Tutti insieme appassionatamente, politici, banchieri, membri del governo e capi delle fondazioni hanno celebrato il futuro delle fondazioni. Che però non promette bene. Come rivela uno studio di Mediobanca, la loro redditività e la loro efficienza sono ridotte al lumicino. Mentre i pletorici board sono la rappresentazione della spartizione politica, senza vere competenze all’interno. La separazione tra fondazioni e banche è improrogabile per la salute stessa del capitalismo italiano, soprattutto in tempo di crisi.
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Il ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, in una recente lettera al Corriere della Sera, ha rimesso al centro del dibattito il tema della dirigenza pubblica. Le misure sulla dirigenza, infatti, costituiranno uno degli assi portanti del disegno di legge delega per lÂ’aggiornamento della riforma della pubblica amministrazione a suo tempo promossa a partire dal Dlgs. 150/09.
LA CENTRALITÀ DEL DIRIGENTE
Tra le linee di intervento evidenziate dal ministro, emerge il richiamo ad una maggiore indipendenza della dirigenza pubblica dalla politica. La concreta attuazione di questo principio dovrebbe trovare riscontro, sempre nella visione del ministro, in una maggiore trasparenza e qualità nella scelta dei dirigenti, in una più precisa e prevalente responsabilizzazione degli stessi sui risultati delle strutture gestite, in una riforma dei sistemi di reclutamento e selezione che allineino il nostro paese alle migliori esperienze maturate nel contesto internazionale.
Questa decisa presa di posizione ci sembra del tutto condivisibile e richiama il tema, della qualità e della legittimazione della classe dirigente quale condizione fondamentale per il buon funzionamento e lo sviluppo delle amministrazioni pubbliche.
Competenza, senso di responsabilità , impegno e rigore etico rappresentano infatti i requisiti fondamentali di qualunque dirigente e in particolare di un dirigente chiamato a esercitare le proprie funzioni per il perseguimento dell’interesse collettivo. Non da ultimo, il ruolo del dirigente, sia nel settore pubblico che in quello privato, è fortemente legato alla capacità di far crescere e motivare i propri collaboratori, perché proprio sul commitment e la qualità delle risorse umane impiegate si gioca il futuro di organizzazioni sempre più “competence based”. Su questo piano conta molto la credibilità del dirigente, ovvero l’essere ritenuto sia internamente all’amministrazione che dagli interlocutori esterni, persona di valore, dal punto di vista professionale e, non da ultimo, etico e comportamentale.
L’ONESTÀ DEL LEADER
A conferma di ciò, un recente studio sulla propensione allo sforzo dei dipendenti pubblici fa luce su quanto sia importante un comportamento virtuoso ed onesto per aumentare la produttività delle pubbliche amministrazioni.
Secondo uno studio americano, infatti, i dirigenti pubblici possono migliorare le performance dei propri collaboratori adottando, tipicamente, cinque tipi di comportamento: insistendo sulla necessità di raggiungere gli obiettivi stabiliti, prestando attenzione allo sviluppo delle competenze e delle relazioni con i propri collaboratori, incentivando la creatività e la generazione di nuove idee, valorizzando le diversità , promuovendo la parità di genere e avendo a cuore i tratti particolari del singolo individuo, richiamando, infine, l’esigenza di onestà e correttezza nello svolgere il proprio lavoro. (1)
Sulla base di questi idealtipi lo studio italiano ha esplorato quale di questi stili di comando fosse più adatto per aumentare la propensione a impegnarsi, e quindi la produttività dei dipendenti pubblici.
In particolare, a cinque differenti gruppi di dipendenti ministeriali (per un totale di 142 unità di analisi selezionate casualmente) è stato proposto di lavorare a un progetto che si differenziava solamente per lo stile di leadership del capo-progetto. Ogni gruppo è stato esposto a un diverso ‘stimolo’ (ossia a un diverso stile di leadership), ma in tutti i casi i ricercatori hanno preventivamente chiesto ai dipendenti intervistati quale fosse la loro normale propensione allo sforzo sul luogo di lavoro. Successivamente, i ricercatori hanno chiesto di quanto gli stessi dipendenti avrebbero aumentato (o diminuito) il proprio sforzo sul lavoro aderendo al progetto proposto da un certo tipo di leader. I risultati finali dell’esperimento sono riassunti nella tabella successiva.
Come si può notare lo stile di leadership che comparativamente risulta essere più efficace per aumentare la propensione allo sforzo è quello ‘orientato all’integrità ’. I dipendenti pubblici sono maggiormente motivati se riconoscono l’onestà e l’integrità di un leader e se sono invitati a rispettare le regole non solo procedurali ma anche e soprattutto comportamentali. Una conclusione che va oltre il tema dell’etica dell’amministrare strettamente intesa, ma che richiama in ogni caso anche le responsabilità dei dirigenti nel contrastare i fenomeni di illegalità nella pubblica amministrazione e prevenire le conseguenze negative che i comportamenti e le pratiche illegali provocano: delegittimazione della politica, perdita di fiducia nelle istituzioni, aumento dei costi a carico dei cittadini.
I risultati dello studio confermano più in generale, in sintonia con le prospettive della nuova riforma del settore pubblico delineate dal ministro, il rilievo del tema della qualità della classe dirigente del Paese. In assenza di vertici delle amministrazioni che possano realmente rappresentare un modello di ruolo, per valori, impegno e competenza, è difficile pensare che l’ingegneria organizzativa e gli strumenti di management possano, da soli, cambiare davvero lo stato delle cose. Una dirigenza credibile e integra, infatti, non può che risultare da logiche efficaci, trasparenti e meritocratiche di gestione del personale. Molto si può fare, ad esempio, sul sistema dei concorsi. È impensabile che la selezione di una nuova classe dirigente possa derivare da modalità obsolete di accertamento delle conoscenze, tipicamente attraverso prove di esame scritte di natura nozionistica, combinate con altrettanto anacronistici formalismi che accompagnano le prove orali. L’imparzialità , il riconoscimento del merito e delle competenze, sono valori guida di tutti i processi di selezione delle organizzazioni eccellenti e non sono in discussione. Ma l’efficacia dei processi di selezione, in queste organizzazioni, è collegata alla ricerca del profilo che per caratteristiche, attitudini e motivazione, meglio si adatta a ricoprire la posizione vacante, ovviamente descritta ex-ante nei contenuti e nei risultati attesi. Abbandonare i formalismi per salvaguardare un’imparzialità di sostanza, fondata su metodi evoluti di selezione e affidata a specialisti della selezione, rappresenta quindi una priorità non ulteriormente procrastinabile.
Non meno importanti sono, peraltro, le modalità per l’assegnazione degli incarichi. Troppo si è scritto e troppo si è fatto in tema di “politicizzazione” delle nomine e delle carriere all’interno del settore pubblico. Anche su questo piano una svolta radicale è necessaria: sistemi più trasparenti di pubblicizzazione degli incarichi da affidare, esplicitazione a priori dei requisiti necessari per ricoprire gli stessi, pubblicizzazione dei curricula dei candidati, definizione di criteri trasparenti di scelta, nomina di advisor indipendenti, rendicontazione via web delle fasi e dei risultati del processo, sono solo alcuni degli interventi possibili.
Infine, cruciale è il sistema di valutazione e rewarding dell’alta dirigenza. Oggi i dirigenti vengono di regola valutati su obiettivi individuali e comportamenti organizzativi. Nella maggior parte dei casi raggiungono tutti gli obiettivi e si comportano molto bene. Peccato che non sempre le organizzazioni che dirigono producano altrettanti brillanti risultati. È fondamentale allora una misurazione seria della performance organizzativa, degli output e degli outcome delle amministrazioni pubbliche. Sulla base di questa, quindi, sarà finalmente possibile valutare le capacità dei dirigenti “in azione”, per quanto gli stessi sono davvero capaci di migliorare l’efficacia e l’efficienza degli ambiti che dirigono, e non solo “sulla carta”, ovvero per quanto diligentemente adempiono ai propri doveri. A tutto questo, ovviamente, dovrebbero collegarsi i premi monetari, oggi spesso distribuiti “a pioggia” o, nella migliore delle ipotesi, sulla base del mantenimento della normale operatività .
Del resto i risultati della ricerca che sottolineano l’inefficacia di altri stili di comando (come ad esempio quelli che insistono sulla necessità di raggiungimento degli obiettivi o quelli che sostengono la creatività degli individui) confermano un forte ritardo culturale nell’introduzione di logiche che premiano l’innovazione e l’ottenimento di risultati finali nelle amministrazioni centrali: il relativo ‘disinteresse’ dei dirigenti censiti verso il risultato del proprio lavoro o verso la creazione di nuove modalità di risoluzione dei problemi, conferma l’ipotesi di una classe dirigente che fatica ad evolvere da logiche di responsabilità formale e tende a perpetuare le prassi e le tradizioni consolidate.
La trasformazione dei burocrati in manager sembra ancora lontana, così come la possibilità di mettere le migliori energie e competenze professionali presenti nel settore pubblico davvero al servizio della creazione di valore per i cittadini.
(1) Fernandez, Cho, Perry (2010)
I bassi prezzi dei titoli di Borsa caratteristici di questo periodo fanno sì che un certo numero di società pensi al delisting. Ma all’azionista di minoranza conviene aderire alle Opa lanciate con questo scopo? Una risposta generale non è semplice. Tuttavia, spesso l’investitore marginale tende a guardare al passato nel decidere se accettare o meno l’offerta del controllante. E dà troppa importanza al prezzo corrente delle azioni, senza interrogarsi sulle prospettive future dell’impresa. È un errore. Cosa succede se non si raggiunge la soglia di adesione obbligatoria all’Opa.
Il salvataggio di Fondiaria-Sai proposto da Unipol è un ottimo esempio di schema finanziario rivolto ad acquistare una società quotata senza alcun vantaggio per i piccoli investitori. La legge prevede l’obbligo di Opa a cascata quando si acquista la controllante di una società quotata. Ma l’operazione potrebbe essere ritenuta lecita perché diretta al salvataggio di una società in crisi. Il gruppo di controllo che ha condotto Fonsai sull’orlo del baratro potrebbe così deciderne il destino. Tutto in nome della stabilità . E benché non manchi l’interesse di grandi compagnie straniere.
Le vicende di Mps e di Unicredit confermano quanto sia opportuna la separazione tra fondazioni e banche conferitarie. Le fondazioni potrebbero perseguire i loro obiettivi statutari. E migliorerebbe la governance delle banche, aprendo a soggetti che hanno come obiettivo primario la massimizzazione del loro valore. È una riforma degli assetti proprietari del nostro capitalismo utile ora, nell’immediato della crisi, e dopo, quando sarà finita. Perché renderebbe più efficienti e più stabili le banche italiane, contribuendo al rilancio di tutto il nostro sistema produttivo.
Ringrazio i lettori e in primo luogo offro una prima risposta collettiva: non esistono pasti gratis.
I commenti pervenuti rappresentano una efficace sintesi  di tutti i problemi (e non sono pochi) tra i quali bisogna districarsi per realizzare una auspicabilmente  efficiente sistema dei controlli societari.
Armando Guerra,  ad esempio, richiama il rischio che ogni tentativo di snellimento sia bloccato sul nascere da chi è troppo appassionato di burocrazia, oppure più prosaicamente da chi vuole proteggere propri interessi corporativi: ha ragione, ma lo invito a leggere meglio l’articolo, perché il mio sforzo non è affatto quello di annullare i benefici delle nuove norme, ma di evitare l’inutilità dei controlli, proponendo una suddivisone tra sindaco unico nelle realtà imprenditoriali minori e collegio in quelle maggiori,  come suggerisce anche Giacomo Giuritano.
Nessuno nega che finora i controlli interni delle società abbiano messo in evidenza più di una criticità , se non proprio buchi neri, come quelli che richiama L. Scalzo, ma o li aboliamo, o cerchiamo di andare oltre gli anatemi individuando una strada per una equilibrata riforma. Il percorso da me indicato cerca di essere un contributo, per renderli semplici, indipendenti autonomi ed efficaci.
Un contributo discutibile finchè si vuole, ed anzi questo dibattito meriterà molti approfondimenti , ma che si fonda su due banalissimi presupposti, spesso dimenticati.
Il primo è che i controlli interni sono e continuano comunque ad essere utili e il secondo è che, se si condivide questo orientamento, bisogna anche accettare il fatto che costano.
Non è un caso che tutti i più recenti studi sulla governance societaria mettono in rilievo il loro ruolo centrale nella prevenzione e nel monitoraggio dei nuovi rischi emersi dopo la crisi finanziaria, ed anche i paesi anglosassoni, a proposito di quello che dice Ottavia, stanno rivedendo le loro posizioni sul sistema monistico che oggettivamente li indebolisce.
Infine,  per quanto riguarda la domanda sugli stakeholder che controllano le relazioni dei collegi sindacali delle piccole imprese,  sicuramente non sono molti, ma, a proposito di trasparenza, ve lo immaginate cosa sarebbero gli stessi bilanci senza nemmeno quelle tanto bistrattate relazioni?
La legge di stabilità ha modificato il sistema dei controlli interni delle società . Ora tutte le srl e le spa con ricavi o patrimonio netto inferiori a un milione di euro possono nominare un solo sindaco invece di un collegio sindacale. È sacrosanto liberare le imprese da oneri normativi che ne bloccano lo sviluppo. Ma un buon sistema di controllo significa aiutarne la maturazione verso assetti più efficienti e trasparenti. Proprio quello di cui le piccole e medie imprese avranno sempre più bisogno. Ed è illusorio fare affidamento sulle capacità di autocontrollo dei soci.
In Italia la presenza femminile ai vertici delle imprese è ancora molto scarsa. In agosto, però, è entrata in vigore la legge che impone alle società quotate di riservare alle donne almeno un terzo delle posizioni in consiglio di amministrazione. Cosa dobbiamo aspettarci? Un’analisi sulle consigliere attuali suggerisce che è fondamentale una selezione attenta a competenze e qualità , piuttosto che ai legami con le imprese. E va associata a processi di formazione dei nuovi membri dei consigli. Ne potrebbero trarre benefici significativi soprattutto le società la cui governance non è ottimale.
Grazie ai lettori per i commenti, sia perché mi consentono di specificare alcuni profili sacrificati dalla sintesi dell’articolo, sia perché offrono spunti per ulteriori approfondimenti.
Il primo aspetto importante: è evidente che le fondazioni devono innanzitutto guardare ai dividendi che ottengono dalle partecipazioni  bancarie, ma è inutile, in una prospettiva di medio lungo termine, farsi illusioni: non saranno più i succosi dividendi del passato, al contrario la prospettiva è decisamente magra e inviterei i lettori a non essere più realisti del re. Nel mio articolo  cito la “Carta delle Fondazioni” che l’ACRI intende, meritoriamente, elaborare. E’ la stessa ACRI a dire, testuali parole, “L’evoluzione del ruolo delle fondazioni richiede una programmazione puntuale nel medio lungo periodo, con la conseguente necessità di poter contare su flussi costanti di introiti derivanti dall’investimento dei patrimoni”. Se questo non significa aprire la strada ad una seria diversificazione degli investimenti, nella consapevolezza di non poter più fare affidamento nel bengodi dei dividendi bancari.. …..
La mia proposta prevede che l’insieme delle partecipazioni sia gestita da  intermediari specializzati che da un lato  possano “far massa” e quindi valorizzare maggiormente l’investimento, dall’altro introdurre un elemento di separazione tra le fondazioni e le banche (ad esempio provvedendo a nomine dove siano più forti le qualità professionali e di indipendenza degli amministratori). Un lettore sostiene, a ragione, che questo comunque non elimina del tutto l’intreccio e il rischio di conflitti di interesse, ma premesso che la soluzione perfetta non esiste,  sicuramente contribuisce ad attenuare queste criticità . E’ poi del tutto evidente, che queste soluzioni si possono realizzare solo sul piano volontario e dell’autoregolamentazione: nessuno le deve imporre, a mio parere è nell’interesse stesso delle fondazioni adottarle.
LÂ’altra obiezione significativa di molti lettori riguarda il ruolo delle fondazioni nel sostegno alle piccole banche locali in grado di favorire lo sviluppo dei territori. Nessuno nega questo ruolo ma la domanda è: siamo cosiÂ’ sicuri che una piccola impresa per crescere non abbia bisogno di servizi e strumenti che solo grandi intermediari sono in grado di offrire? Se continuiamo a commiserarci  (come il lettore che si rassegna al fatto che “la nostra realtà economica non permette megabanche”) daremo ragione, e mi scuso per lÂ’ autocitazione di un mio precedente articolo, al  Presidente francese Sarkozy, che nellÂ’ultimo incontro bilaterale ha candidamente dichiarato, a proposito della vicenda Parmalat, che Francia e Italia possono felicemente integrarsi perchè intanto noi abbiamo il 90 per cento di piccole imprese, mentre alle grandi ci pensano loro! Â
La tumultuosa estate dei mercati lascia sul campo molti feriti. Può però rappresentare una buona occasione per riforme che in tempi normali incontrerebbero molti ostacoli. Come nel caso delle fondazioni bancarie. Le risorse messe a disposizione dalle fondazioni per le comunità hanno giocato un importante ruolo integrativo se non sostitutivo nel welfare locale. Ed è un compito che sempre più saranno chiamate a svolgere. Conviene allora che continuino a mantenere l’intreccio, spesso assai costoso, con le banche?