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I dati sul federalismo? Solo per pochi intimi

È da aprile che il Ministero dell’Interno ha sospeso la fornitura in modalità download dei dati relativi ai bilanci dei comuni e delle province italiani, disponibili in precedenza sull’Osservatorio della Finanza Locale nel sito del ministero. I dati possono ancora essere scaricati, ma bisogna prendere i quadri di bilancio per ogni singolo comune o provincia e poi, se necessario, riaggregarli assieme. Per chiunque voglia fare analisi comparate sulla finanza degli enti locali italiani (ricercatori, funzionari e politici locali, semplici cittadini), uno spreco di tempo enorme, e tale spesso da rendere il lavoro semplicemente impossibile. A meno che non si abbia qualche “santo in paradiso”, nel caso concreto un qualche funzionario amico al ministero, che per pura cortesia si scarica di persona i dati e poi te li spedisce. Il ministero non ha offerto alcuna spiegazione per l’interruzione del servizio; si è inizialmente pensato a qualche problema tecnico, ma ormai sono passati sei mesi e neppure il più incapace dei tecnici avrebbe potuto metterci tanto.  Da notare che esistono viceversa imprese private, che a pagamento, offrono banche dati complete e che risultano al momento molto gettonate.
Una delle frasi preferite del senatore a vita Giulio Andreotti è, come noto, che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. Noi non vogliamo pensar male, ma la convergenza tra una riforma federale pasticciata e la scomparsa dei numeri che potrebbero consentire di valutarla solleva qualche interrogativo.  Si noti anche che uno degli obiettivi della riforma federale, come evidenziato nella Relazione sul Federalismo Fiscale pubblicata il 30 giugno 2010 è proprio quello di “assicurare il completo scambio di informazioni e la piena trasparenza nel monitoraggio di azioni e risultati” . Ma il primo passo per consentire la trasparenza è proprio l’accesso universale al dato, senza il quale non c’è né monitoraggio né critica razionale possibile.

PONIAMO DUNQUE UNA SEMPLICE DOMANDA ALL’ONOREVOLE ROBERTO MARONI:

Signor ministro, quando pensa di rendere nuovamente accessibili a tutti gli interessati i dati sui bilanci degli enti locali?

La risposta ai commenti

1.  Sembra chiaro ormai, anche se non sta scritto nella bozza di decreto, che i cosiddetti “costi standard” serviranno a ridurre il budget del SSN, a partire dal 2013. Il budget 2012, già approvato, è di 110 mld di euro, ma quello del 2013 – ottenuto applicando i “costi standard” delle 3 regioni virtuose –potrebbe rimanere inchiodato a 110 mld o persino scendere a 109 mld. Lo accetteranno le regioni? Non era forse chiaro dall’’articolo, ma ben presente nel testo del decreto, che il fabbisogno nazionale è fissato a priori dal governo, compatibilmente con le variabili macroeconomiche e i vincoli comunitari
Per chi non avesse afferrato, lo scoop sta nel fatto che, secondo le numerose dichiarazioni ascoltate, –il costo standard dovrebbe guidare la distribuzione delle risorse tra le regioni –(e non è vero, come dimostrato nell’’articolo) mentre guida semmai la riduzione del fabbisogno nazionale, che è tutt’’altra cosa. La riduzione penalizzerà, in proporzione, tutte le regioni. Se si voleva ridurre la spesa delle regioni inefficienti, questo non succederà, perché continueranno a ricevere la stessa quota di oggi.
2.   C’’è un equivoco da chiarire, che è fonte di molte incomprensioni: quello secondo cui i costi standard bassi sono sinonimo di efficienza e quelli alti di inefficienza. I costi standard, invece, non sono altro che il fabbisogno finanziario medio per abitante (o quota capitaria pesata) – sta scritto nel decreto, art. 22 comma 5 –che è l’’ammontare di risorse eque e necessarie per ogni regione, data la sua struttura demografica e i suoi bisogni sanitari. La quota capitaria è calcolata presupponendo un’’efficienza media eguale in tutte le regioni ed è crescente in funzione dell’’età. Il decreto governativo afferma invece che sono efficienti solo le regioni che chiudono i bilanci in pareggio. Siccome, di fatto, solo 5-6 regioni del nord, con popolazione giovane e molta spesa privata, che alleggerisce la pressione sul pubblico, chiudono alla pari, si assumono come regioni efficienti e virtuose. Ma questo è un falso ideologico: sono efficienti, data la loro struttura demografica giovane. Efficiente potrebbe essere anche una regione anziana, come la Liguria, che ha la quota capitaria massima: allora dovremmo assumere questo valore come costo standard efficiente e aumentare il budget del SSN? Applicare il fabbisogno medio delle regioni benchmark  chiunque esse siano –è un’’operazione in ogni caso illegittima e distorsiva.
Non condivido quindi la posizione che questo metodo sia comunque un passo in avanti: è invece una regressione, non ha fondamento teorico e non è presente in nessun paese con sistema sanitario decentrato o federale. Vorrà dire qualcosa?
3.   Da alcuni commenti traspare una certa confusione tra i costi standard per prestazione, come molti pensano e la L 42/09 autorizza a pensare, e i costi standard per abitante, come invece fa il decreto attuativo. Ciò che tutti hanno in mente, salvo poi aggiungere che è inattuabile, è l’’idea di un costo standard per prestazione (un ricovero, una visita, una certa dose di farmaci). Questo metodo (analitico) porterebbe a risultati simili a quelli voluti dalla bozza di decreto. E sarebbe molto più trasparente per i rapporti tra Stato-Regioni e tra Regioni-cittadini. Aprirebbe però la strada a chiedersi anche quante prestazioni debba comprendere lo standard. E’ un’’operazione comunque fattibile, a dispetto dei molti scettici (ho effettuato una simulazione a questo proposito), anzi viene già compiuta con la ponderazione della popolazione e lo si può dimostrare facilmente. Vogliamo parlarne?

Il nuovo fisco regionale? Quello di prima

Nel decreto omnibus sul federalismo fiscale approvato dal governo è delineato anche il sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario. I tributi disponibili restano quelli di oggi: Irap, addizionale Irpef, compartecipazione Iva, con qualche margine di manovra in più, seppure sotto il vincolo di non aumentare la pressione fiscale generale. Sul sistema perequativo delle Regioni, lo schema di decreto aggiunge poco a quanto detto dalla legge delega. Scioglie alcuni ma non tutti i dubbi e suscita però anche nuovi interrogativi.

Se il costo standard diventa inutile

Il governo ha approvato la bozza di decreto sui costi standard in sanità. Saranno applicati solo dal 2013 e potrebbero aprire la strada a tagli al budget del Sistema sanitario nazionale. Ma la vera sorpresa è che i costi standard diventano irrilevanti per la ripartizione dei fondi e per stimolare l’efficienza delle Regioni, tanto che lo stesso risultato si può ottenere applicando qualsiasi costo standard, basso o alto.

Costi standard: nome nuovo per vecchi metodi

La vera partita del federalismo fiscale si gioca sulla finanza regionale e in particolare sulla definizione dei costi standard nella sanità. Nel decreto presentato dal governo, il sistema di definizione del fondo sanitario e i meccanismi di riparto restano sostanzialmente quelli già in vigore da oltre dieci anni. E anche i nuovi costi standard-criteri di riparto sono gli stessi già adottati in passato. Mentre scompare il periodo di transizione. Si rischia così di favorire la conflittualità fra le Regioni e la discrezionalità della peggiore politica.

Cedolare con molti difetti

L’introduzione della cedolare secca farà probabilmente emergere parte dei redditi da affitto finora non dichiarati al fisco, grazie al contrasto di interessi che si crea tra proprietario e inquilino. Difficilmente invece riuscirà ad ampliare l’offerta di case in locazione, anche perché si applica solo alle persone fisiche. Mentre mette la parola fine al tentativo di abbassare i canoni attraverso la leva fiscale. Gli effetti sui comuni.

La risposta ai commenti

Rispondo ai gentili contributi dei lettori del mio post per condividere essenzialmente le osservazioni espresse. Attivare politiche di sviluppo a livello locale significa in effetti promuovere la sinergia tra strategie e interventi volti a raggiungere obiettivi condivisi tra più enti e portatori di interessi a livello locale.
E’ quindi naturale che premessa indispensabile alla realizzazione del processo sia l’’acquisizione della consapevolezza del problema, delle sue manifestazioni e quindi una individuazione delle possibili soluzioni.
E’’ vero come sottolinea la Sig.ra Daniela che tale consapevolezza non va data per scontata e che subiamo il retaggio di un sistema di welfare standardizzato che in parte ha inibito la capacità dei singoli e delle organizzazioni di vedere i problemi ed elaborare soluzioni e in parte ne ha spesso indotto una metabolizzazione o assuefazione per cui non si riconosce il problema dal momento che da troppo tempo ci si è abituati a risolverlo alla meno peggio e mi riferisco in particolare alla tendenza di madri e famiglie a sottovalutare il problema della lotta che, quotidianamente,  ciascuno di noi combatte contro il tempo e contro il portafoglio per conciliare i propri oneri di cura e di lavoro.
Ma i tempi cambiano e a volte è proprio l’’assenza preordinata di risposte e risorse che può modificare la domanda stessa. Ciò non significa che il bisogno non esistesse anche prima. Le donne oggi non sono più in grado, come lo sono state le loro madri e le loro nonne, di reggere il peso di un welfare deficitario che le considera ancora depositarie del senso di responsabilità e quindi deputate a prendersi cura degli altri ma nemmeno sono in grado di reggere il peso di un sistema economico che le vuole presenti, disponibili, competitive e flessibili.
Le donne, appunto, sono ancora poco capaci di rappresentarsi ed essere rappresentate. Ancora troppo impegnate nella gestione degli impegni quotidiani tendono ad essere trascurate dallo stesso sindacato al quale faticano ad appartenere e partecipare. La contrattazione sindacale e i relativi accordi raramente affrontano il problema della conciliazione famiglia-lavoro se non nelle grandi realtà aziendali. Servirebbero politiche di gestione del part-time, introduzione della flessibilità oraria, della personalizzazione degli orari di lavoro in base alle necessità dei singoli, benefit e voucher per le spese di istruzione e accudimento figli. Servirebbero accordi che definiscono gli impegni aziendali e i diritti dei lavoratori ma anche accordi che ristabiliscono l’’alleanza tra datori di lavoro e lavoratrici al fine di abbattere il costo del lavoro e defiscalizzare le politiche di valorizzazione del capitale umano.

Federalismo: a che punto siamo?

In allegato la presentazione tenutasi, il 15 settembre 2010, al convegno a porte chiuse per i sostenitori de lavoce.info

La politica degli slogan sui dipendenti pubblici

La manovra economica dell’estate 2010 rivela ancora una volta le incoerenze del legislatore nel tentativo di riorganizzare e dare efficienza all’amministrazione pubblica. Almeno tre aspetti della manovra sono in evidente contrasto con la riforma Brunetta, entrata in vigore nemmeno un anno fa. Rimborsi negati a chi utilizza la propria auto per ragioni di servizio, dimezzamento degli investimenti in formazione e rinuncia agli incentivi economici mostrano come la ricerca di maggiore produttività, così come la meritocrazia, non siano altro che slogan.

La risposta ai commenti

Sono piacevolmente sorpresa dell’’interesse suscitato da un pezzo che riporta il dettaglio degli studi scientifici sugli effetti dell’’inquinamento dell’’aria sulla salute umana.
Naturalmente, l’’interesse maggiore è centrato sulle possibili soluzioni da adottare per contenere questo fenomeno. Mi sembra interessante ed estremamente attuale quanto osservato da Giuseppe Caffo, che sottolinea la necessità di scelte importanti quando la difesa della salute sembra essere in contraddizione con gli interessi del settore produttivo, a meno di rilevanti innovazioni.
Dello stesso tenore è il commento di Marco Spampinato, che richiama l’’attenzione sulla necessità di valutare l’’efficacia degli interventi mirati a migliorare la qualità dell’’aria. Approfitto del suo commento per ricordare che la valutazione di efficacia di questi interventi è attualmente orientata, a livello internazionale (Health Effect Institute), su cinque tematiche che vanno dal bando del carbone come combustibile, ad interventi complessi di lungo termine e di largo raggio che riguardano più di un paese (1) . La riduzione del traffico è inclusa tra le tematiche ma, fino ad ora, le tante soluzioni adottate, non sempre confrontabili tra loro, hanno prodotto risultati non univoci, come nell’’ultima esperienza londinese, nota come “London Congestion Charge” (2).
Il commento di Bruno Stucchi, anche se improntato ad una intolleranza direi antigalileiana, mi dà l’’opportunità di fare qualche considerazione sui criteri di causalità (originariamente fissati da Bradford-Hill) che si utilizzano anche negli studi epidemiologici. L’’ultimo di questi criteri, e forse il più intrigante, dice che, rimossa la causa di una patologia, la sua frequenza dovrebbe ridursi. Anche nel nostro caso, come suggerisce anche Fabrizio Balda, il risultato atteso, quando si riduca la concentrazione del particolato (PM10), è un miglioramento dello stato di salute della popolazione. Allo stesso principio si ispirano le direttive della Comunità Europea nell’’adottare limiti sempre più ridotti per la concentrazione degli inquinanti atmosferici.
Per questa ragione lo stesso gruppo di ricercatori ha proposto un secondo progetto (EPIAIR2), che è stato approvato dal Ministero della Salute ed è appena iniziato. L’’obiettivo è quello di misurare, nelle stesse aree, l’’effetto degli inquinanti atmosferici nel periodo 2006-2009, durante il quale si è registrata una riduzione del particolato. Il progetto, che sarà coordinato da ARPA Piemonte, presenta tre novità importanti: 1) include altre città rispetto alle 10 originarie, in modo da ottenere una migliore rappresentatività a livello nazionale; 2) stima gli effetti della frazione fine del particolato (PM2.5), di cui non erano disponibili a dati per il 2001-2005 e che rappresenta la frazione più attiva rispetto agli effetti sulla salute; 3) utilizza anche dati di caratterizzazione chimica del particolato. Questa scelta si ispira ai risultati dei più recenti studi internazionali che hanno evidenziato la possibilità di effetti sanitari importanti anche dopo riduzione della concentrazione del particolato. L’’ipotesi di diversi ricercatori sia in USA che in Europa è che la composizione chimica del particolato possa spiegare questo andamento.
Da lettrice appassionata della Domenica quiz (spero non me ne vogliano i lettori della Settimana enigmistica per questa storica rivalità) devo spezzare una lancia a favore delle riviste di enigmistica. Non vi troverete i risultati dei più recenti studi scientifici, e neanche del nostro EPIAIR, ma i giochi che propongono irrobustiscono la capacità logica che molto contribuisce ad un approccio scientifico ai problemi.

(1) Annemoon M. M. van Erp, Robert O’Keefe, Aaron J. Cohen, and Jane Warren. Evaluating the Effectiveness of Air Quality Interventions. Journal of Toxicology and Environmental Health, Part A, 2008; 71: 583–587.
(2) C Tonne, S Beevers, B Armstrong, F Kelly, P Wilkinson. Air pollution and mortality benefits of the London Congestion Charge: spatial and socioeconomic inequalities. Occupational and Environmental Medicine 2008; 65:620-627

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