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Categoria: Lavoro Pagina 77 di 113

Ma la formazione continua paga

Se la formazione professionale per lavoratori disoccupati è poco efficace, le cose vanno meglio con la formazione continua degli occupati. Chi vi partecipa ottiene retribuzioni notevolmente più elevate, in particolare nelle piccole e medie imprese. Perché l’incentivo a finanziare corsi inutili e fittizi è minore e soprattutto perché è un tipo di formazione che avviene spesso in azienda. I sussidi pubblici sono gestiti dalle Regioni. Così nel periodo 1994-2005 la spesa per abitante varia dai 22,6 euro della Regione Calabria ai 286,7 euro del Trentino Alto Adige.

 

Le nuove norme sulle controversie di lavoro

A seguito del rinvio al Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, il 29 settembre 2010 il Senato ha approvato in sesta lettura il Disegno di legge 1167 B–bis, avente a oggetto, tra l’’altro, anche una riforma del codice di procedura civile in materia di processo del lavoro. Tornato alla Camera, esso è stato infine approvato definitivamente, in settima lettura, il 19 ottobre 2010.
È un provvedimento eterogeneo di difficile consultazione, frutto di una complicata stratificazione normativa che dà seguito solo in parte alle indicazioni del Presidente della Repubblica del 31 marzo scorso.
Questa breve nota si propone di mettere in evidenza i punti salienti delle modifiche approvate al Senato rinviando, per il resto, alle osservazioni già svolte a suo tempo, su queste pagine in riferimento al testo legislativo licenziato dal Parlamento in quarta lettura (prima del rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica).

VALUTAZIONE DELLE MOTIVAZIONI DEL LICENZIAMENTO

(art. 30 comma 3) – alla Camera è stato modificato il comma 3 dell’’art. 30 rubricato Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro. Questa norma, confermata dal Senato, elimina il riferimento alle “fondamentali regole del vivere civile” e all’“’oggettivo interesse dell’’organizzazione”, indicato come parametro legale di valutazione giudiziale delle motivazioni del licenziamento. L’’inciso era stato oggetto di forti critiche: si era infatti osservato che la norma, così formulata, era destinata ad allargare notevolmente la discrezionalità del giudice, consentendogli di decidere la controversia facendosi egli stesso interprete finale “dell’’interesse oggettivo dell’’organizzazione aziendale”.

 ARBITRATO IRRITUALE SECONDO EQUITÀ

(art. 31, comma 5 e comma 7) – è stata confermata la norma approvata alla Camera dei deputati, che impone come condizione di validità del lodo, nell’’arbitrato di equità, il rispetto non soltanto dei principi generali dell’’ordinamento, ma anche “dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”. Questa disposizione ha l’’effetto di ridurre la discrezionalità dell’’arbitro nel giudizio di equità, perché, oltre ai regolamenti comunitari, anche molte direttive possono considerarsi di immediata applicazione e non derogabili.
Il lodo emanato a conclusione dell’’arbitrato irrituale non è impugnabile, come non lo sono le rinunzie e transazioni stipulate dal lavoratore in sede sindacale, amministrativa o giudiziale, a norma dell’art. 2113, comma 4 c.c.. Il lodo è bensì annullabile dal giudice competente, ma soltanto per i vizi indicati nell’’art. 808 ter c.p.c. in materia di arbitrato irrituale.
Inoltre, è stato eliminato ogni riferimento all’’art. 829, commi quarto e quinto, c.p.c. La norma elimina così un richiamo dubbio a una disposizione applicabile all’’arbitrato rituale.
Va detto che le disposizioni ora indicate, riguardano le ipotesi di risoluzione arbitrale di una controversia già insorta.
Tutte le disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato (articoli 410, 411, 412, 412 ter, e 412 quater) si applicano anche alle controversie relative a rapporti di lavoro pubblico. Tuttavia non è stato chiarito, come era stato auspicato dal Presidente della Repubblica, “se e a quali norme si possa derogare senza ledere i principi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell’’azione amministrativa sanciti dall’’art. 97 della Costituzione”.
Inoltre, al Senato, è stata aggiunta anche l’’applicazione della disciplina del processo verbale di conciliazione (art. 411 c.p.c.) alle controversie nel lavoro pubblico. Come è stato osservato, questa disposizione rischia di prestarsi a indebite strumentalizzazioni, con la conseguenza di minare l’’intero impianto della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, nonché di risultare in contrasto con le esigenze di contenimento dei costi dell’’attività amministrativa. Grave è, infatti, il rischio che l’’introduzione dell’’arbitrato nelle controversie riguardanti il pubblico impiego consenta malversazioni in materia di inquadramento, retribuzione, pagamento di arretrati e simili.

QUANDO SI SOTTOSCRIVE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

(art. 30, comma 9) – Radicalmente mutata, rispetto al testo approvato alla Camera, è la disciplina della clausola compromissoria, cioè della pattuizione con cui datore e prestatore di lavoro si accordano per riservare all’’arbitro, e non all’’autorità giudiziaria, eventuali controversie che dovessero insorgere circa l’’attuazione del rapporto contrattuale.
Come è noto, nel corso della precedente lettura alla Camera era stato approvato un emendamento proposto dall’’On. Cesare Damiano (Pd) che, modificando radicalmente la norma relativa alla clausola compromissoria, ne prevedeva la sottoscrizione non al momento della stipulazione del contratto, vale a dire nel momento di maggiore debolezza contrattuale del lavoratore, ma solo dopo l’’insorgenza della controversia. La modifica era finalizzata a garantire la libertà del lavoratore di scegliere tra il ricorso all’’arbitrato e il ricorso alla magistratura ordinaria, andando così nella direzione indicata dal Presidente della Repubblica.
In seguito alle modifiche apportate al Senato, nel testo è cancellata detta garanzia, mentre viene disposto soltanto il divieto di sottoscrizione della clausola compromissoria prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto dal contratto, o prima del decorso di trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, sia esso a tempo determinato o indeterminato.
La clausola deve essere, a pena di nullità, certificata dalle commissioni di certificazione le quali devono accertare le volontà effettiva delle parti di devolvere le controversie, che dovessero sorgere in futuro, ad arbitri. Questa procedura appare, per un verso, poco efficace ai fini di protezione del lavoratore, considerato che anche dopo il superamento del periodo di prova resta immutata la posizione di debolezza contrattuale in cui egli versa. Per altro verso, essa introduce, come requisito di validità della clausola, un adempimento in costanza del rapporto di lavoro che – secondo le previsioni degli addetti ai lavori – limiterà di fatto fortemente la diffusione della clausola compromissoria.
Su questo punto si può osservare anche una divergenza della scelta operata dal Parlamento rispetto alle indicazioni del Presidente della Repubblica. Nel suo messaggio si legge infatti che “solo il legislatore può e deve stabilire le condizioni perché possa considerarsi ‘effettiva’ la volontà delle parti di ricorrere all’’arbitrato”, mentre la nuova legge demanda interamente il relativo accertamento all’’organo certificatore.
La nuova disposizione accoglie, invece, l’’indicazione del Capo dello Stato nella parte in cui sancisce che la clausola compromissoria non può riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.

AUTORIZZAZIONE A SOTTOSCRIVERE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

L’’art. 30 al comma 11, attribuisce ai contratti collettivi il compito di individuare le ipotesi di ricorso all’’arbitrato irrituale. Tuttavia, si prevede che in mancanza di apposita disciplina affidata alla contrattazione collettiva, detto compito spetti al potere politico (al Ministro del lavoro e delle politiche sociali con proprio decreto) trascorsi dodici mesi dalla entrata in vigore della legge ove le parti sociali non abbiano provveduto. Anche su questo punto non sono stati accolti i rilievi del Capo dello Stato, che aveva espresso serie perplessità di fronte a “una così ampia delegificazione”.

LE DECADENZE

Infine, l’’art. 32 al comma 1, nel testo modificato al Senato, sancisce l’’inefficacia dell’’impugnazione del licenziamento se entro i successivi 9 mesi (e non più 6 mesi, come nel testo precedente al messaggio del Capo dello Stato) essa non sia seguita dal deposito del ricorso giudiziale nella cancelleria del tribunale o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.
In questa seconda ipotesi, qualora la conciliazione o l’’arbitrato richiesti siano stati rifiutati oppure l’’accordo non sia stato raggiunto, il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
È fatta comunque salva la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso in cancelleria. Questa puntualizzazione appare molto importante, considerata la regola generale, vigente nel processo del lavoro, che vieta la produzione di nuovi documenti dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio o della memoria di costituzione e risposta della parte convenuta.
Il comma secondo dell’’art. 32 sancisce, inoltre, che le disposizioni in materia di decadenza del lavoratore dalla possibilità di impugnare un atto del datore di lavoro si applichino a tutti i casi di invalidità (mancanza di giusta causa o di giustificato motivo) del licenziamento e non più in caso di inefficacia (difetto della forma scritta) (a queste si devono aggiungere le nuove ipotesi di impugnazione previste dall’’art. 32 comma 3: per es. contratti a termine, trasferimento d’’azienda, somministrazione irregolare, ecc.). Questa disposizione esclude dunque espressamente dalla disciplina delle decadenze i licenziamenti intimati oralmente (dunque inefficaci per mancanza di forma scritta), risolvendo così il problema della decorrenza del termine di decadenza. Le suddette decadenze restano ferme, invece, per le altre ipotesi di licenziamento nullo (per es.: licenziamento discriminatorio).

COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE

La disposizione dell’’art. 50, infine,  prevede che in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche riconducibili a un “progetto”, il danno possa essere risarcito con una indennità risarcitoria di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità, non soltanto ove entro il 30 settembre 2008 il datore di lavoro abbia offerto al lavoratore la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (a norma dell’’art. 1, comma 1202, n. 296), ma anche qualora egli abbia, dopo la data di entrata in vigore della legge (ma non si stabilisce il dies ad quem), ulteriormente offerto la conversione del contratto in corso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato ovvero abbia offerto l’’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte. Si tratta di una tipica “norma-fotografia”, volta a risolvere il caso, che era a suo tempo assurto agli onori delle cronache ed è poi rimasto fino a oggi irrisolto, relativo a una serie di controversie circa la qualificazione dei rapporti di lavoro in seno a un grande call center, insorte più di tre anni or sono a seguito di un’’ispezione amministrativa.

Un Nobel alla ricerca di lavoro

Il premio Nobel in economia del 2010 è stato assegnato a Peter Diamond, Dale Mortensen e Christopher Pissarides per il loro contributo nella comprensione del processo di ricerca tra domanda e offerta. Che nel mercato del lavoro permette di spiegare la curva di Beveridge come un fenomeno di equilibrio. E i loro studi hanno fatto capire che è meglio studiare il mercato del lavoro guardando ai suoi flussi, fino a comprendere gli effetti del precariato. Perché la loro teoria è densa di implicazioni pratiche e di suggestioni per la politica economica.

La risposta ai commenti

Ringraziamo tutti i lettori per i loro commenti.
L’’idea che ha ci ha spinto a scrivere l’’articolo era quella di spostare il dibattito dal potere d’acquisto dei salari alla causa principale dei bassi salari e del loro potere d’acquisto: la produttività del lavoro. Lo spunto ci è stato fornito dallo studio pubblicato da Ires-Cgil lo scorso 27 settembre. Non era, e non è, nostra intenzione quella di attaccare la Cgil per partito preso (come ipotizzato da qualche lettore), ma piuttosto volevamo mostrare che, utilizzando i dati Istat cioè quegli stessi dati utilizzati dall’’Ires prima della loro correzione per i lavoratori irregolari, viene fuori un risultato diverso da quello dell’’Ires, cioè che il salario dei lavoratori italiani era aumentato (e non diminuito) in termini reali tra il 2000 e il 2009.
L’’Ires, nei suoi complessi calcoli, tiene in considerazione la componente irregolare di lavoro nel calcolare i salari. Noi non lo facciamo. In questo modo possiamo coerentemente parlare dei dati sulla produttività (che allo stesso modo escludono la componente irregolare) e soprattutto perché l’’Istat non fornisce più la serie aggiornata dei dati corretti per la componente irregolare. Nei suoi calcoli, inoltre, l’’Ires calcola il drenaggio fiscale (noi non lo abbiamo fatto). Può valer la pena di ricordare che il drenaggio fiscale non misura l’’aumento delle imposte in generale, ma solo quell’’aumento delle tasse che deriva dall’’inflazione in un sistema di tassazione progressiva. L’’inflazione infatti “gonfia” i nostri redditi in euro (non abbastanza secondo alcuni dei nostri lettori, ma lo fa), il che ci fa scattare automaticamente su uno scaglione di reddito più alto senza che siamo diventati davvero più ricchi. L’’aumento delle entrate fiscali derivante da queste effetto “palloncino” è il drenaggio fiscale.
La produttività del lavoro in aggregato si calcola, in modo inevitabilmente un po’’ impreciso, dividendo un indicatore di prodotto in termini monetari (come il valore aggiunto, cioè la somma dei redditi da lavoro e di quelli da capitale d’’impresa) per un indicatore di impiego del lavoro, che può essere il numero delle ore lavorate, il numero degli addetti o il numero delle ULA. L’’utilizzo delle ULA (Unità di Lavorativa equivalente a tempo pieno) permette di prendere in considerazione una misura di lavoro standard depurandola per le componenti di lavoro atipico standardizzando il numero di ore lavorate. Si tratta quindi di un “addetto medio” che prende in considerazione la creazione di posti di lavoro precari negli ultimi anni uniformando lavoratori a tempo indeterminato a tempo pieno, part-time e atipici.
Molti lettori hanno criticato l’’utilizzo dell’’indice dei prezzi al consumo Istat per calcolare il salario reale. Qualche anno fa uno di noi (FD, in un commento su questo sito intitolato “Io sto con le casalinghe”) dichiarava di condividere la percezione dei lavoratori dipendenti medi e delle loro famiglie che, in corrispondenza dell’’avvento dell’’euro, si erano sentiti più poveri. Ora siamo un po’’ più cauti. E’ probabile e legittimo che molte delle famiglie – quando vanno al ristorante e a fare la spesa al supermercato – abbiano in questi anni percepito un aumento dei prezzi maggiore di quello rilevato dall’’Istat. Ma è anche vero che i consumi su cui viene fatto questo ragionamento riguardano gli acquisti che l’’Istat chiama “ad alta frequenza”. Ci sono però anche tanti beni che compriamo meno spesso (ad esempio, i prodotti dell’’elettronica di consumo) i cui prezzi sono diminuiti notevolmente in questi anni e che l’’Istat contabilizza correttamente nell’’indice dei prezzi del consumo. Quando pensiamo all’’inflazione dovremmo guardare all’’intero paniere di beni, non solo a quelli che siamo più abituati a comprare. Il paniere Istat coglie questo fenomeno: rileva il prezzo di molte migliaia di beni, rivede frequentemente la composizione del paniere – anzi dei vari panieri – che usa per misurare le variazioni del costo della vita. E’ vero: fa fatica, come tutti gli uffici statistici di tutto il mondo, a stare dietro ai mutamenti di qualità dei beni e all’’introduzione di nuovi beni e servizi; in più misura il costo delle abitazioni in termini di affitti e non di prezzi delle case. Ma tutto considerato il suo indice è una buona rappresentazione della spesa media degli Italiani.
Condividiamo le preoccupazioni di chi, replicando i nostri calcoli, vede la propria pensione in termini reali pressoché costante e di chi denuncia l’’importanza del fiscal drag e l’’incidenza delle imposte locali. Nel nostro articolo non ci siamo dedicati a questi argomenti nello specifico, ma spesso su queste pagine si discute dei modi per ovviare a queste storture.

Si guadagna poco, ma non è colpa dell’inflazione

Secondo l’Ires-Cgil negli ultimi dieci anni i lavoratori italiani hanno perso 5.500 euro per colpa dell’inflazione. Nostri calcoli dicono che non è andata così. Anzi, il potere d’acquisto dei lavoratori è oggi leggermente aumentato rispetto a quello di dieci anni fa. Questo non cancella il fatto che in Italia esista una questione salariale. Ma i bassi salari non sono colpa dell’inflazione, bensì della bassa produttività. Ed è questo il problema che si dovrebbe pensare a risolvere.

La parola ai numeri: lavoro

 

Anatomia di una crisi occupazionale

Tra luglio 2008 e luglio 2010 si sono persi 881mila posti di lavoro. Colpiti per primi i lavoratori temporanei. Netto calo delle assunzioni, ma licenziamenti contenuti grazie alla cassa integrazione. Per il prossimo futuro si profila una modesta ripresa dei rapporti di lavoro temporanei e parasubordinati nei settori legati ai mercati internazionali espansivi, ma sempre su livelli occupazionali complessivi inferiori a quelli pre-crisi. Dalla gestione delle crisi di impresa via Cig si dovrà passare alla gestione della disoccupazione, con il rischio che divenga di lunga durata.

La politica degli slogan sui dipendenti pubblici

La manovra economica dell’estate 2010 rivela ancora una volta le incoerenze del legislatore nel tentativo di riorganizzare e dare efficienza all’amministrazione pubblica. Almeno tre aspetti della manovra sono in evidente contrasto con la riforma Brunetta, entrata in vigore nemmeno un anno fa. Rimborsi negati a chi utilizza la propria auto per ragioni di servizio, dimezzamento degli investimenti in formazione e rinuncia agli incentivi economici mostrano come la ricerca di maggiore produttività, così come la meritocrazia, non siano altro che slogan.

Quei necessari nuovi italiani

Le previsioni demografiche degli anni Ottanta indicavano come probabile un invecchiamento insostenibile e una rapida diminuzione della popolazione italiana, con conseguenti gravi problemi sociali ed economici. Non è accaduto, perché negli ultimi trent’anni sono entrati in Italia milioni di giovani cittadini stranieri. E tutto fa pensare che il meccanismo di rimpiazzo della popolazione continuerà. Perché neppure la crisi fermerà l’afflusso dei nuovi italiani.

Parole d’estate

L’estate 2010 sarà ricordata per le tante parole spese sulla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno dibattuto ministri e banchieri, gli stessi che non hanno mai fatto niente per metterla in pratica. Ma non serve una legge perché già ora in Italia non c’è nessun impedimento a rendere i dipendenti partecipi dei profitti aziendali. Meglio sarebbe ridurre il carico fiscale che grava sul lavoro spostandolo sulle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro

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