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Categoria: Immigrazione Pagina 36 di 41

RITRATTO D’ITALIA CON IMMIGRATO (*)

Il Rapporto annuale Istat certifica una forte crescita degli stranieri residenti in Italia nel 2007: sono ormai il 5,8 per cento della popolazione. Una bella fetta dell’incremento si deve all’iscrizione alle anagrafi di circa 300mila rumeni. E certo si sviluppano forme di mobilità circolare, con l’alternarsi di periodi di soggiorno nel paese d’emigrazione e in quello di immigrazione. Ma forse dovremmo chiederci se possiamo continuare ad affrontare i nostri tanti problemi strutturali facendo leva quasi esclusivamente sull’immigrazione.

UN PACCHETTO IN CERCA DI CONSENSO

Qual è la realizzabilità e la prevedibile efficacia del pacchetto sicurezza?Il primo problema concerne gli investimenti necessari per strutture, personale, trasporti. E se si vuole lottare effettivamente contro l’immigrazione irregolare, bisogna stroncare la domanda che la alimenta. Ovvero inasprire e rendere effettive le sanzioni contro i datori di lavoro, soprattutto quando si tratta di imprese. Se si tratta invece di abusivismo di necessità, come avviene per molte famiglie, occorre prevedere canali più semplici e rapidi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

BADANTE E CLANDESTINA

Le badanti irregolari superano il 40 per cento. Il governo ha annunciato una regolarizzazione ad hoc per la categoria. Ma le risposte tampone non risolvono il problema, che si ripresenterà. Come è avvenuto dopo la sanatoria del 2002. Servono invece misure strutturali. Va cancellata l’ipocrisia della chiamata a distanza. E va rivisto il sistema delle quote d’ingresso, palesemente incongruente con la domanda reale. Ma è anche necessario un aumento delle agevolazioni fiscali e la costruzione di una rete di servizi. Per collegare politiche migratorie e politiche sociali.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

LE QUESTIONI SOLLEVATE DAI COMMENTI DEI LETTORI.

Regime della tutela dei dati personali e natura dei dati tributari, rilevanza delle modalità di divulgazione rispetto alla tutela della privacy, valenza del controllo sociale come espressione di un rapporto tra i consociati fondato sulla corresponsabilità condivisa nei confronti del bene comune, in corrispondenza ad una concezione democratica e partecipata del vincolo sociale, o invece incentivazione di un deprecabile voyeurismo di massa e (peggio ancora) strumento odioso di delazione, alla stregua, come dice un lettore, di quanto praticato da “tutte le dittature per controllare ogni respiro dei propri cittadini”. Queste, per sommi capi, le questioni su cui, nella varietà degli accenti e delle posizioni, si sono principalmente soffermati i numerosi commenti seguiti alla pubblicazione del contributo Contribuenti fra trasparenza e privacy. Una vera e propria risposta richiederebbe uno spazio di cui non si dispone, si cercherà quantomeno di fornire qualche elemento ulteriore di analisi e riflessione.

REGIME DELLA TUTELA DEI DATI PERSONALI E NATURA DEI DATI TRIBUTARI.

I dati oggetto della pubblicazione effettuata dall’Agenzia delle entrate rientrano, certo, tra i dati personali, come qualunque informazione riconducibile, anche indirettamente, a una singola persona, ma, va sottolineato, non sono dati sensibili. In base al Codice della privacy, infatti, i dati personali non sono posti tutti sullo stesso piano, ma sono protetti con diversa intensità in relazione al loro diverso contenuto. La tutela è massima per le informazioni in materia di salute o di vita sessuale della persona, mentre invece è ridotta per le informazioni di natura economica. Basti ricordare che per il trattamento dei dati riguardanti l’attività economica dei soggetti (fatto salvo il segreto industriale e aziendale) non è necessario il consenso dell’interessato (art. 24, c. 1, lett. d). Da questo differenziato regime della tutela dei dati personali non si può prescindere quando si opera il confronto tra le ragioni della trasparenza, che hanno guidato il provvedimento di pubblicazione adottato dall’Agenzia delle entrate, e le ragioni della privacy, che gli sono state contrapposte: la riservatezza dei dati economici non è nel nostro ordinamento un valore assoluto, ma al contrario risulta, nello stesso Codice della privacy, di portata circoscritta, in conformità peraltro con la Costituzione repubblicana, che non include più le situazioni a contenuto economico  nell’area  dei diritti fondamentali inviolabili. La tutela della riservatezza va ponderata con gli altri valori fondamentali affermati dalla Costituzione. Nel bilanciamento tra valore della riservatezza dei dati economici, dalla Costituzione e dal Codice della privacy considerati comparativamente meno meritevoli di tutela rispetto ai diritti fondamentali, e valore della trasparenza come strumento per garantire un’opinione pubblica adeguatamente informata rispetto a interessi pubblici fondamentali quali l’adempimento del dovere d’imposta (fin dalla nascita dello Stato democratico legato a filo doppio alla titolarità dei diritti politici) e l’eguaglianza fiscale (art. 53 Cost.), non può essere che quest’ultimo il valore destinato a prevalere.

MODALITÀ DI PUBBLICAZIONE E TUTELA DELLA PRIVACY.

Il punto centrale della questione di illegittimità del provvedimento dell’Agenzia delle entrate sollevata dal Garante per la protezione dei dati personali riguarda la modalità della pubblicazione dei dati relativi alle dichiarazioni dei redditi, effettuata su internet. La legge, che risale ad anni antecedenti alla diffusione di internet, prevede la pubblicazione di tali dati nella forma del deposito degli elenchi dei contribuenti “per la durata di un anno, ai fini della consultazione da parte di chiunque, sia presso lo stesso ufficio delle imposte, sia presso i comuni interessati” (art. 69 del d.p.r. n. 600/1973). Il provvedimento del Garante ritiene prescritti dal legislatore, con tale disposizione, un limite territoriale e un limite temporale alla diffusione dei dati in oggetto. Il primo, costituito dalla delimitazione di ciascun elenco ai soli contribuenti della singola circoscrizione territoriale comunale alla quale soltanto l’elenco stesso è poi trasmesso e presso la quale soltanto è depositato. Il secondo, costituito dal limite di durata di un anno del deposito. Entrambi i limiti appaiono, evidentemente, scardinati dalla pubblicazione degli elenchi su internet, che travalica la delimitazione per circoscrizioni comunali e, consentendo a chiunque di “scaricarli” sul proprio computer, vanifica altresì il limite temporale. Il Garante lamenta che “l’Agenzia non ha previsto “filtri” nella consultazione on-line” e che ha posto in essere “una modalità di diffusione sproporzionata in rapporto alle finalità per le quali l’attuale disciplina prevede una relativa trasparenza”. Affermare questo, però, significa non considerare che la disposizione che prevede la pubblicazione degli elenchi, ossia l’art. 69 cit., la prescrive “ai fini della consultazione da parte di chiunque”. Consentire la consultazione a chiunque significa non prevedere alcun filtro per la conoscibilità degli elenchi. La norma non richiede per la consultazione degli elenchi né il requisito della residenza nel comune corrispondente né la titolarità di alcun specifico interesse ad acquisire tale conoscenza. La previsione del “chiunque”, in altre parole, è di per sé incompatibile con il limite territoriale configurato nel provvedimento del Garante e che a suo dire sarebbe stato violato dalla pubblicazione su internet. Quanto al supposto limite temporale, in realtà l’art. 69 cit. prevede la durata di un anno del deposito non come termine massimo, per garantire il cd. diritto d’oblio dei dati, ma come garanzia della loro effettiva consultabilità, fino a che i dati di ciascun anno non siano sostituiti con quelli dell’anno successivo. Appare pertanto fondata la tesi dell’Agenzia delle entrate, che ha ritenuto andasse applicata anche a questo tipo di pubblicazione, prevista dal legislatore in una fase in cui non si era ancora avuta la diffusione di internet, la disposizione che oggi richiede allo Stato e alle altre amministrazioni pubbliche di assicurare la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale (art. 2, c. 1, d.lgs. n. 82/2005, Codice dell’amministrazione digitale).
Va ribadito dunque che il ricorso alla pubblicazione su internet non è illegittimo per contrasto con l’art. 69 cit., in quanto, al contrario, consente una piena attuazione di tale norma, in cui è stato fissato dal legislatore, in termini generali, un ordine di priorità tra interesse alla trasparenza e interesse alla riservatezza, con riguardo ai dati fiscali, assegnando la prevalenza al primo, per le considerazioni di interesse pubblico già richiamate.
Sulla base di queste stesse considerazioni vanno affrontati anche gli ulteriori quesiti, emersi nel dibattito, relativi alla necessità di accompagnare la pubblicazione su internet con l’introduzione di soluzioni informatiche rivolte a consentire la tracciabilità degli accessi e impedire il trasferimento di file per evitare che siano costituite banche dati improprie e siano effettuati usi illeciti dei dati. A ben vedere: la tracciabilità degli accessi è in realtà incoerente con l’apertura della consultazione a chiunque, nel senso prima chiarito; bloccare la possibilità di “scaricare” il file è un rimedio solo apparente a fronte delle tecnologie attuali, in grado comunque di superare un tale impedimento. Va osservato peraltro che in realtà gli elenchi sono già da tempo disponibili sulla rete, attraverso gli archivi on line dei giornali che li hanno pubblicati, quantomeno in parte, anno per anno, e, ancora, va considerato che con le tecnologie attuali la stessa consultabilità degli elenchi cartacei nelle modalità testuali dell’art. 69 cit. apre potenzialmente la possibilità della loro registrazione. Quanto alla trasferibilità all’estero, la Corte di giustizia della Comunità europea ha statuito che l’inserimento di dati su internet non costituisce un trasferimento verso paesi terzi, anche se questi dati sono così resi accessibili per la consultazione da persone di paesi terzi, considerato il carattere ubiquitario delle informazioni su internet (sent. del 6 novembre 2003, Causa C-101/01). Quanto sin qui affermato non implica tuttavia che qualsiasi uso dei dati tributari così pubblicati sia da ritenere ammissibile, ma, in corrispondenza a quanto più volte sancito dalla giurisprudenza in materia di accesso ai dati, comporta invece che gli usi illeciti dei dati vadano perseguiti nel momento in cui si verifichino senza che per prevenirli si debbano soffocare le esigenze di trasparenza.

VALENZA DEL CONTROLLO SOCIALE

Il punto cruciale, in definitiva, sotteso a tutte le questioni sollevate, attiene all’alternativa tra due concezioni diverse della privacy, corrispondenti a due diversi modi di intendere il rapporto tra il singolo e la società. L’una considera la privacy come bene assoluto e indifferenziato, indipendentemente dal contenuto delle informazioni coinvolte, sicchè rivendica per quelle di natura economica le stesse garanzie che, viceversa, la legge, nella ricerca del contemperamento tra tutela della privacy e tutela di altri valori fondamentali, riserva ai soli dati “sensibili”. In tale prospettiva l’individuo è considerato in relazione esclusiva con lo Stato, avulsa da qualsiasi legame sociale. L’altra, coerentemente con l’impostazione recepita nell’impianto stesso del Codice della privacy, parte dal presupposto che la tutela della riservatezza vada ponderata con gli altri valori fondamentali affermati dalla Costituzione e, nel caso in esame, considera come esito di tale ponderazione la prevalenza da assegnare alla trasparenza dei dati fiscali. In essa ravvisa infatti uno strumento fondamentale per una corretta informazione in ambito sociale sull’adempimento da parte di ciascuno del dovere di contribuire secondo le proprie disponibilità al bilancio pubblico, quale espressione del vincolo che lega ogni soggetto agli altri componenti della comunità sociale, a fini di equità fiscale nella copertura della spesa per i servizi erogati alla comunità medesima nella sua interezza dall’intervento pubblico.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Cerco di rispondere brevemente:
1) Come ho scritto e devo ribadire, Rom e sinti in grande maggioranza non sono più nomadi, e a volte non lo sono mai stati. Inoltre, rifiutano di definrsi come nomadi: siamo noi che li definiamo così. Mi colpisce l’insistenza di  alcuni commenti nel ribadire l’etichetta
2) Ci sono Rom e sinti che rubano, certo. Nella nostra ricerca, riferita alla Lombardia ma probabilmente la più vasta mai realizzata in  Italia (su rom e sinti si fa anche poca ricerca, si preferisce in genere valutare sulla base di pre-giudizi), abbiamo trovato quasi ovunque persone incarcerate per vari crimini.  Il crimine va represso. Ci sono però anche rom e sinti che lavorano, nelle giostre, nella raccolta di rottami, o come i rom dell’insediamnto non autorizzato, ma tollerato, di S.Dionigia  a Milano, nel recupero di bancali. Stavano
mettendo in piedi una cooperativa, poi lo sgombero ha travolto tutto.
Ci somno poi rom e  sinti che cercano lavoro, ma non devono dire chi sono e da dove vengono, perché altrimenti nessuno gliene dà. Ci sono quindi molte differenze interne e anche conflitti. Come ha ribadito il Parlamento europeo, non possiamo condannarli in blocco e a priori. Semmai, dobbiamo cercare di guidare e accompagnare i processi positivi. Chiediamoci che cosa
sarà dei ragazzi che interrompono la scuola perché scacciati da uno sgomber all’altro: che destino avranno? Diventeranno dei bravi cittadini?
3) Gli insediamenti autorizzati costano soldi pubblici. Certo. Così come costano soldi le politiche per le minoranze (vogliamo vedere quanto ci costano Val d’Aosta e Alto Adige?) e le politiche destinate a soggetti e gruppi sociali in condizione di indigenza. E costa
soldi anche la custodia e il mantenimento dei carcerati. Da molti anni si investe in politiche sociali anche per cercare di non spendere poi in politiche carcerarie. Detto questo: 1) i soldi si pososno anche chiedere all’Unione europea, dove ci sono appositi stanziamenti, ma non è stato fatto; 2) ci sono diritti umani costosi ma incomprimibili: per es. che i bambini vadano a scuola, abbiano un tetto, siano curati; 3) le politiche che propongo costano meno dei grandi "campi nomadi": si tratta di favorire per es.  la ricerca di case  normali, di lavori normali; di favorire l’autocostruzione, o anche piccoli insediamenti a base familiare;
4) Servono misure di mediazione e accompagnamento, per emancipare dall’assistenza gli interessati e per rassicuare i residenti. Rom e sinti, come tutti noi, in genere non sono affatto desiderosi di abitare nei campi e di vivere di espedienti.
Ci vuole saperne di più, veda le ricerche pubblicate dall’Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, presso la Fondazione Ismu.

Mi pare che i commenti siano uno specchio abbastanza fedele delle opinioni e dei sentimenti del nostro paese sulla questione: una minoranza condivide la mia riflessione; uno o due rom o sinti cercano invano di far sentire la propria voce, rivendicando il loro desiderio di normalità; la maggioranza dissente ad alta voce, spesso con rabbia. Parecchi lettori, a quanto pare, sono convinti che i rom vivano nella sporcizia perché lo desiderano; che non lavorino, perché non vogliono farlo; che siano (tutti) delinquenti pericolosi; che siano irrecuperabili; che non abbiano diritti. Mi colpisce
che nessuno per esempio accenni ai minori: l’unico lettore che ne parla è per proporre di sottrarglieli. Quando chi è collocato in un certo gruppo sociale non è più riconosciuto come uguale, è privato della dignità umana, e lo si coglie dal fatto che i suoi figli non meritano considerazione. I loro volti spaventati e braccati non raccolgono pietà né rispetto. Il punto decisivo credo sia il trattamento dei rom e sinti come un tutt’uno, condannati in massa. Che ci siano rom e sinti che rubano, è innegabile.
Anche dalla nostra ricerca questo emerge, i lettori possono sentirsene confermati. Che questo fatto possa portare ad un bando e a una condanna per tutti i rom, è il passaggio tra un sistema democratico e altri sistemi. Entra in funzione un’etichettatura collettiva e indistinta, che è esattamente ciò che gli psicologi chiamano pregiudizio.
Come ho cercato di spiegare, a quanto pare senza molto successo, si tratta di popolazioni eterogenee e stratificate, con vari gradi di integrazione. Ma non si può incolparli se non hanno una casa. Pochi fra loro circolano volontariamente sul territorio, e i comuni sarebbero obbligati a prevedere idonee aree di sosta, invece di affiggere cartelli con il divieto di campeggio. Che poi si possa impedire a dei cittadini europei di esercitare il diritto alla mobilità, mi pare sia un problema di non facile soluzione anche per il governo, una volta finita la campagna elettorale.
Detto questo, so bene che non è facile sostenere rom e sinti nell’affrancamento da lunghi anni di vita ai margini della società: formazione, inserimento lavorativo, normalità abitativa, non si costruiscono
in un giorno, e neppure dicendo che devono cavarsela da soli, anzi devono dimostrarci che possono vivere onestamente. Mi permetto di ribadire che, senza politiche intelligenti di accompagnamento, la questione tornerà a presentarsi, ancora più incancrenita come qui campi demoliti dalle ruspe che vengono riedificati pochi giorni dopo, più poveri e sgangherati di prima. Un’ultima considerazione, che non vuole essere polemica, ma solo descrittiva: chi sostiene che in Italia non c’è xenofobia, dovrebbe leggere i commenti al mio articolo. Forse diventerebbe più cauto.

 

IL VICINO ROM

Dal punto di vista dei numeri, non c’è ragione di lamentare “invasioni” di rom e sinti nel nostro paese. Piuttosto sono assai problematiche le politiche adottate per la gestione di queste minoranze. Nel migliore dei casi si sono allestiti i campi nomadi, diventati oggi un aspetto saliente del problema. Servono invece soluzioni abitative plurime, negoziate con i diretti interessati e con le comunità locali. E progetti più ampi, con il coinvolgimento e la responsabilizzazione dei destinatari, la condivisione di regole, la presenza di figure di mediazione e accompagnamento.

IMMIGRAZIONE E COMPETENZE

L’Europa accoglie troppi immigrati poco qualificati e troppo pochi sufficientemente qualificati. Ma cos’è che attira emigranti qualificati? A parte l’ovvia influenza di stimoli economici, di povertà, di legami culturali e storici, la scelta degli emigranti dipende dalla politica migratoria messa in atto dal paese ospitante. I sistemi a punti adottati in alcuni paesi sembrano dare buoni risultati. Bisogna però tener conto che la stragrande maggioranza degli immigrati arriva non per lavoro, ma in virtù del ricongiungimento familiare o dello statuto di rifugiato.

E OGGI PAGHIAMO L’INDULTO

Il voto ha premiato gli unici due partiti che si sono opposti all’indulto. Non a caso. L’indulto non solo ha fatto aumentare l’attività criminale in Italia, ma ha anche modificato la composizione dei flussi migratori, finendo per attrarre nel nostro paese più criminali che altrove. Tanto che oggi quattro italiani su dieci temono gli immigrati, non per il lavoro, ma per i reati che possono commettere. Se non si rafforza la repressione dell’attività criminale in Italia prima o poi saremo costretti a chiudere le frontiere. A quel punto, importeremmo solo immigrazione irregolare, in un circolo vizioso di illegalità che alimenta nuova illegalità.

 

La risposta audio dell’autore ai commenti.

IMMIGRAZIONE

PROVVEDIMENTI

In attesa della annunciata riforma della disciplina dell’immigrazione, sono stati adottati una serie di provvedimenti amministrativi, come il decreto flussi bis del 7 dicembre 2006, che ha determinato un numero aggiuntivo di quote in corso d’anno.
Il Governo ha adottato semplificazioni di tipo procedurale per la concessione del permesso di soggiorno per ll’ingresso dei lavoratori extracomunitari dipendenti da datori di lavoro residenti o aventi sede in uno Stato membro dell’Unione europea in occasione di distacco o appalto transfrontalieri.
Recentissima è l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del decreto legislativo che recepisce una direttiva comunitaria specificamente concepita per favorire l’ingresso di laureati extracomunitari ai fini di ricerca scientifica da svolgere presso enti pubblici e privati.
E’ stata riformata la disciplina della carta di soggiorno che ora si chiama “permesso di soggiorno di lungo periodo”: è stato ridotto il tempo necessario per poterla conseguire da sei a cinque anni e, soprattutto, sono state eliminate le preclusioni assolute collegate a certe condanne penali, preclusioni sostituite da una valutazione di non pericolosità sociale da effettuarsi caso per caso. E’ inoltre agevolato l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo rilasciato da altro paese membro dell’Unione Europea.
Una innovazione che non riguarda i principi, ma risolve un piccolo problema pratico ed organizzativo, è l’eliminazione del permesso di soggiorno per visite, affari, turismo e studio, per permanenza non superiori a tre mesi, sostituito da una mera semplice comunicazione resa all’autorità di frontiera o al questore.
Il Governo ha dato attuazione anche alla direttiva comunitariasul diritto di ricongiungimento familiare, ampliando in qualche misura la garanzia dei diritti della “unità familiare”.
Importante è l’approvazione della legge che disciplina lo status di rifugiato, riconoscendo il diritto di godere del medesimo trattamento previsto per il cittadino italiano in materia di lavoro subordinato, lavoro autonomo, per l’iscrizione agli albi professionali, per la formazione professionale e per il tirocinio sul luogo di lavoro, ma soprattutto l’accesso al pubblico impiego, con le modalità e le limitazioni previste per i cittadini dell’Unione europea.

Infine due decreti legge in materia di espulsioni hanno intensificato i controlli.
Attraverso una circolare, il Ministro dell’interno ha poi invitato i Questori a valutare la possibilità, sulla base della normativa già oggi vigente, di rilasciare il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale a favore di immigrati che si trovino in “accertate situazioni di violenza e di sfruttamento sui luoghi di lavoro”, a coloro cioè ai quali dovrebbe indirizzarsi la protezione prevista da uno dei progetti di legge presentati dal Governo.

QUANDO SI VEDRANNO GLI EFFETTI

Gli effetti della semplificazione amministrativa si vedono già, ed è sufficiente collegarsi ai siti web dei ministeri dell’interno e del lavoro, per prenderne atto. Non essendo state adottate le riforme annunciate (vedi sotto), ma solo una serie di interventi parziali, non ci sono da aspettare effetti significativi sui flussi migratori.  Rimaniamo sempre al quadro normativo definito dalla Legge Bossi Fini.

OCCASIONI MANCATE

Il Governo Prodi non ha trascurato di progettare interventi, anche ambiziosi, in materia di immigrazioni. Fra questi dobbiamo ricordare innanzitutto quello che è ancora oggi disegno di legge di riforma della cittadinanza che prevede l’adozione dello jus soli, favorendo l’acquisto della cittadinanza da parte dei figli degli immigrati.
Questo progetto di legge riduce inoltre il tempo necessario per la naturalizzazione dello straniero, regolarmente residente, da dieci a cinque anni, richiedendo peraltro la verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero nel territorio dello Stato e un requisito di reddito, al quale, finora, la legge non aveva mai fatto riferimento.

Altro progetto presentato dal Governo Prodi ma mai convertito in legge dello Stato è il disegno di legge delega per la riforma del testo unico sull’immigrazione. che, pur conservando il sistema delle quote di ingresso, prevede sistemi più realistici di monitoraggio del mercato del lavoro in relazione al quale programmare le quote. A tale innovazione il ddl aggiunge l’ipotesi di invito a favore dello straniero tramite “sponsor”. Tale sistema consentirebbe l’ingresso dell’extracomunitario nel territorio, su richiesta nominativa da parte di un cittadino, ma anche di uno straniero titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo, che se ne faccia garante, ai fini dell’inserimento nel mercato del lavoro.
Il ddl sull’immigrazione prevede inoltre la definizione di un sistema di liste di ingresso a disposizione degli stranieri interessati ad entrare in Italia, liste organizzate sulla base di criteri quali l’ordine di iscrizione ma anche la conoscenza della lingua italiana, la qualifica professionale, e la frequenza di corsi che garantiscano la diffusione dei valori della Costituzione italiana. Queste previsioni potrebbero lasciare spazio, in sede di adozione dei decreti legislativi, all’introduzione di un sistema di ingresso “a punti”, simile a quello descritto da T. Boeri su queste pagine. Questa novità è stata evidenziata anche C. Bonifazi e M. Livi Bacci.
Sul fonte della protezione degli stranieri, una iniziativa di legge del Governo Prodi prevede la possibilità di concedere il permesso di soggiorno ai lavoratori clandestini che si trovano in condizione di grave sfruttamento. Tali condizioni ricorrono principalmente se la retribuzione è ridotta di oltre un terzo rispetto ai minimi contrattuali, se subiscono gravi violazioni in materia di orario di lavoro, se sono violate gravemente le disposizioni in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.

QUANDO L’IMMIGRATO VA IN CITTA’

Il tema dell’immigrazione promette di essere uno dei temi più controversi del ventunesimo secolo. Recenti ricerche su dati americani mostrano che città ad alta immigrazione registrano anche elevata crescita di salari e del valore delle case. In media l’immigrazione ha un effetto positivo sulla produttività dei lavoratori nazionali ma al tempo stesso ha rilevanti effetti sulla distribuzione del reddito. I lavoratori con maggiore istruzione godono dei maggiori benefici, mentre quelli poco istruiti non guadagnano, ma neppure perdono molto, dall’immigrazione.

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