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Categoria: Investimenti e innovazione Pagina 30 di 36

Non è tutto oro quello che luccica

I primi risultati del processo di valutazione della ricerca universitaria da parte del Civr e il paventato uso che se ne potrebbe fare ai fini dellÂ’assegnazione delle risorse, impone una riflessione attenta. Associare una valutazione a una premiazione significa creare un sistema incentivante che influenza scelte, azioni, comportamenti e, inevitabilmente, risultati.

Risorse scarse e finanziamenti “eccellenti”

Attraverso la valutazione di un campione ristretto di prodotti di ricerca scelti dalle università, il sistema Civr perviene a una classifica di “eccellenza” degli atenei.
La prima domanda che occorre porsi è se risorse scarse vadano allocate alle università secondo un concetto più o meno assoluto e immutabile di eccellenza oppure secondo una più articolata serie di criteri strategici, variabili nel tempo e nello spazio. Ovvero, un’università è eccellente perché i suoi risultati sono conformi a un concetto dogmatico di eccellenza oppure perché raggiunge determinati obiettivi strategici?
Indipendentemente dal significato di eccellenza, l’allocazione di risorse scarse alle università dovrebbe essere effettuata in funzione dei rispettivi programmi di azione necessari per realizzarne la strategia. Il ruolo del Governo si estrinseca nel definire con chiarezza gli indirizzi politici nei settori di attività degli atenei; nel richiedere piani strategici alle singole sedi per verificarne l’allineamento con gli indirizzi politici e realizzare l’integrazione sinergica complessiva; nell’assegnare coerentemente le risorse necessarie; e nel controllare che gli obiettivi strategici siano effettivamente raggiunti.
Sul primo punto, il Consiglio europeo di Lisbona 2000 è un esempio eclatante cui riferirsi: non solo fissa gli indirizzi politici dellÂ’Unione sulla ricerca, ma formula una missione, quantitativamente misurabile in un arco temporale definito. Sugli altri, un esempio è fornito dal “libero mercato” americano. Il Government Performance and Results Act del 1993 richiede a tutti i laboratori di ricerca pubblici una particolare attenzione allÂ’impatto socio-economico delle attività intraprese per assolvere alle rispettive missioni istituzionali e di produrre tre documenti distinti: un piano strategico relativo a un periodo di cinque anni; un piano e un rapporto annuale di performance. Questo tipo di controllo (detto behavior control) è molto più stringente, e appropriato, dellÂ’opposto modello fondato sul controllo dei risultati (outcome control), cui il sistema Civr può approssimativamente essere ricondotto.
La prospettiva strategica nell’allocazione delle risorse, a differenza del sistema di valutazione Civr, presuppone che le università possano avere obiettivi strategici diversi e, quindi, essere valutate in maniera non necessariamente uniforme. Inoltre, altrettanto importante è riconoscere che le università presentano una peculiarità organizzativa più unica che rara: i suoi membri operano contemporaneamente in due settori di attività, la formazione e la ricerca; addirittura in tre, con l’assistenza sanitaria, negli atenei attivi nelle scienze mediche. A seconda delle competenze distintive di ciascuna università, e dei bisogni contestuali derivanti dalla localizzazione e da altri fattori, potrebbe perciò rivelarsi opportuno differenziare l’enfasi sulle diverse attività o, in ciascuna di queste, perseguire obiettivi diversi o in diversa misura. All’interno della medesima attività, quale la ricerca, si potrebbe poi, privilegiare un’area disciplinare rispetto a un’altra, indipendentemente dal livello di conoscenza nell’area stessa; e potrebbe essere così in un’area geografica del paese e l’opposto in un’altra.
Una modalità di allocazione delle risorse fondata su sistemi rigidi di valutazione come quello proposto dal Civr, non solo non permette di rispondere alle molteplici e diverse esigenze che la complessità di un sistema-paese presenta, ma potrebbe rivelarsi addirittura disfunzionale.

Pubblicazioni contro brevetti

Proviamo a prefigurare lÂ’efficacia di un sistema incentivante basato sulla valutazione Civr. Verosimilmente la reazione di ogni ateneo sarebbe quella di privilegiare nellÂ’allocazione interna delle risorse i suoi champion, per mantenere o migliorare la propria posizione nella classifica nazionale. Ciò è sicuramente un bene, a meno che il champion non svolga ricerca in settori disciplinari non strategici o in cui non esistano imprese italiane in grado di coglierne le ricadute (una recente indagine ha mostrato che accade nel 28 per cento dei casi). Il personale di ricerca tutto, poi, aspirerebbe a diventare champion allÂ’interno della propria università. E ciascun ricercatore tenderà perciò a codificare le nuove conoscenze generate in prodotti “certificati” a livello internazionale, quali gli articoli scientifici nelle riviste con impact factor più alto.
Siamo certi che sia di questo che il nostro paese ha bisogno? Negli anni 1995-2000, nelle università americane, a fronte di spese in ricerca aumentate del 22 per cento, le pubblicazioni scientifiche sono diminuite del 10 per cento; in Canada del 9 per cento, in Olanda del 5 per cento e nel Regno Unito dell’1 per cento. Viceversa, il numero dei brevetti depositati e concessi in licenza dalle università americane e canadesi è cresciuto nello stesso periodo, rispettivamente, del 220 e del 160 per cento.
Nel medesimo arco di tempo, l’Italia ha fatto registrare il più alto tasso di crescita annuale di pubblicazioni tra i paesi del G7, portandoci ai livelli di produttività scientifica di Stati Uniti (e di gran lunga superiore agli altri membri del G7). Si è però ampliato il gap nella produzione brevettuale e nel licensing. Nel 2002, in Italia, i brevetti di titolarità universitaria erano quattro ogni mille ricercatori, nel Regno Unito ventidue, mentre negli Stati Uniti già nel 1999 avevano superato la soglia di quaranta. Le università americane e canadesi concedono in licenza in media il 60 per cento dei brevetti depositati; quelle italiane il 13 per cento.
È stato empiricamente dimostrato che sono per lo più le grandi imprese, e non le piccole, a utilizzare le pubblicazioni scientifiche quali fonte di informazione per lÂ’attività innovativa: con la struttura del nostro settore industriale, si può prevedere che a usufruire “dellÂ’eccellenza” di risultati di ricerca così codificati sarà molto probabilmente la concorrenza straniera più che il sistema produttivo nazionale.
I criteri di valutazione Civr inducono, come è avvenuto negli altri paesi, un cambiamento nella codifica delle nuove conoscenze o, piuttosto, alimentano la tendenza attuale? Qual è il senso di rafforzare un incentivo che è già intrinseco nella comunità scientifica mondiale (ottenere il riconoscimento internazionale dei propri pari) e i cui esiti eccessivi (in concomitanza di una scarsa produzione brevettale) si rivelano controproducenti per l’impatto competitivo e lo sviluppo economico del nostro paese? Cosa accadrà, poi, a quel tipo di ricerca, già di per sé esigua, più finalizzata a soddisfare i bisogni specifici del nostro sistema paese che non a brillare nel firmamento della scienza internazionale?
Un’ultima riflessione meritano le implicazioni indirette di un sistema incentivante. I fondi attuali (di cui non si prevede un incremento) assicurano a malapena la sopravvivenza operativa, ridurli sotto una certa soglia per alcune università potrebbe implicare un ritorno complessivo netto negativo. Non è un motivo per non procedere, ma le cautele devono essere senz’altro maggiori, soprattutto se si considerano i beneficiari finali dell’attività di ricerca di un’università, quali le imprese che gravitano sul territorio, gli studenti e i pazienti. Un esercizio di valutazione, inoltre, non dovrebbe essere finalizzato solo a premiare i migliori, ma anche a capire perché alcune strutture sono meno efficienti di altre ed eventualmente intervenire con misure correttive, il che non si traduce sempre e necessariamente in un’allocazione di minori risorse.

Lo strumento di valutazione

In merito all’efficienza dello strumento di valutazione proposto mi limiterò solo ad alcune osservazioni di carattere generale.

· Le risorse finanziarie appaiono nei criteri di valutazione solo come output e non come input (la produttività del lavoro non viene normalizzata rispetto al capitale).

· Il processo di valutazione, sofisticato a valle, lo è molto meno a monte. Mentre gli esperti esterni valutano comparativamente prodotti afferenti al medesimo settore, la selezione interna avviene tra prodotti afferenti ad aree disciplinari diverse, il che non è affatto semplice. In più, la selezione interna potrebbe essere condizionata da fattori estrinseci alla qualità del prodotto, la posizione o il potere degli autori all’interno dell’organizzazione.

· È possibile che in un’area disciplinare, a parità di ricercatori, un’università che presenti n prodotti valutati eccellenti risulti migliore di un’altra con n prodotti eccellenti e i buoni.

· La dimensione di riferimento, nei quattro raggruppamenti delle classifiche di area, non è relativa agli addetti, bensì al numero di prodotti, scelti arbitrariamente da ciascuna università per area disciplinare. Pur volendo considerare la ripartizione dimensionale delle università per addetto, essa andrebbe legittimata dimostrando la presenza di rendimenti di scala costanti del lavoro all’interno di ciascuna classe, ma diversi per classe. A questo punto sarebbe anche lecito chiedersi, però, se esistano vantaggi di diversificazione (numerosità delle aree disciplinari nella singola università).

Il modello proposto dal Civr, con gli opportuni miglioramenti e integrato con misurazioni più o meno automatizzate di produttività a più ampio spettro, potrebbe rivelarsi uno strumento utile, seppur molto costoso, ai fini di un benchmarking tra istituzioni. Utilizzarlo, invece, quale strumento discriminante per l’allocazione delle risorse potrebbe essere, a mio avviso, iniquo, inappropriato e, forse, anche controproducente per il sistema-paese.

Un Iit impegnativo

Per fare il punto sull’attività e gli obiettivi dell’Istituto Italiano di Tecnologia, lo scorso 28 aprile abbiamo sottoposto ai vertici dell’Istituto una scheda di sintesi degli impegni presi nel corso degli ultimi due anni. Ospitiamo oggi l’intervento di replica del Presidente
dell’IIT Vittorio Grilli; altre notizie sono disponibili sul sito www.iit.it  nei due comunicati stampa del 3 e del 9 maggio

Un giudizio sul Civr

Il Civr è stato un successo, riuscendo a valutare in breve tempo un gran numero di prodotti e contribuendo a mettere in moto un processo salutare all’interno dell’università italiana. Tanto che si suggerisce di renderlo annuale. Cosicché le strutture possano aggiustare politiche e incentivi con maggiore gradualità e vedere rapidamente l’esito del lavoro svolto. Non mancano però opinioni che invitano a inserire la valutazione Civr in un sistema di indicatori capaci di intercettare le diverse dimensioni della qualità di un dipartimento e la loro evoluzione nel tempo. Nuovi interventi di Franco Peracchi, Giovanni Abramo e Roberto Tamborini.

Idee per lo sviluppo nelle due coalizioni

I tre zeri nella crescita del Pil, della produttività e delle ore lavorate nel 2005 hanno messo in evidenza quanto sia urgente il ritorno alla crescita per l’economia italiana. I programmi delle due coalizioni per le elezioni 2006 presentano rilevanti differenze nelle ricette su come rilanciare lo sviluppo. Ma, più che in altri campi, sulle terapie per ritornare a crescere si possono anche individuare convergenze. Per esempio, ci si può aspettare da chiunque vinca un perfezionamento delle misure di liberalizzazione del mercato del lavoro.

Un passo nella giusta direzione

E’ un fatto positivo che la valutazione della ricerca nelle università italiane abbia avuto luogo e che le linee guida si riferissero a standard di eccellenza internazionali. Il suo limite principale è la mancanza di un chiaro legame con la riallocazione di risorse finanziarie a favore delle università migliori. Perché se il punteggio basso di un ateneo può contribuire a dare più voce ai ricercatori di qualità, certamente un incentivo economico sarebbe stato più potente. Considerazioni analoghe si applicano anche a chi sta in cima alla classifica.

Identikit dell’Agenzia per la ricerca scientifica

L’Italia spende in ricerca la metà della media dei paesi europei. Ma non solo le risorse sono poche, sono anche mal gestite. Per questo sarebbe bene istitutire una Agenzia per la ricerca scientifica. Con il compito di essere un elemento di stimolo, di rinnovamento e di qualificazione della ricerca scientifica italiana. Dovrebbe essere una struttura agile e organizzata con modalità multidisciplinari. I progetti di ricerca prescelti dovrebbero essere finanziati per il loro effettivo costo, evitando finanziamenti a pioggia. E valutati anche in itinere.

La lunga marcia dell’istruzione

Un nuovo approccio di ricerca mostra che non è la spesa in istruzione di un paese a determinare i risultati scolastici dei suoi studenti. Il fattore fondamentale è il livello generale di efficienza del settore pubblico. Perciò riforme parziali del sistema educativo volte ad accrescere la trasparenza o la concorrenza nella distribuzione delle risorse, seppur positive, avranno solo un impatto limitato. Da ripensare e rendere più efficiente è la pubblica amministrazione. Un obiettivo che richiede tempo e un consenso generale.

Il debole legame tra nuove tecnologie e produttività nell’economia italiana

NellÂ’economia italiana la tecnologia si diffonde lentamente e, se si diffonde, provoca scarse ricadute produttive. EÂ’ un problema di non facile soluzione. Ci vogliono lavoratori e imprese con caratteristiche diverse da quelle oggi prevalenti nellÂ’economia italiana. Di sicuro, questi problemi strutturali non sono stati nemmeno scalfiti da politiche di incentivazione come i sussidi allÂ’acquisto dei PC degli ultimi anni.

Alla ricerca di nuove specializzazioni

I paesi a più alto tasso di crescita sono quelli che hanno saputo trovare nuove specializzazioni. Per l’Italia dovremmo perciò riflettere su un “Progetto di sperimentazione industriale su larga scala”. Non risolverà tutti i nostri problemi industriali, ma dovrà rappresentare un metodo nuovo di ricerca e di lancio di nuove specializzazioni fondato sull’imprenditorialità, mirato soprattutto a chi ha ambizioni e idee più che denaro. Quanto alle risorse, finanziarie e umane, si dovranno probabilmente coinvolgere banche e giovani imprenditori stranieri.

Quale ricerca economica in Europa

Quali sono le prospettive di finanziamento della ricerca economica in Europa? Non troppo rosee, soprattutto se confrontate con l’esperienza americana. Per migliorare la situazione, gli economisti europei dovrebbero diventare migliori “politici”. Dovrebbero imparare a suscitare interesse e apprezzamento da parte di un pubblico ampio e a utilizzare i mezzi di informazione e le tecniche di comunicazione. Soprattutto, dovrebbero riuscire a sollecitare quella amplissima domanda, pubblica e privata, di conoscenza dei fatti economici che è in gran parte ancora latente.

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