Alcune note positive per chi ritiene che l’età media di pensionamento in Italia debba essere aumentata: costretto dalla Corte di giustizia, il governo ha parificato l’età della pensione per le donne a quella degli uomini, ma solo nel settore pubblico; nel 2010 sono entrati in vigore i coefficienti di adeguamento delle prestazioni previdenziali alle aspettative di vita; nel 2015 scatterà il meccanismo di adeguamento alle aspettative di vita anche dell’età pensionabile. La spesa sociale resta tuttavia molto squilibrata nel senso del sostegno alle pensioni: circa 70 miliardi ogni anno versati dall’Erario per tenere in equilibrio il bilancio dell’Inps, nonostante che questo si avvalga di qualche decina di miliardi di attivo della gestione separata (quella che fra un quarto di secolo pagherà pensioni da fame ai giovani di oggi) e della gestione delle prestazioni temporanee e in particolare della cassa integrazione guadagni: un’assicurazione il cui “premio” pagato da imprese e lavoratori continua così a configurarsi, di fatto, per tre quarti come una tassa sul lavoro finalizzata al pagamento delle pensioni ai sessantenni, se non ai cinquantottenni.
La stessa cassa integrazione guadagni – che ora può essere attivata dalle Regioni anche “in deroga” rispetto ai limiti posti dalla vecchia disciplina ‑ continua a essere largamente utilizzata, in modo del tutto improprio, anche per il sostegno del reddito dei lavoratori che sicuramente non riprenderanno a lavorare nella stessa azienda. La riforma dellÂ’assicurazione contro la disoccupazione, che dovrebbe universalizzare il relativo trattamento e al tempo stesso far cessare lÂ’abuso della Cig e consentire una immediata attivazione delle misure per la ricollocazione dei lavoratori interessati, è rinviata a tempi migliori; né il governo sembra avere le idee chiare sulle sue nuove linee portanti.
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E’ stato presentato in Senato un disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, che riprende una nostra proposta: l’istituzione di un contratto unico a tutele progressive. E’ un modo per conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con le esigenze di stabilità dei lavoratori. Si tratta di una riforma non più rinviabile. Per rendere più proficua la discussione riassumiamo qui i tratti distintivi del Ddl.
Sono più di ottocentomila i posti di lavoro distrutti nel nostro paese dall’inizio della recessione a oggi. A cui vanno aggiunti i lavoratori in cassa integrazione. Il quadro potrebbe poi peggiorare nei prossimi mesi. E per riassorbire tutte queste persone in esubero servirebbe una crescita sostenuta. Il problema è il dualismo del mercato del lavoro italiano. Una via di uscita l’abbiamo proposta ed è ora diventata un disegno di legge, che il governo non sembra intenzionato a prendere in considerazione. Senza peraltro contrapporre alcuna alternativa.
Tradizionalmente l’auspicio di una maggiore integrazione delle donne nel mondo del lavoro si fonda su principi di equità . Ora alcuni saggi sostengono che la valorizzazione delle donne risponde anche a criteri di efficienza economica. Un approccio particolarmente interessante per l’Italia, dove la partecipazione femminile è assai scarsa, le donne difficilmente arrivano ai vertici di aziende e istituzioni e anche la fertilità è bassa. Politiche e interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia possono far bene anche al nostro Pil.
Quali sono gli effetti del favoritismo e della corruzione sull’andamento economico? Uno studio mostra che le connessioni sociali hanno conseguenze complessivamente negative sul funzionamento dell’impresa quando i manager sono pagati con un importo fisso, mentre ciò non accade quando si aggiunge un premio di risultato. Una questione di incentivi. Per questo la presenza generalizzata del fenomeno induce individui e imprese a investire tempo e denaro nella ricerca di connessioni, agganci, piuttosto che a migliorare il proprio grado di efficienza.
I vincoli ai licenziamenti previsti dalle normativa italiana hanno lo scopo di assicurare il lavoratore contro le possibili fluttuazioni del mercato del lavoro e trasferirne il peso sull’impresa che può neutralizzarle con maggiore facilità . Ma ai vantaggi di una maggiore stabilità dell’impiego corrispondono i costi di una più lunga durata della disoccupazione e di minori salari. Senza contare i diversi modi per aggirare la legislazione, un problema che la crisi ha reso ancora più evidente. Meglio allora ripensare l’intero modello.
Il Senato ha approvato definitivamente il disegno di legge 1167-B. Per favorire la composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, introduce all’articolo 31 una pluralità di rimedi, facoltativi e volontari, alternativi al ricorso al giudice del lavoro e rafforza le competenze delle commissioni di certificazione. Ma le nuove disposizioni riguardano anche numerosi altri aspetti. Ecco una scheda ragionata per capire meglio le nuove regole e gli interventi a conclusione della discussione in Senato del rappresentante della maggioranza, il senatore Giuliano e del rappresentante dell’opposizione, il senatore Ichino.
Le donne bolognesi in età lavorativa guadagnano dal 25 al 76 per cento in meno dei loro concittadini maschi, a seconda della fascia d’età (si veda il grafico sotto). Lo afferma una ricerca condotta dal Dipartimento di Programmazione del Comune di Bologna sui redditi Irpef dei cittadini di questa città , presentata recentemente all’Istituto Gramsci.
Questo risultato dovrebbe far riflettere chi ritiene che la fornitura pubblica di servizi sociali alle famiglie, in particolare di asili nido, sia la panacea che può consentire alle donne di avere le stesse opportunità lavorative degli uomini, soprattutto le stesse retribuzioni e le stesse possibilità di carriera.
Bologna è forse la città italiana che ha la maggiore densità di asili nido e che offre i migliori servizi sociali alle famiglie (210 milioni di euro spesi dal Comune, ossia ben il 40 per cento delle sue spese correnti secondo la stessa ricerca). Tutta l’Emilia Romagna, in realtà , primeggia in questa classifica, come ci hanno recentemente ricordato Daniela Del Boca e Alessandro Rosina e nel loro libro "Famiglie Sole"(Il Mulino, 2009). Proprio grazie a questi servizi, sostengono Del Boca e Rosina, i tassi di fecondità e di partecipazione al lavoro delle donne sono relativamente alti e crescenti in Emilia Romagna mentre sono bassi e decrescono in Campania, dove i servizi sociali alle famiglie scarseggiano e sono di bassa qualità .
È possibile che asili e servizi alle famiglie siano un fattore importante per facilitare una maggiore partecipazione delle donne al lavoro e una maggiore fecondità , anche se chi sostiene questa idea dovrebbe spiegare come mai la fecondità e l’offerta femminile di lavoro siano più alte in paesi dove questi servizi sono praticamente assenti. Ma alla luce dei dati sulle differenze di reddito tra donne e uomini a Bologna, è almeno altrettanto evidente che gli asili possono al massimo essere una palliativo per i sintomi della malattia, non la terapia che ne risolve le cause.
MA LE DONNE LAVORANO DI PIÙ
E questo perché la vera origine del problema sta nel modo in cui i compiti familiari sono allocati tra donne e uomini all’interno delle famiglie. Questa è la tesi che insieme ad Alberto Alesina ho proposto nel libro "L’Italia fatta in casa" (Mondadori, 2009). Finché le donne italiane lavoreranno in totale 80 minuti in più degli uomini (sommando il lavoro casalingo a quello retribuito) e soprattutto finché saranno loro ad essere sempre "on duty" per la famiglia anche nei momenti in cui lavorano fuori casa, esse non potranno esprimere nel lavoro retribuito la stess energia e la stessa produttività degli uomini. Possiamo costruire tutti gli asili che vogliamo, ma non vedremo grandi risultati se sarà sempre la madre a "staccare" comunque alle 16.00, qualsiasi cosa succeda in ufficio, per riportare a casa i figli. Oppure se sarà sempre lei a farsi carico di trovare una soluzione quando l’asilo rifiuta i figli perché ammalati. E gli esempi potrebbero continuare, considerando molti altri compiti familiari, dalla lavatrice rotta che allaga la casa ai nonni anziani da accudire.
Forse costruire asili a spese del contribuente può essere una buona idea per altri motivi, ma sembra difficile sostenere che questo intervento possa risolvere in modo significativo il problema degli squilibri di genere e i dati di Bologna supportano questa tesi. Se veramente gli italiani ritengono che gli squilibri di genere siano un problema, allora bisogna intervenire sul modo in cui i compiti familiari sono divisi tra uomini e donne. Ad esempio riducendo le tasse sul lavoro femminile come da noi proposto.Ma anche se i motivi per auspicare la costruzione di asili nido pubblici fossero altri (diversi dalla equiparazione delle differenze di genere), bisognerebbe comunque valutare se essi giustifichino l’onere imposto ai contribuenti, in particolare quelli che figli non ne hanno. Per quale motivo, infatti, chi non ha figli dovrebbe finanziare chi ha liberamente scelto di averne? Io ad esempio ne ho quattro e non vedo motivi per cui la società debba farsi carico di questo.
Ammesso e non concesso che gli asili nido pubblici favoriscano la fecondità (che come detto sopra è maggiore della nostra anche in paesi in cui lo stato non offre questi servizi), siamo proprio sicuri che in Italia sia una buona idea incrementare la popolazione, già crescente per via dell’immigrazione? La densità in Italia è di 195 persone per chilometro quadrato contro 32 della media europea. Forse gli italiani ricominceranno a fare figli, senza incentivi pubblici, quando l’onda dei 50enni prodotta dal "baby-boom" sarà passata.
Si sente anche dire a volte, soprattutto in ambienti di sinistra, che faccia bene ai bambini stare in asilo nido fin da subito dopo il parto. Può darsi, ma non mi risulta che di questo ci siano prove statistiche convincenti, ossia prove che soddisfino gli stessi requisiti di validità statistica che riteniamo necessari ad esempio per stabilire la validità di una terapia medica. Numerosi studi recenti, tra cui quelli del premio Nobel Jim Heckman mostrano l’enorme importanza dei primi anni di vita del bambino per la sua performance futura, ma siamo ancora ben lontani dal poter affermare con cognizione di causa se sia meglio la famiglia o il nido per un neonato.
Allora, non è forse meglio tassare di meno le donne e quindi le famiglie (magari sussidiando con vouchers quelle povere) in modo che madri e padri siano effettivamente effettivamente liberi di scegliere come e dove educare i loro figli e quanto tempo a loro dedicare?
Nel suo intervento Andrea Ichino, in commento ad un nostro recente articolo, mette in dubbio l’utilità degli asili nido. Cogliamo l’occasione per chiarire meglio la nostra posizione a favore dei servizi per l’infanzia come importante strumento di conciliazione nella fase delicata in cui è più difficile lavorare e occuparsi dei piccoli (secondo i dati Istat, oltre una donna occupata su cinque lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio (1)).
AI:“Le donne bolognesi in età lavorativa guadagnano dal 25 al 76 per cento in meno dei loro concittadini maschi (…). Questo risultato dovrebbe far riflettere chi ritiene che la fornitura pubblica di servizi sociali alle famiglie, in particolare di asili nido, sia la panacea che può consentire alle donne di avere le stesse opportunità lavorative degli uomini, soprattutto le stesse retribuzioni e le stesse possibilità di carriera”.
DB e AR: Concordiamo. Non abbiamo certo scritto che, di per sé, l’offerta di nidi sia in grado di realizzare l’uguaglianza delle opportunità di lavoro e di salario tra uomini e donne.  Nessuno, a quanto ci risulta, ha mai azzardato un’ipotesi di questo tipo. Abbiamo semplicemente sottolineato come gli asili nido possano spesso rivelarsi un concreto aiuto per le donne con figli piccoli che desiderano continuare a lavorare. Molte famiglie non hanno nonni e altri parenti vicini e non hanno un reddito sufficiente per il ricorso sistematico ad una baby sitter.
AI:“È possibile che asili e servizi alle famiglie siano un fattore importante per facilitare una maggiore partecipazione delle donne al lavoro e una maggiore fecondità , anche se chi sostiene questa idea dovrebbe spiegare come mai la fecondità e l’offerta femminile di lavoro siano più alte in paesi dove questi servizi sono praticamente assenti”.
DB e AR: Se il riferimento è al caso particolare degli Stati Uniti, va precisato che in tale contesto il mercato del lavoro è meno discriminatorio verso le donne, offre più opportunità occupazionali in genere e più part-time, ma ci sono poi anche servizi per l’infanzia non pubblici di vario costo e tipo (nidi familiari, nidi sul posto di lavoro, ecc.). Se però guardiamo ai casi a noi più vicini (quelli europei) si nota come i paesi con più alta fecondità (Francia e i paesi scandinavi) siano anche quelli dove rilevante è l’investimento in strumenti di supporto pubblico (non solo privato) alle famiglie con figli.
Ma al di là di casi specifici, quello che in generale si è osserva è che i paesi che più e meglio hanno investito in misure di conciliazione presentano, tendenzialmente, anche più elevati livelli sia di fecondità che di partecipazione femminile al mercato del lavoro (ci sono molte analisi in proposito, si veda per una rassegna il rapporto Ocse di D’Addio e Mira d’Ercole (2). Ma questo risulta sempre più vero anche all’interno del territorio italiano, tanto che la fecondità è aumentata di più, anche la netto dell’immigrazione, dove maggiori sono sia l’occupazione femminile che le varie possibilità di conciliazione.
Tra gli strumenti di conciliazione particolare importanza hanno i servizi di cura per l’infanzia, tanto che nella Strategia di Lisbona dell’Unione Europea non viene fissato solo il livello di occupazione femminile da raggiungere (60%), ma anche quello di un’adeguata copertura di asili nido (33% su bambini in età 0-3). Lo stesso governatore di Bankitalia ha affermato che “le stime disponibili mostrano come l’incremento della disponibilità di posti negli asili nido avrebbe un effetto positivo sia sulla decisione delle donne di lavorare, sia sulla loro scelta di avere figli”. Sull’importanza di un ruolo del pubblico e sulle carenze italiane segnaliamo, inoltre, un recente contributo di Chiara Saraceno.
AI: “la vera origine del problema sta nel modo in cui i compiti familiari sono allocati tra donne e uomini all’interno delle famiglie”.
DB e AR: E’ vero che la scelta di un figlio produce conseguenze che ricadono soprattutto sulla madre. Come abbiamo scritto nel nostro libro, è importante invece che lo stato (con offerta di strumenti di cura), le aziende (con possibilità di ricorrere a part-time e consentendo orari più flessibili), i padri (contribuendo di più ai compiti familiari e di cura) facciano ciascuno la loro parte.
AI: “Per quale motivo, infatti, chi non ha figli dovrebbe finanziare chi ha liberamente scelto di averne?”
DB e AR: Curiosa questa obiezione, visto che l’Italia è attualmente uno dei paesi che penalizzano di più chi ha scelto di avere figli. Questo vale sia sul piano fiscale che su quello dei servizi. In particolare, la quota di spesa sociale che va per la voce “famiglia” è, come ben noto, una delle più basse (spendiamo meno della metà rispetto alla media europea).
Ma forse spendiamo anche troppo per chi, come Ichino, pensa che il figlio sia un bene privato e che i costi debbano ricadere su chi ha fatto tale scelta. Si potrebbe obiettare in vari modi (il discorso ha inoltre valenza più generale visto che investe tutto il ruolo pubblico e il preteso diritto di ciascuno di scegliere cosa contribuire a finanziare e cosa no). Ci limitiamo ad osservare che questa argomentazione non tiene conto del fatto che le misure di conciliazione consentono alle donne con figli di poter partecipare in modo più continuativo al mercato del lavoro e quindi ad avere non solo maggior benessere familiare ma anche  contribuire alla crescita economica del paese e alla sostenibilità del sistema di welfare. Penalizzare chi desidera avere figli non aiutandolo con strumenti adeguati a partecipare al mercato del lavoro ci sembra non solo iniquo ma anche socialmente controproducente. Rischia inoltre di aumentare la povertà delle coppie con figli che rimarrebbero monoreddito. Perché dovremmo assisterle con un voucher quando potrebbero difendersi dalla povertà con un proprio lavoro? Meglio incentivare comportamenti responsabili che l’assistenzialismo.
AI: “Ammesso e non concesso che gli asili nido pubblici favoriscano la fecondità (che come detto sopra è maggiore della nostra anche in paesi in cui lo stato non offre questi servizi), siamo proprio sicuri che in Italia sia una buona idea incrementare la popolazione, già crescente per via dell’immigrazione?”
DB e AR: Sul fatto che gli asili nido possano favorire la fecondità abbiamo già detto. Aggiungiamo a tal proposito anche evidenze empiriche che provengono da un’analisi recente sul caso spagnolo (molto più simile all’Italia rispetto agli Stati Uniti): dove si ottiene “a significant and positive effect of regional day care availability on both first and higher order births” (3).
Gli asili nido sono uno strumento utile per le donne che lavorano a non rinunciare ad avere un figlio se lo desiderano in assenza di nonni a disposizione per poter accudire i bambini quando sono al lavoro. Meno strumenti di conciliazione le coppie hanno a disposizione, più facilmente si fermeranno al figlio unico se non vogliono rinunciare al lavoro. Oppure possono essere incentivate a rinunciare ad opportunità di carriera per rimanere a vivere vicino ai nonni e non perdere il loro aiuto.
Ma c’è di più. Secondo Andrea Ichino non pare importante ciò che a noi sembra cruciale cioè mettere tutti nelle condizioni di scelta di avere figli (anche a chi non ha redditi elevati e chi non ha nonni vicini), visto che la popolazione cresce già abbastanza con il contributo degli immigrati.
Questa argomentazione ignora che la conseguenza maggiore della persistente denatalità italiana non è tanto il declino o meno della popolazione quanto gli squilibri che si creano nella sua struttura.
L’accentuato invecchiamento della popolazione italiana richiederebbe un riequilibrio attraverso una minore denatalità e una maggiore occupazione femminile. L’intenso invecchiamento della popolazione è proprio uno dei fenomeni che gli altri paesi meno ci invidiano. Anzi, sono particolarmente interessati a vedere come ce la caveremo nei prossimi decenni per capire quali errori evitare.
Come anche le ultime previsioni Istat confermano, l’apporto dell’immigrazione su questo aspetto è rilevante ma limitato. Sulla nota informativa di presentazione, si legge: “L’aspetto in assoluto più certo di tutte le previsioni è il progressivo e inarrestabile incremento della popolazione anziana (…), tanto in termini assoluti quanto relativi” (4).
AI:“Numerosi studi recenti, tra cui quelli del premio Nobel Jim Heckman mostrano l’enorme importanza dei primi anni di vita del bambino per la sua performance futura, ma siamo ancora ben lontani dal poter affermare con cognizione di causa se sia meglio la famiglia o il nido per un neonato”
DB e AR: Questo è un tema che consideriamo molto importante e su cui stiamo lavorando. Soprattutto in un paese di figli unici e di genitori iperprotettivi, l’asilo con opportuni standard di qualità , può essere un utile strumento per una socializzazione più equilibrata dei figli. Un asilo inteso solo come parcheggio per il figlio è deleterio. Il bene del bambino lo si ottiene non solo se tale strumento aiuta la famiglia a proteggere il proprio benessere grazie alla possibilità della madre di non rinunciare al lavoro, ma anche, soprattutto, se fornisce benefici in termini di formazione e crescita. Per questo, come spesso sottolineiamo, è cruciale investire nella qualità dell’offerta, non solo sulla copertura.
Un’ultima precisazione. L’offerta di servizi per l’infanzia e’ strumento per ampliare le scelte delle famiglie, uno strumento disponibile assieme ad altri, che la coppia decide o meno di scegliere. Il problema è che attualmente in Italia, più di altri paesi, tale scelta è spesso negata per la carenza di un’offerta adeguata.
Come mostrano, poi, alcuni studi della Banca d’Italia, nelle regioni dove più ci sono asili nido più lunga è anche la lista di attesa, il che suggerisce che l’offerta di nidi di adeguata qualità può contribuire ad attenuare alcune resistenze culturali verso la delega della cura dei figli piccoli
(1) Linda Laura Sabbadini (2004, a cura di), Come cambia la vita delle donne, Demetra, Atti e interventi n. 6, Roma.
(2) Anna Cristina DÂ’Addio e Marco Mira dÂ’Ercole (2005), "Trends and Determinants of Fertility Rates in Oecd Countries: The Role of Policies", Oecd Social, Employment and Migration Working Papers.
(3) Pau Baizan (2009), “Regional child care availability and fertility decisions in Spain”, Demographic Research, 21(27).
(4) Istat,Previsioni demografiche. 1° gennaio 2007-1° gennaio 2051. Nota informativa (19 giugno 2008).
Disoccupazione all’8,6 per cento e Pil 2009 a -5 per cento: l’economia italiana soffre ancora i colpi di coda di una crisi ormai finita. Ma c’è lo spazio e la necessità per gli incentivi temporanei con efficacia limitata a sei mesi ai settori in difficoltà . Si tratta di permettere alle imprese di avviare processi di ristrutturazione in modo socialmente non distruttivo. Di interventi di questo tipo si parla da tempo, ma il governo continua inspiegabilmente a rinviarne l’adozione.