro, è anche vero (come afferma Viciani) che questo fenomeno può associarsi ad un incentivo all’’ulteriore formazione da parte di chi resta. De Haas, in un lavoro del 2004,  parla di “brain gain”: cioè del contro-flusso di rimesse, investimenti, conoscenza e capitale sociale che avvantaggia il Paese fonte di emigrazione, proprio in virtù di quanti, precedentemente emigrati, ritornano in patria o, attraverso reti economiche  internazionali, partecipano dall’’estero allo sviluppo del proprio Paese. Va detto che tale dinamica, però, non ha sempre luogo, e molti Paesi sub-sahariani tendono ad impoverirsi, in senso economico e non, quando all’’emigrazione non segue nessun contro-flusso di capitale e conoscenza.

Se mi aiuti, emigro

Serve aumentare gli aiuti per fermare l’immigrazione dall’Africa verso l’Europa? L’analisi econometrica mostra che tanto più un paese riceve aiuti economici internazionali, tanto più da lì si origineranno flussi di migrazione e tanto più un paese eroga aiuti, tanto più riceverà immigrazione. Perché la scelta di emigrare sarebbe sempre più guidata dalla percezione della povertà relativa e non dalla povertà assoluta. Gli aiuti vanno dunque ancorati a progetti specifici e verificabili, volti a generare un flusso di reddito certo per i lavoratori residenti.

Chi ha paura del negoziante straniero?

Cresce il numero delle imprese individuali con titolare extracomunitario. Sono soprattutto attività legate al commercio, fisso e ambulante. Che contribuiscono a mutare il paesaggio urbano delle città e per questo sono ostacolate da molti amministratori locali, in particolare lombardi. Anziché apprezzare il fatto che vetrine illuminate e negozi aperti vivacizzano anche i quartieri difficili, prevale una visione della sicurezza come rimozione dei luoghi di incontro e degli spazi di socialità dei gruppi considerati pericolosi. Anche a costo di desertificare le strade.

Non si affitta agli immigrati

Un buon funzionamento del mercato degli affitti è fondamentale per favorire l’integrazione degli immigrati. Quello italiano ha molti problemi: l’offerta è scarsa e mal distribuita sul territorio nazionale, i costi di transazione sono elevati. Ma non solo: una parte dei proprietari non è disposta a concedere una casa in affitto agli stranieri. La discriminazione è più intensa nell’Italia settentrionale, colpisce soprattutto gli uomini e meno le donne e più gli arabi rispetto a chi proviene dall’Europa dell’Est. Neanche la crisi economica riesce a eliminarla.

Più immigrati più crimine? Dipende dalla politica

I risultati di una indagine sul Regno Unito mostrano che la presenza di immigrati non necessariamente si trasforma in un aumento dei tassi di criminalità. Anzi. Se agli stranieri viene lasciata la libertà di entrare e uscire dal paese ospitante, lavorare in regola e scegliere i mercati del lavoro locali in cui inserirsi, non si registrano effetti negativi dal punto di vista della criminalità. Quando la politica migratoria preclude loro queste possibilità, possono finire per scegliere attività criminose per far fronte alle necessità di sostentamento.

Le vittime straniere della crisi italiana*

Vanno letti con attenzione i dati Istat sulle forze lavoro relativi al 2009. Segnalano un aumento degli immigrati occupati nel nostro paese, dovuto presumibilmente al processo di regolarizzazione avviato a fine 2008. Indicano però anche un incremento dei disoccupati stranieri. Hanno solo sei mesi per trovare un nuovo lavoro. Scaduto il termine è probabile che molti decidano di tornare nel paese di origine. Quale sarà allora il destino dei contributi previdenziali versati? Rimarranno per lo più in Italia, nelle casse dell’Inps.

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