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UNA MAPPA PER TROVARE LAVORO

Una tecnica avanzata della Geographic Information Systems permette di realizzare modelli spaziali che consentono di conoscere con estrema precisione dove si concentri un determinato fenomeno socio-economico. Per esempio, è possibile indicare in maniera dettagliata dove si trova lavoro. E dunque utilizzando le mappe di densità si possono elaborare politiche per il lavoro più efficaci. In particolare, si può migliorare la fase di orientamento al lavoro dei giovani. E anche aiutare chi, a qualunque età, è alla ricerca di un impiego. A un costo praticamente nullo.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo i lettori per l’’interesse dimostrato nei confronti del nostro articolo e per la possibilità che ci offrono di chiarire alcuni punti che per forza di cose in un articolo breve non possono essere affrontati appieno.

L’ATIPICITÀ E I SUOI DERIVATI

Gli impieghi atipici non hanno ridotto la disoccupazione, hanno solo aumentato la flessibilità e la precarietà. La crisi poi ha rallentato i processi fisiologici di trasformazione dei contratti atipici in tipici, mentre sono significativi gli incrementi dei flussi dall’atipicità verso la disoccupazione. La riforma Fornero vuole contrastare il lavoro autonomo falso e aumentare il costo della flessibilità in entrata. Ma in ogni caso i prossimi governi dovranno fare precise scelte a favore dei giovani e dei più marginali perché il lavoro “cattivo” non aiuta la crescita.

GIOVANI DISOCCUPATI ITALIANI TRA MITO E REALTÀ

I recenti dati Eurostat hanno fatto gridare all’allarme disoccupazione giovanile. Ma un tasso di disoccupazione del 33 per cento vuol solo dire che un giovane su tre, tra quelli che hanno cercato lavoro, non l’ha trovato. Ed è un dato tutto sommato costante per il nostro paese. Quello che è troppo basso è il tasso di attività: solo il 29 per cento dei giovani italiani partecipa al mercato del lavoro. Ancora più preoccupante è quel 19 per cento di “Neet”, ovvero di giovani che non lavorano né studiano. Ed è su di loro che dovrebbe concentrarsi l’attenzione della politica.

IL RISCHIO DI LAUREARSI IN RITARDO

Laurearsi con oltre tre anni di ritardo raddoppia il rischio medio di svolgere un lavoro che non richiede la laurea e comporta una retribuzione salariale di circa il 17 per cento inferiore a quella di chi ha completato il corso nei tempi previsti. Perché gli anni persi all’università non accrescono la dotazione di capitale umano. Per attenuare il fenomeno dei fuoricorso, si potrebbero modificare alcune regole sugli esami universitari. E il sistema di apprendistato potrebbe essere utilizzato per promuovere la formazione professionale dei laureati sul posto di lavoro

 

In Italia, la percentuale di studenti che si laurea oltre la durata legale prevista è altissima: i fuoricorso rappresentano una quota pari almeno al 40 per cento degli studenti iscritti e oltre il 50 per cento dei laureati.
Al fenomeno sono associate alcune conseguenze economiche che meritano una riflessone, quali il rischio di subire penalità salariali e di essere maggiormente overeducated – ovvero di svolgere un’ttività lavorativa per la quale il titolo conseguito non è necessario e di ricevere indirettamente una penalità salariale aggiuntiva.
Il motivo per cui il ritardo nel conseguire la laurea faciliterebbe l’overeducation è duplice: da un lato, potrebbe causare un depauperamento del capitale umano acquisito; dall’altro, potrebbe essere percepito dal datore di lavoro come un segnale di scarsa motivazione, capacità e produttività e pertanto utilizzato come strumento di selezione negativa per discriminare fra i vari candidati.

IPOTESI TEORICHE E RISULTATI EMPIRICI

In uno studio che abbiamo condotto su un campione di laureati appartenenti a ogni classe di età, estratto dai dati Isfol-Plus, sono stati analizzati i due effetti salariali (diretto e indiretto) del ritardo alla laurea. (1)
Vi sono due spiegazioni plausibili riguardo agli effetti del ritardo alla laurea sull’overeducation e sui salari che, seguendo un approccio proposto per la prima volta da Wim Groot e Hessel Oosterbeek (1994), sono state testate l’una contro l’altra: a) la teoria del capitale umano;
b) l’ipotesi di selezione (screening hypothesis). (2) Se dovesse prevalere il modello del capitale umano, il ritardo alla laurea dovrebbe contestualmente ridurre o avere effetti nulli sulla probabilità di essere overeducated e accrescere i salari individuali perché gli anni spesi in più per il conseguimento del titolo dovrebbero determinare un aumento complessivo della dotazione individuale di conoscenze acquisite. Nel contesto dell’ipotesi di selezione, invece, il ritardo comporterebbe sia un rischio maggiore di svolgere un lavoro per il quale la laurea non è richiesta, sia una penalità salariale, perché il ritardo segnalerebbe una minore produttività e preparazione di questi individui.
L’esercizio empirico risulta essere in linea con i risultati attesi dall’ipotesi di selezione. Gli anni di ritardo, infatti, aumentano la probabilità di essere overeducated e nel contempo determinano salari più bassi. In particolare, l’effetto dell’essersi laureato con oltre tre anni di ritardo raddoppia il rischio medio di svolgere un lavoro che non richieda la laurea e comporta una retribuzione salariale  di circa il 17 per cento inferiore a quella di coloro che hanno completato gli studi universitari nei termini previsti.

È interessante notare che, sebbene concettualmente simili, gli anni relativi alle bocciature a scuola sembrano invece confermare l’ipotesi opposta: quella del capitale umano. Ciò suggerisce che ripetere un anno a scuola porta a un miglioramento della preparazione acquisita in quanto in questo caso lo studente deve necessariamente impegnarsi di più per essere ammesso all’anno successivo.

UN FENOMENO DA COMBATTERE

Il ritardo alla laurea è un fenomeno assai comune fra i laureati italiani e persistente nel tempo, l’esistenza di una penalità salariale associata al fuoricorsismo può dunque contribuire alle spiegazioni esistenti dei bassi rendimenti dell’istruzione tipici dell’Italia , arricchendo in particolare quelle dal lato dell’offerta. (3) In altri termini, secondo questa interpretazione, i bassi rendimenti dell’istruzione terziaria sarebbero in parte una conseguenza della sua bassa qualità e dell’inefficienza del sistema di istruzione nel generare un’offerta di capitale umano nella quantità e qualità che sia effettivamente richiesta dal mercato del lavoro. Ciò fa sì che il mercato remuneri meno di quanto potrebbe questo capitale umano.
I nostri risultati possono servire da monito anche per quei paesi, come gli Stati Uniti e i paesi del Nord  Europa, dove il ritardo alla laurea sta divenendo un fenomeno sempre più diffuso.
Rimuovere le cause del ritardo alla laurea potrebbe contribuire a: a) ridurre la quota di overeducation; b) aumentare i rendimenti medi dell’istruzione terziaria e, pertanto, accrescere l’incentivo a investire in accumulazione di capitale umano; c) ridurre gli sprechi di risorse causati da questi fenomeni e l’inefficienza del sistema di istruzione terziario.

NUOVE REGOLE PER GLI ESAMI

I risultati suggeriscono che gli anni persi all’università sono sostanzialmente inefficienti, in quanto non accrescono la dotazione di capitale umano né tantomeno le performance nel mercato del lavoro. La ragione risiede probabilmente nel fatto che quando si ritarda la laurea (e non perché si stia svolgendo in contemporanea un’attività lavorativa), non c’è alcuna garanzia che quegli anni siano stati spesi studiando e approfondendo ulteriormente i concetti relativi alle varie discipline oggetto del corso di studi prescelto, ovvero aumentando il proprio capitale umano. In effetti, solo alcuni studenti interpretano l’opportunità di poter sostenere di nuovo l’esame come uno stimolo per migliorare la propria conoscenza, mentre la gran parte cerca di superarlo anche quando presenta ancora marcate lacune nella preparazione, semplicemente perché si attende che i professori li promuovano dopo averli riprovati già un certo numero di volte.
Tutto ciò suggerisce che la rimozione o almeno una riduzione significativa dei fuoricorso consentirebbe un miglioramento per tutti, sia all’interno del sistema universitario sia nel mercato del lavoro. Proviamo a suggerire alcune regole che potrebbero ridurre il fenomeno del fuoricorsismo senza alterare la qualità della formazione universitaria: a) stabilire un limite al numero di volte in cui si può sostenere un esame; b) calibrare il programma degli esami in base a oggettive considerazioni in merito alla possibilità dello studente di poterlo preparare nei termini previsti; c) dare la possibilità al docente di assegnare un pass, ovvero un voto inferiore alla sufficienza in caso di bocciature ripetute; d) consentire la bocciatura dell’intero percorso (e quindi impedire di laurearsi) se la media dei voti finale non raggiunge la sufficienza oppure se c’è un numero troppo alto di pass.
Una volta che lo studente si è ormai laureato fuoricorso, si dovrebbe poi cercare di facilitare il matching nel mercato del lavoro, limitando almeno in parte il rischio di essere overeducated. Ad esempio, corsi di formazione professionale sul posto di lavoro potrebbero consentire ai giovani laureati di accrescere il loro capitale umano grazie all’esperienza lavorativa. E il sistema di apprendistato potrebbe essere utilizzato in questa direzione.

(1) Aina, C. e F. Pastore, 2012, “Delayed Graduation and Overeducation: A Test of the Human Capital Model versus the Screening Hypothesis”, IZA discussion paper, n° 6413. Si può scaricare al sito: http://ftp.iza.org/dp6413.pdf. Il campione utilizzato non include gli individui che svolgevano una qualsiasi attività lavorativa durante il percorso di studi universitari.
(2) Groot, W. and H. Oosterbeek (1994), “Earnings Effects of Different Components of Schooling; Human Capital versus Screening”, The Review of Economics and Statistics, 76 (2): 317.321.
(3) Per una rassegna della letteratura sui rendimenti dell’istruzione, si vedano Giorgio Brunello, Simona Comi e Claudio Lucifora, 2001 e, più di recente, Naticchioni, Ricci e Rustichelli (https://www.lavoce.info/articoli/pagina1000709-351.html)

CALA ANCORA L’OCCUPAZIONE DIPENDENTE

I dati del primo trimestre 2012 rimandano un quadro molto negativo per l’occupazione. Il riacutizzarsi delle perdite di posti di lavoro iniziato nell’estate 2011 è proseguito anche nei mesi successivi. Le assunzioni sono scese del 3,2 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. I licenziamenti collettivi rimangono sui livelli consueti, ma quelli individuali nelle piccole imprese tornano in forte crescita. In diminuzione del 4 per cento anche i contratti di lavoro parasubordinato. Forse è tempo di pensare a politiche del lavoro eccezionali.

MOBILITÀ SOCIALE: IN ITALIA È FERMA

Il Rapporto Istat 2012 evidenzia un netto peggioramento delle opportunità di riuscita sociale e occupazionale dei giovani. Per tutto il ventesimo secolo la mobilità sociale in Italia è stata piuttosto elevata e ha accompagnato il periodo della crescita economica. Ora molti giovani, seppure istruiti, hanno un lavoro che li colloca in una classe sociale più bassa di quella del padre. Serve più meritocrazia nella selezione per le varie posizioni occupazionali. Ma anche politiche pubbliche per emancipare i giovani dalla troppo lunga dipendenza materiale dalla famiglia d’origine.

FLUSSI BLOCCATI

Il governo rinuncia quest’anno all’emanazione del decreto flussi, se non per lavoro stagionale. È una decisione sbagliata. Perché sottintende che agli immigrati non si debba riconoscere l’aspirazione a conciliare lavoro e famiglia, a cercare posti di lavoro migliori, a evitare faticosi trasferimenti. Inoltre, la previsione di quote di ingressi regolari per lavoro è uno strumento di politica migratoria. Infine, i decreti flussi sono sanatorie mascherate, per mettere in regola lavoratori già presenti in Italia. Davvero sono un lusso che non possiamo più permetterci?

VERSO UN NUOVO DUALISMO: PRIVATI CONTRO PUBBLICI

Il principale difetto della riforma Brunetta era il rilievo assoluto dato alla valutazione individuale, con fasce di valutazione definite per legge e deresponsabilizzazione della dirigenza. Il ministro Patroni Griffi rinnega quella proposta, ma sembra voler distanziare quanto più possibile il pubblico impiego dalla nuova normativa del settore privato, per esempio nella disciplina dei licenziamenti. Un impiego pubblico più efficiente deve invece basarsi su un sistema premiale, con obiettivi chiari e misurabili, nel quale ciascuno si assume le proprie responsabilità. A partire dal ministro.

UNA CONTRORIFORMA PER IL PUBBLICO IMPIEGO

È una vera e propria controriforma del lavoro pubblico l’intesa tra ministero della Funzione pubblica e organizzazioni sindacali. Il nuovo accordo da una parte mira a cancellare definitivamente il sistema di valutazione per fasce. Dall’altra, vuole introdurre deroghe per evitare che si applichino anche ai lavoratori pubblici le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori previste dalla riforma Fornero. Si rischia così di creare un dualismo insanabile tra lavoro pubblico e privato, rafforzando le tutele del primo, mentre si cerca di flessibilizzare il secondo.

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