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MISURARE LA PRODUTTIVITA’ NEL SETTORE PUBBLICO

L’Agenzia delle Entrate ha studiato una metodologia per quantificare la produttività del lavoro in ambito pubblico. La chiave di volta consiste nell’individuare i servizi esterni erogati, destinati ai singoli cittadini o alla collettività nel suo insieme. A ciascuna tipologia si associano uno o più indicatori, oggettivamente misurabili e verificabili: la produttività diventa così uno strumento per monitorare l’efficienza. Il metodo scoraggia l’utilizzo di arbitrarie promozioni di massa e incrementi non giustificati delle retribuzioni nelle qualifiche più alte.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Diversi lettori hanno espresso un certo scetticismo rispetto alla possibilità che la concorrenza possa ridurre la discriminazione sul mercato del lavoro. In particolare, una lettrice argomenta che la concorrenza ha fatto sparire “i concorsi e l’orario di lavoro contrattuale” dando origine a pratiche di assunzione e promozione non basate sul merito e la produttività potenziale. La lettrice sembra tuttavia alludere più al settore pubblico che al settore privato. Il settore pubblico in Italia come in altri paesi non è esposto a una vera concorrenza di mercato. Alcuni paesi hanno introdotto meccanismi volti ad aumentare l’efficienza del settore pubblico ed a promuovere la meritocrazia ma fondamentalmente la pressione concorrenziale sul settore non è cambiata radicalmente (tranne che il settore pubblico o para-pubblico si è tendenzialmente ridotto). Ciò a cui allude giustamente la lettrice, non è la pressione concorrenziale esterna a un’impresa o un’organizzazione, a cui ci riferiamo invece nell’articolo, ma è l’introduzione di una maggiore flessibilità nel pubblico impiego senza adeguati incentivi per il management, che può offrire, al contrario, opportunità per la discriminazione, perché lascia più margini di manovra senza, appunto, aumentare la pressione a fornire servizi più efficienti e dunque a assumere e incentivare i migliori, indipendentemente dal loro sesso. Questo non vuol dire che una maggiore flessibilità, rispetto a un sistema rigido di concorsi, non debba essere introdotta, ma ciò richiede adeguati checks and balances. Nell’articolo, viceversa, discutiamo l’effetto della pressione concorrenziale nel privato, la quale constringe la le imprese  ad assumere e promuovere i migliori per evitare di perdere quote di mercato.

Ma è importante chiarire un punto rispetto alla natura della discriminazione. Da un punto di vista teorico una maggiore concorrenza sul mercato può anche aumentare le pratiche discriminatorie quando queste sono percepite come profittevoli per le imprese. Inoltre, la concorrenza può portare le imprese allÂ’adozione di forme di organizzazione del lavoro che penalizzano certi gruppi, tra cui le donne. Ad esempio, maggior concorrenza spesso costringe le imprese a rispondere rapidamente allÂ’evoluzione della domanda e per far questo le imprese spesso richiedono una maggiore flessibilità dellÂ’orario del lavoro che di fatto penalizza alcuni lavoratori. Due considerazioni si impongono tuttavia a questo riguardo. Primo, gli studi empirici mostrano che, almeno sulle differenze salariali e occupazionali tra uomini e donne, gli effetti benefici di una maggiore concorrenza dovuti alla riduzione della discriminazione “inefficiente” – cioè basata sul pregiudizio — tendono a dominare gli effetti negativi dovuti a un aumento di pratiche di gestione di fatto sfavorevoli alle donne. Secondo, unÂ’adeguata legislazione anti-discriminazione serve appunto a combattere queste pratiche quando sono discriminatorie (per esempio quando una donna si vede rifiutare un posto di responsabilità per il semplice fatto di essere mamma, indipendentemente dalla sua effettiva disponibilità di tempo e dalle sue capacità). Inoltre, altri interventi di politica economica (in particolare unÂ’adeguata politica della famiglia) possono aiutare a disincentivare queste pratiche e/o a ridurne gli effetti quando non si tratta di pratiche discriminatorie.
Infine, le leggi possono favorire cambiamenti culturali quando questi sono alla base della discriminazione . Si pensi, per esempio, all’effetto dell’introduzione delle leggi contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti, in una situazione in cui, almeno in alcuni Stati , il problema era radicato in attitudini sociali e culturali. (1) Ovviamente questo richiede anche che le leggi anti-discriminazione siano efficaci ed applicate  rigorosamente, proprio quello che è assente in Italia.

Su un altro fronte, un altro lettore è scettico sulla possibilità che, dato il livello basso dei salari, ci possa essere oggi in Italia discriminazione basata sul sesso. Questo presupporrebbe che i salari nominali si siano ridotti e schiacciati contro i minimi contrattuali. Ma il problema principale in Italia è la bassa, bassissima, crescita della produttività che limita gli incrementi salariali in generale ma non impedisce che le disparità tra i salari dei lavoratori vengano mantenute se non aumentate. Inoltre, anche se un uomo e una donna fossero pagati nello stesso modo per un lavoro uguale, ciò non impedirebbe, come ricordato dalla lettrice di cui sopra, che la discriminazione si possa realizzare riguardo alle opportunità di lavoro offerte alle donne, generando quindi differenze salariali medie tra i sessi dovute unicamente alla discriminazione.

(1) Si veda per esempio: Leonard (1984), “Antidiscrimination or Reverse Discrimination: The Impact of Changing Demographics, Title VII, and Affirmative Action on Productivity”, The Journal of Human Resources, Vol. 19, No. 2, pp. 145-174, Chay (1998), “The Impact of Federal Civil Rights Policy on Black Economic Progress: Evidence from the Equal Employment Opportunity Act of 1972”, Industrial and Labor Relations Review, Vol. 51, No. 4, pp. 608-632, e Hahn et al. (1999), “Evaluating the Effect of an Antidiscrimination Law using a Regression-Discontinuity Design”, NBER Working Paper No. 7131.

QUEGLI INDICATORI NEMICI DELLE DONNE*

La legge sugli incentivi alle aziende che assumono donne non si applica alla Calabria, che pure ha un tasso di occupazione femminile al 31 per cento. Un caso che deve servire da monito per il futuro. Se gli indicatori utilizzati per ripartire gli stanziamenti per le politiche sociali e del lavoro si basano solo sulla disoccupazione, in alcune fasi potrebbero essere penalizzati proprio i segmenti più deboli sul mercato del lavoro. Costruire o individuare l’indicatore adeguato a misurare un fenomeno è difficile, ancora più complesso è costruirne uno sensibile al genere.

QUALE RIFORMA PER IL PUBBLICO IMPIEGO

Sul pubblico impiego il governo indica una serie di innovazioni che è difficile non condividere. Quindici anni di insuccessi, tuttavia, spingono a essere cauti sulla possibilità di realizzarle. Perdura l’idea di applicare in modo uniforme gli stessi principi a tutta la pubblica amministrazione. E riemergono i progetti ad hoc di miglioramento della produttività. Mentre l’esperienza insegna che sarebbe preferibile un approccio graduale, iniziando a misurare e premiare la produttività delle strutture prima che quella dei singoli. Sulla base di indicatori ben definiti e trasparenti.

PERCHE’ AUMENTA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE

Dopo due anni di continua discesa, il tasso di disoccupazione nel primo trimestre dell’anno in Italia è tornato a crescere: 7,1 per cento rispetto al 6,4 per cento del primo trimestre del 2007. Non è una buona notizia, ma deve comunque essere letta con attenzione. Il tasso di disoccupazione può aumentare perché diminuiscono gli occupati o perché aumentano le persone che vogliono cercare un lavoro. In Italia negli ultimi dodici mesi sono stati creati più di trecentomila posti di lavoro grazie a un importante contributo dei lavoratori stranieri. Il tasso di occupazione, il rapporto tra occupati e persone tra 15 e 65 anni, è infatti aumentato ancora e si attestato al 58,3 per cento. In sostanza il tasso di disoccupazione è aumentato perché vi è stato un massiccio aumento dell’offerta di lavoro. L’aumento della disoccupazione non è ancora un fenomeno preoccupante, anche perché ad aumentare è stata soprattutto la componente femminile della forza lavoro, con una crescita quasi del 4 per cento in tutto il territorio, mezzogiorno compreso. Se il mercato del lavoro funziona, queste persone troveranno presto un lavoro e contribuiranno ad aumentare il tasso di occupazione del Paese. A livello legislativo, il Governo ha presentato una serie di modifiche legislative sulla regolamentazione dl lavoro. Il disegno di legge prevede la reintroduzione del lavoro a chiamata, una figura prevista dalla legge Biagi e cancellata dal Governo Prodi. Si prevede anche un’ulteriore liberalizzazione del lavoro a termine, con l’introduzione di deroghe oltre i 36 mesi introdotti nella precedente legislatura. Si tratta, tutto sommato, di modifiche marginali e che non cambieranno in modo significativo il nostro mercato del lavoro. Più importante è invece l’abolizione completa del divieto di cumulo tra pensione e lavoro. E’ una misura che certamente contribuirà a aumentare il tasso di occupazione degli individui sopra i 55 anni. Ne avevamo bisogno.

COME RIFORMARE LA CONTRATTAZIONE

Si riapre dopo la pausa elettorale il negoziato sulla riforma del sistema contrattuale. A dispetto dei tanti richiami allÂ’inderogabilità della questione salariale, è da dieci anni che questa riforma viene rimandata. Siamo così rimasti agli assetti di quindici anni fa, che da tempo hanno mostrato tutti i loro limiti. (Aggiornamento dell’intervento pubblicato il 20 marzo 2008).
Un contributo alla discussione del ministro per la Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione Renato Brunetta.

PER UNA PROPOSTA DI SHOPPING CONTRATTUALE

1. Le rigidità presenti nel mercato del lavoro determinano inefficienze nellÂ’allocazione dei fattori della produzione e, in ultima analisi, livelli occupazionali più bassi. Inoltre, l’adozione di basi salariali uniformi, in presenza di strutture dei costi difformi, oltre ad essere economicamente inefficiente, favorisce il consolidamento della grande impresa ed esclude dal mercato le nuove imprese o quelle minori.

2. Se tutto questo è vero, un assetto contrattuale efficiente per qualsiasi mercato del lavoro deve necessariamente evitare rigidità non strutturalmente indispensabili al funzionamento del sistema, al fine di favorire la diffusione di relazioni industriali appropriate e calate su ciascuna realtà produttiva, che hanno evidenziato la correlazione esistente tra grado di centralizzazione della contrattazione salariale e performance occupazionali, individuando nelle forme estreme (alta centralizzazione, bassa centralizzazione) gli assetti in grado di massimizzare il livello di occupazione.

3. Se, infatti, le rigidità non adattive impediscono lÂ’allocazione ottimale dei fattori della produzione, e livelli intermedi o livelli sovrapposti di centralizzazione della contrattazione salariale determinano tassi di disoccupazione maggiori, l’assetto ottimale potrebbe essere quello caratterizzato da una flessibilità sufficiente a favorire la spontanea adozione tra le parti del livello contrattuale ritenuto più appropriato per ogni singolo settore. Chiaramente, in assenza di una norma che imponga alle parti un determinato livello di centralizzazione, per gli assunti precedenti, nessuno si indirizzerà su una centralizzazione media di sottoccupazione ed inefficiente allocazione delle risorse, o se lo farà, ne subirà gli svantaggi modificando, nel futuro, il proprio comportamento.

4.    In altre parole, la riduzione delle rigidità al livello minimo necessario al funzionamento di un particolare mercato quale quello del lavoro, lungi dal ridurre la dialettica tra le parli, potrebbe, invece, incrementarla fino a giungere a favorire una sorta di "shopping contrattuale" con cadenza biennale o triennale, dove il primo passo negoziale (necessariamente nazionale) dovrebbe essere quello di accordarsi sull’unico livello ottimale di contrattazione (per un determinato periodo). In questo modo, in alcune realtà produttive potrà essere definito un livello contrattuale nazionale (alta centralizzazione), in altre un contratto aziendale (bassa centralizzazione). Chiaramente dovrà essere eliminata qualsiasi sovrapposizione tra livelli attraverso una sorta di gerarchia funzionale della prassi negoziale, lasciando comunque al livello di alta centralizzazione la trattazione dei macroaspetti del settore (la definizione del livello prescelto, la modulazione territoriale dei minimi salariali e le relative deroghe…), mentre a livello di medio bassa centralizzazione saranno destinate tutte le materie salariali, organizzative (orari), partecipative (profit sharing), previdenziali ecc.

5. Gli effetti positivi di una simile dinamica delle relazioni industriali sarebbero evidenti nel funzionamento del sistema produttivo già dai primi cicli di shopping contrattuale, ma il trascorrere del tempo ed il progressivo apprendimento cooperativo di entrambe le parti ne aumenterebbe costantemente la qualità, stabilizzando il sistema produttivo su livelli di efficienza via via sempre maggiori, al livello più alto di occupazione.

6. Gli accordi di luglio (3 luglio 1992 e 23 luglio 1993) potrebbero facilmente essere rivisti secondo le linee sopra esposte, in ragione, soprattutto, del venire meno dell’obiettivo disinflazionistico che era stato alla base di quegli accordi tripartiti.

7. Il livello nazionale di contrattazione potrebbe restare con la funzione di macroregolazione di settore, ma senza valenze salariali (verrebbero meno i meccanismi di regolazione salariale in ragione dell’inflazione programmata, coincidendo questa con l’inflazione effettiva e con tale semplificazione non avrebbero più senso i recuperi), se non un eventuale utilizzo della clausola della scala mobile carsica in caso di patologica assenza di contrattazione di secondo livello. Quest’ultima (a livello variabile, come abbiamo visto), dovrebbe essere l’unico vero strumento di distribuzione efficiente dei guadagni di produttività (sia nella versione baumoliana che in quella kaldoriana) a fini di efficienza e di massimizzazione dell’occupazione. Su questa base il secondo livello di contrattazione andrebbe premiato e favorito in tutti i modi (in quanto capace di ottimizzare crescita e occupazione) attraverso legislazioni di sostegno (penalizzazione in tema di incentivi per quelle aziende e quei fattori che non realizzassero fisiologicamente la contrattazione), incentivi fiscali e parafiscali ad aziende e fattori efficienti ed innovativi nell’applicare le nuove relazioni industriali.

8. In questo modo la contrattazione di secondo livello aumenterebbe progressivamente (in uno o due cicli negoziali) nella sua capacità di copertura dell’intero mondo aziendale, in una sorta di sincronica complementarizzazione rispetto al venire meno del ruolo salariale della contrattazione nazionale.

9. Autoregolazione, autorganizzazione, apprendimento, adattamento continuo rispetto ai segnali provenienti dal cambiamento tecnologico e dal ciclo economico dovrebbero essere le linee guida del nuovo percorso di relazioni industriali nel nostro Paese.

L’IRPEF SENZA GLI STRAORDINARI

La detassazione degli straordinari modifica in modo significativo la fisionomia del più importante tributo italiano. Perciò, non bisogna solo capire se gli obiettivi siano giusti, ma anche se lo strumento individuato sia il più corretto. L’agevolazione fiscale persegue finalità che si prestano a non poche obiezioni, dà risultati iniqui, contrasta con principi cardine del sistema d’imposizione personale del reddito, risponde solo parzialmente a un possibile effetto di inefficienza che riguarda una parte esigua dei soggetti coinvolti e favorisce fenomeni elusivi.

GRANDI INTESE O GRANDI ELUSIONI FISCALI?

Si profila all’orizzonte un grande accordo sulla detassazione dello straordinario e delle componenti variabili del salario. Sarebbero d’accordo tutti: dalla maggioranza all’opposizione, da Confindustria al sindacato. Nelle migliori intenzioni dovrebbe servire a rafforzare il decentramento della contrattazione salariale e un più forte legame dei salari con la produttività. Ma vi sono grandi rischi di elusione fiscale. Non a caso il Governo sta predisponendo tanti paletti, complicando ulteriormente il sistema fiscale. E per decentrare la contrattazione non c’è alcun bisogno di sgravi fiscali. Meglio sarebbe tagliare le tasse sul lavoro per tutti e riformare davvero la contrattazione.

E LE DONNE RESTANO A CASA

Nel rapporto di Save the Children l’Italia è agli ultimi posti fra i paesi europei per condizioni di salute, lavoro e pari opportunità delle madri. Quoziente familiare e detassazione degli straordinari  aumentano il divario tra lavoratori e lavoratrici. Mentre con costi simili si potrebbero detassare le spese delle famiglie con figli in cui le madri lavorano e usano servizi, in un percorso volto a modificare la struttura familiare italiana, caratterizzata da ruoli fortemente tradizionali. Altrimenti, il rischio è di rendere ancora più grave il binomio donne a casa e culle vuote.

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