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PERCHE’ AUMENTA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE

Dopo due anni di continua discesa, il tasso di disoccupazione nel primo trimestre dell’anno in Italia è tornato a crescere: 7,1 per cento rispetto al 6,4 per cento del primo trimestre del 2007. Non è una buona notizia, ma deve comunque essere letta con attenzione. Il tasso di disoccupazione può aumentare perché diminuiscono gli occupati o perché aumentano le persone che vogliono cercare un lavoro. In Italia negli ultimi dodici mesi sono stati creati più di trecentomila posti di lavoro grazie a un importante contributo dei lavoratori stranieri. Il tasso di occupazione, il rapporto tra occupati e persone tra 15 e 65 anni, è infatti aumentato ancora e si attestato al 58,3 per cento. In sostanza il tasso di disoccupazione è aumentato perché vi è stato un massiccio aumento dell’offerta di lavoro. L’aumento della disoccupazione non è ancora un fenomeno preoccupante, anche perché ad aumentare è stata soprattutto la componente femminile della forza lavoro, con una crescita quasi del 4 per cento in tutto il territorio, mezzogiorno compreso. Se il mercato del lavoro funziona, queste persone troveranno presto un lavoro e contribuiranno ad aumentare il tasso di occupazione del Paese. A livello legislativo, il Governo ha presentato una serie di modifiche legislative sulla regolamentazione dl lavoro. Il disegno di legge prevede la reintroduzione del lavoro a chiamata, una figura prevista dalla legge Biagi e cancellata dal Governo Prodi. Si prevede anche un’ulteriore liberalizzazione del lavoro a termine, con l’introduzione di deroghe oltre i 36 mesi introdotti nella precedente legislatura. Si tratta, tutto sommato, di modifiche marginali e che non cambieranno in modo significativo il nostro mercato del lavoro. Più importante è invece l’abolizione completa del divieto di cumulo tra pensione e lavoro. E’ una misura che certamente contribuirà a aumentare il tasso di occupazione degli individui sopra i 55 anni. Ne avevamo bisogno.

COME RIFORMARE LA CONTRATTAZIONE

Si riapre dopo la pausa elettorale il negoziato sulla riforma del sistema contrattuale. A dispetto dei tanti richiami all’inderogabilità della questione salariale, è da dieci anni che questa riforma viene rimandata. Siamo così rimasti agli assetti di quindici anni fa, che da tempo hanno mostrato tutti i loro limiti. (Aggiornamento dell’intervento pubblicato il 20 marzo 2008).
Un contributo alla discussione del ministro per la Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione Renato Brunetta.

PER UNA PROPOSTA DI SHOPPING CONTRATTUALE

1. Le rigidità presenti nel mercato del lavoro determinano inefficienze nell’allocazione dei fattori della produzione e, in ultima analisi, livelli occupazionali più bassi. Inoltre, l’adozione di basi salariali uniformi, in presenza di strutture dei costi difformi, oltre ad essere economicamente inefficiente, favorisce il consolidamento della grande impresa ed esclude dal mercato le nuove imprese o quelle minori.

2. Se tutto questo è vero, un assetto contrattuale efficiente per qualsiasi mercato del lavoro deve necessariamente evitare rigidità non strutturalmente indispensabili al funzionamento del sistema, al fine di favorire la diffusione di relazioni industriali appropriate e calate su ciascuna realtà produttiva, che hanno evidenziato la correlazione esistente tra grado di centralizzazione della contrattazione salariale e performance occupazionali, individuando nelle forme estreme (alta centralizzazione, bassa centralizzazione) gli assetti in grado di massimizzare il livello di occupazione.

3. Se, infatti, le rigidità non adattive impediscono l’allocazione ottimale dei fattori della produzione, e livelli intermedi o livelli sovrapposti di centralizzazione della contrattazione salariale determinano tassi di disoccupazione maggiori, l’assetto ottimale potrebbe essere quello caratterizzato da una flessibilità sufficiente a favorire la spontanea adozione tra le parti del livello contrattuale ritenuto più appropriato per ogni singolo settore. Chiaramente, in assenza di una norma che imponga alle parti un determinato livello di centralizzazione, per gli assunti precedenti, nessuno si indirizzerà su una centralizzazione media di sottoccupazione ed inefficiente allocazione delle risorse, o se lo farà, ne subirà gli svantaggi modificando, nel futuro, il proprio comportamento.

4.    In altre parole, la riduzione delle rigidità al livello minimo necessario al funzionamento di un particolare mercato quale quello del lavoro, lungi dal ridurre la dialettica tra le parli, potrebbe, invece, incrementarla fino a giungere a favorire una sorta di "shopping contrattuale" con cadenza biennale o triennale, dove il primo passo negoziale (necessariamente nazionale) dovrebbe essere quello di accordarsi sull’unico livello ottimale di contrattazione (per un determinato periodo). In questo modo, in alcune realtà produttive potrà essere definito un livello contrattuale nazionale (alta centralizzazione), in altre un contratto aziendale (bassa centralizzazione). Chiaramente dovrà essere eliminata qualsiasi sovrapposizione tra livelli attraverso una sorta di gerarchia funzionale della prassi negoziale, lasciando comunque al livello di alta centralizzazione la trattazione dei macroaspetti del settore (la definizione del livello prescelto, la modulazione territoriale dei minimi salariali e le relative deroghe…), mentre a livello di medio bassa centralizzazione saranno destinate tutte le materie salariali, organizzative (orari), partecipative (profit sharing), previdenziali ecc.

5. Gli effetti positivi di una simile dinamica delle relazioni industriali sarebbero evidenti nel funzionamento del sistema produttivo già dai primi cicli di shopping contrattuale, ma il trascorrere del tempo ed il progressivo apprendimento cooperativo di entrambe le parti ne aumenterebbe costantemente la qualità, stabilizzando il sistema produttivo su livelli di efficienza via via sempre maggiori, al livello più alto di occupazione.

6. Gli accordi di luglio (3 luglio 1992 e 23 luglio 1993) potrebbero facilmente essere rivisti secondo le linee sopra esposte, in ragione, soprattutto, del venire meno dell’obiettivo disinflazionistico che era stato alla base di quegli accordi tripartiti.

7. Il livello nazionale di contrattazione potrebbe restare con la funzione di macroregolazione di settore, ma senza valenze salariali (verrebbero meno i meccanismi di regolazione salariale in ragione dell’inflazione programmata, coincidendo questa con l’inflazione effettiva e con tale semplificazione non avrebbero più senso i recuperi), se non un eventuale utilizzo della clausola della scala mobile carsica in caso di patologica assenza di contrattazione di secondo livello. Quest’ultima (a livello variabile, come abbiamo visto), dovrebbe essere l’unico vero strumento di distribuzione efficiente dei guadagni di produttività (sia nella versione baumoliana che in quella kaldoriana) a fini di efficienza e di massimizzazione dell’occupazione. Su questa base il secondo livello di contrattazione andrebbe premiato e favorito in tutti i modi (in quanto capace di ottimizzare crescita e occupazione) attraverso legislazioni di sostegno (penalizzazione in tema di incentivi per quelle aziende e quei fattori che non realizzassero fisiologicamente la contrattazione), incentivi fiscali e parafiscali ad aziende e fattori efficienti ed innovativi nell’applicare le nuove relazioni industriali.

8. In questo modo la contrattazione di secondo livello aumenterebbe progressivamente (in uno o due cicli negoziali) nella sua capacità di copertura dell’intero mondo aziendale, in una sorta di sincronica complementarizzazione rispetto al venire meno del ruolo salariale della contrattazione nazionale.

9. Autoregolazione, autorganizzazione, apprendimento, adattamento continuo rispetto ai segnali provenienti dal cambiamento tecnologico e dal ciclo economico dovrebbero essere le linee guida del nuovo percorso di relazioni industriali nel nostro Paese.

L’IRPEF SENZA GLI STRAORDINARI

La detassazione degli straordinari modifica in modo significativo la fisionomia del più importante tributo italiano. Perciò, non bisogna solo capire se gli obiettivi siano giusti, ma anche se lo strumento individuato sia il più corretto. L’agevolazione fiscale persegue finalità che si prestano a non poche obiezioni, dà risultati iniqui, contrasta con principi cardine del sistema d’imposizione personale del reddito, risponde solo parzialmente a un possibile effetto di inefficienza che riguarda una parte esigua dei soggetti coinvolti e favorisce fenomeni elusivi.

GRANDI INTESE O GRANDI ELUSIONI FISCALI?

Si profila all’orizzonte un grande accordo sulla detassazione dello straordinario e delle componenti variabili del salario. Sarebbero d’accordo tutti: dalla maggioranza all’opposizione, da Confindustria al sindacato. Nelle migliori intenzioni dovrebbe servire a rafforzare il decentramento della contrattazione salariale e un più forte legame dei salari con la produttività. Ma vi sono grandi rischi di elusione fiscale. Non a caso il Governo sta predisponendo tanti paletti, complicando ulteriormente il sistema fiscale. E per decentrare la contrattazione non c’è alcun bisogno di sgravi fiscali. Meglio sarebbe tagliare le tasse sul lavoro per tutti e riformare davvero la contrattazione.

E LE DONNE RESTANO A CASA

Nel rapporto di Save the Children l’Italia è agli ultimi posti fra i paesi europei per condizioni di salute, lavoro e pari opportunità delle madri. Quoziente familiare e detassazione degli straordinari  aumentano il divario tra lavoratori e lavoratrici. Mentre con costi simili si potrebbero detassare le spese delle famiglie con figli in cui le madri lavorano e usano servizi, in un percorso volto a modificare la struttura familiare italiana, caratterizzata da ruoli fortemente tradizionali. Altrimenti, il rischio è di rendere ancora più grave il binomio donne a casa e culle vuote.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Se l’intenzione è quella di rendere più competitivo il nostro paese intervenendo sul costo del lavoro, si può intervenire in modo migliore che detassando il lavoro straordinario. Con le risorse necessarie per detassare gli straordinari (o ridurre la tassazione ad un’aliquota unica del 10%, come attualmente in discussione) si possono abbassare (anche se di poco) le tasse sul lavoro a tutti i lavoratori, o ridurre l’Irap (che grava comunque sul lavoro). Sarebbe però bene che lo Stato rimanesse
neutrale sulle decisioni relative a quanto lavoro offrire, limitandosi a garantire a quei lavoratori e a quelle lavoratrici che lo desiderano la possibilità effettiva di mettersi a tempo parziale, e a coloro che lo vogliono di lavorare più a lungo, senza favorire gli uni e ostacolare gli altri.

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Il mio articolo ha suscitato commenti, circa equamente suddivisi tra favorevoli e contrari. Vorrei qui ringraziare tutti coloro che sono intervenuti ed aggiungere alcuni chiarimenti.
A tal fine procederò con un esempio. Premi di produttività e straordinari sono ormai stati detassati, con buona pace di chi (non molti, per verità) si sono opposti.
Mimmo e Ciccio devono discutere del loro contratto: per Mimmo si tratta solamente di ridiscutere le condizioni ma è già dipendente, mentre Ciccio sta per essere assunto (1). Il direttore del personale, Gigi, propone sia a Mimmo che a Ciccio un contratto con un salario base più basso, tanto, sostiene, se lavoreranno bene avranno premi di produttività e la possibilità di fare straordinari, che con la nuova normativa convengono. Alla fine ci guadagneranno tutti. Mimmo e Ciccio accettano.
Il giorno dopo arriva nell’ufficio di Gigi Elisa, anch’essa per parlare di contratto. Gigi le propone un contratto simile a quello di Mimmo e Ciccio, e per Elisa risulta difficile non accettare delle condizioni analoghe a quelle dei suoi colleghi maschi. Elisa però ha dei figli piccoli e quindi molto difficilmente riuscirà a fare straordinari.

A questo punto:

(1) se le cose vanno bene per l’azienda e Mimmo e Ciccio si fanno apprezzare, guadagnano più di prima. Tutto bene per loro, anche se la loro retribuzione è lasciata di mese in mese alla discrezione di Gigi, che stabilisce premi e distribuisce gli straordinari. Inoltre, il cosiddetto “gender gap”, la penalizzazione in termini di retribuzione che affligge le donne (e che in Italia è di circa il 18-20%) aumenta;
(2) non appena la domanda per l’azienda “tira” un po’ meno, Gigi convoca Mimmo e Ciccio e con grande rincrescimento comunica loro che non ci saranno più premi di produttività, almeno per un periodo. E’ necessario che tutti facciano sacrifici.

In ultima analisi, e mi chiedo come possa non essere chiaro, questa proposta ha l’effetto di indebolire ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori, oltre ad introdurre differenze di trattamento che vanno nella direzione di sfavorire proprio quei lavoratori (donne, over-50, ecc.) la cui partecipazione al mercato del lavoro è invece cruciale per avvicinare l’Italia agli altri paesi europei. Ripeto: gli italiani che lavorano non lavorano poco, ma sono pochi italiani a lavorare.
C’è un’unica argomentazione che in teoria potrebbe giustificare la detassazione degli straordinari e dei premi: l’aumento di produttività. In altri termini, il maggior valore degli straordinari e dei premi di produttività dovrebbe incentivare i lavoratori a competere tra di loro per accaparrarseli; di questa competizione beneficerebbero le imprese e quindi la competitività del paese. Ora, la relazione tra lavoro straordinario e produttività non è del tutto chiara, anche perché la relazione causale è incerta: la maggiore produttività delle imprese dove si fanno straordinari potrebbe essere causata dalla maggiore domanda che genera la necessità di lavoro straordinario, piuttosto che dal ricorso agli straordinari di per sé. Inoltre, gli italiani che lavorano non lavorano poco, ma spesso lavorano male.
Il giuslavorista e neo-deputato PD Pietro Ichino è diventato famoso per aver (finalmente) osato attaccare i cosiddetti “fannulloni” nella pubblica amministrazione. Ma è pieno di persone che lavorano duramente e nonostante questo sono sopraffatti da difficoltà di ogni tipo: autorizzazioni, dichiarazioni, regolamenti, marche da bollo, impossibilità pratica di giungere ad una soluzione legale delle controversie, intromissioni politiche, zelo burocratico eccessivo (che può essere ben peggio della mancanza di zelo), ecc. Contro tutto ciò, ben poco Stakanov può.

(1) In questo senso mi riferivo alla possibilità dell’impresa di “appropriarsi” di una parte del risparmio fiscale, ovvero in fase di negoziazione o ri-negoziazione contrattuale.

CONTRO LA DETASSAZIONE DEGLI STRAORDINARI

Nonostante sembri mettere tutti d’accordo, il provvedimento ha evidenti conseguenze negative. Svantaggia i lavoratori più deboli che fanno comunque meno straordinari e che avranno più difficoltà a trovare un lavoro. A guadagnarci saranno soprattutto le imprese, che riusciranno per questa via a ottenere un abbassamento del costo del lavoro e una maggiore flessibilità di utilizzo della manodopera. Se si vuole rendere più competitivo il nostro paese intervenendo sul costo del lavoro, si può farlo in modi diversi e più efficaci. Per esempio, abbassando le tasse sul lavoro.

TUTTE LE DONNE DEL PRESIDENTE

LAVORO

Leggendo i programmi elettorali è evidente che i due principali partiti sono preoccupati dalla questione salariale. Vi troviamo quindi due proposte per ridurre le tasse sul lavoro. Il Partito democratico sostiene di voler detassare la quota di salario negoziata in azienda. Il Popolo della libertà sostiene invece di voler ridurre la tassazione sugli straordinari.

PARTITO DEMOCRATICO

La contrattazione aziendale riguarda oggi solo le grandi imprese e interessa circa il 40 per cento dei lavoratori dipendenti. Detassando la quota di salario negoziata in azienda, il Partito democratico vorrebbe incentivare le parti sociali a ridurre la contrattazione nazionale e aumentare quella a livello aziendale.
Si tratta di un obiettivo largamente condivisibile. Tuttavia, per aumentare il peso del salario deciso in azienda non è necessario l’intervento dello Stato. Sarebbe infatti sufficiente la piena volontà delle parti sociali di riformare il sistema contrattuale. Inoltre una diversa tassazione tra salario deciso in azienda e salario deciso a livello nazionale finirebbe per complicare ulteriormente la busta paga dei lavoratori dipendenti. La proposta del Partito democratico escluderebbe tutti i lavoratori delle piccole imprese dove non ci sono i sindacati e dove la contrattazione aziendale non ha luogo.
Il Partito democratico ha inserito in programma anche l’istituzione di un “compenso minimo legale di mille euro per i precari”. Si tratta di una proposta confusa, perché un vero e proprio salario minimo nazionale dovrebbe essere definito su base oraria e non su base mensile. Inoltre, il salario minimo nazionale si dovrebbe applicare a tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo di contratto.

POPOLO DELLA LIBERTÀ

Il Popolo della libertà promette invece di detassare gli straordinari. La proposta sarebbe abbastanza facile da applicare e i beneficiari  sarebbero tutti i lavoratori che fanno molte ore di straordinario.
Detassare lo straordinario significa però incentivare le imprese a utilizzare con maggior intensità la manodopera esistente, piuttosto che incentivare l’assunzione di nuovi lavoratori. Anche se il numero di occupati è notevolmente cresciuto, l’Italia ha molto bisogno di aumentarlo ulteriormente . Se in molte famiglie il maschio lavora e la donna sta a casa, attuando questa proposta finiremmo per aumentare le ore di lavoro del maschio e diminuire le prospettive occupazionali della donna.

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