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CONFINDUSTRIA NON PUÒ GUARDARE DA UN’ALTRA PARTE

Da dieci anni il nostro paese aspetta una revisione degli assetti contrattuali. Per spostare il baricentro della contrattazione a livello di azienda, dove si può meglio incentivare la produttività, cercare un’organizzazione del lavoro più efficiente, premiare il merito collettivo e individuale e migliorare le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno. Ma tutto tace mentre quasi il 70 per cento dei lavoratori dipendenti è oggi in regime di vacatio contrattuale. Le aziende private, ristrutturate ed efficienti, che hanno unilateralmente deciso di rimpinguare le buste paga dei loro dipendenti, dovrebbero ora guidare una vera riforma della contrattazione.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio anzitutto per l’attenzione. L’articolo per sua natura è un testo breve, e non può affrontare la questione se non superficialmente, e con diverse lacune. I due commenti ne indicano giustamente alcune. Prima di rispondere nel merito desidero però ribadire l’oggetto fondamentale del mio intervento: le condizioni economiche e politiche attuali sono tali che -a mio parere- ha scarso senso, in termini economici, continuare a puntare su una strategia che voglia garantire un posto fisso ad ognuno, dove con posto fisso intendo un’occupazione nella stessa azienda o anche solo nello stesso settore produttivo. In particolare, non intendevo indicare i dettagli di specifiche misure di politica economica (come il reddito minimo garantito o la provenienza dei fondi con cui finanziarlo), ma suggerire l’obiettivo che la politica dovrebbe darsi, per dibattere sugli strumenti in maniera più ordinata.
Sui numeri: iniziamo con quanto l’Italia già spende. Dovremmo anzitutto distinguere tra reddito minimo e sussidio di disoccupazione. La prima è una misura residuale, che vuole impedire che chiunque abbia un reddito inferiore una certa soglia. Per la povertà l’Italia spende 11€ pro-capite, dunque letteralmente non ci sono cifre di cui parlare.
I trattamenti di disoccupazione hanno invece lo scopo di sostenere temporaneamente il reddito dei lavoratori, nel passaggio da un’occupazione ad un’altra. Per ciò l’Italia spende circa lo 0.5% del PIL, contro una media europea dell’1.8%; mentre per le politiche per il lavoro complessivamente l’1.3% contro il 2.2% europeo (dati Eurostat). Senza bisogno di paragoni con la solita Danimarca, è di tutta evidenza che i 3 punti di PIL in più che dedichiamo alla spesa per pensioni in qualche maniera ci impediscono di fare tante altre cose (così come la grossa spesa per interessi sul debito pubblico). Non sono tra quelli che credono dovremmo sempre imitare l’estero, ma proporre uno scambio tra quanto si può risparmiare in previdenza, e quanto in più si può dedicare al Welfare State mi sembra un’idea ragionevole.
Oltre i livelli di spesa, dovremmo parlare anche di come spendiamo: da un lato, come detto nel testo, il sostegno al reddito riguarda attualmente solo categorie di privilegiati (coloro che accedono alla Cassa Integrazione, semplificando un pò). D’altro lato, questi fondi sono concessi senza alcuna condizione a chi li riceve (in teoria ci sarebbe il divieto di rifiutare un’offerta di lavoro “congrua”, ma di fatto non c’è sanzione). Inserendo l’obbligo di partecipare ad attività di formazione e reimpiego, non solo favoriremmo la capacità del sistema di adattarsi continuamente agli sviluppi economici e sociali, ma introdurremmo limiti temporali alla durata del beneficio (pari al massimo alla durata dei programmi) ed eviteremmo disincentivi al lavoro, dunque complessivamente risparmiando risorse.
Desidero concludere notando che alcune misure possono intanto essere introdotte, in misura minore a quanto idealmente auspicabile, come prima risposta a situazioni insostenibili. Considerando ad esempio il numero di lavoratori veramente “precari” (gli iscritti alla Gestione Separata dell’INPS, a parte professionisti, amministratori e sindaci di società, membri di collegi e commissioni), è stato presentato in Senato un emendamento alla Legge Finanziaria che quantifica il costo di un sussidio di disoccupazione pari a 300€ al mese per 6 mesi, per un costo complessivo inferiore (sotto ipotesi pessimistiche) agli 800 milioni di euro l’anno. Una cifra non impressionante: più o meno quanto le Regioni nel periodo 2001-2006 hanno accumulato in fondi europei non spesi (Fondo Sociale Europeo).
Insomma, a volte l’inazione politica deriva da non condivisione degli obiettivi, e non da mancanza di mezzi. Ad esempio, alcuni partiti legittamente aspirano all’abolizione completa della flessibilità del lavoro, come fine ultimo. Così facendo finiscono però per agire, per le concrete condizioni di vita dei lavoratori flessibili, molto meno di quanto sarebbe possibile.
Per quanto attiene le differenze regionali, non c’è dubbio la questione merita un approfondimento. Non posso qui discutere delle cause del sottosviluppo del Sud, e non ne avrei le competenze. Per quanto riguarda l’occupazione, noto solo che l’analisi a volte deve astrarre da fattori pur rilevanti, ma non oggetto di indagine al momento (ad esempio, il mio ragionamento astrae anche dalle differenze di genere, certo non meno rilevanti per il mercato del lavoro).
Per quanto riguarda la contrattazione, ribadisco solo che si tratta di scegliere tra una strategia che punti a sopravvivere riducendo i costi (che io considero fallimentare di fronte ai giganti emergenti, ma si tratta di una scommessa), e una che invece punti a competere favorendo l’accumulazione capitalistica e l’innovazione tecnologica.
Anche per questo condivido l’osservazione finale: se le imprese usano permanentemente contratti temporanei, evidentemente non cercano flessibilità, ma bassi costi (a parte la libertà di licenziare e il ricatto che ne deriva). Qui però entriamo nel problema degli abusi delle forme contrattuali flessibili, che va distinto da quello sull’esistenza della flessibilità, quella vera. A tal proposito, noto solo che alcune imprese sostanzialmente sopravvivono nel mercato (e fanno profitti) solo grazie a tali abusi: vale dunque l’ultima osservazione del mio testo, sull’opportunità di liberarsene, ma anche una necessaria prudenza nei modi e nei tempi, trattandosi pur sempre di posti di lavoro (di bassa qualità, ma posti di lavoro).

TRE RIVOLUZIONI CONTRO LA PRECARIETA’

Per uscire dal dualismo del mercato del lavoro sono necessarie tre rivoluzioni: abbandonare l’idea che il posto fisso possa continuare a essere la normalità, istituire un reddito minimo garantito a tutti i cittadini e tutelare la contrattazione collettiva come base contrattuale. L’Italia si prepara a decenni di rilevanti cambiamenti strutturali, in quel che produciamo e in come e dove lo produciamo. Controproducente illudersi che la flessibilità del salario permetta di sopravvivere alla produzione di merci a basso contenuto tecnologico.

Il “TESTO UNICO” DEL CONTRATTO UNICO

Una serie di chiarimenti sulle proposte di contratto unico di lavoro, salario minimo nazionale e contributo nazionale uniforme. I temi, lanciati e sostenuti da tempo sulle pagine de lavoce.info, fanno discutere e molti lettori hanno chiesto precisazioni. Ecco un primo abbozzo delle regole per una riforma che possa conciliare flessibilità e tutele e permetta di superare il dualismo fra contratti permanenti e contratti temporanei.

LA GERMANIA DELLE RIFORME INCOMPIUTE

Dopo un decennio di crisi, l’economia tedesca si è rimessa in moto: quest’anno la crescita sarà probabilmente superiore al 2,5 per cento. Una buona notizia per il paese e per tutta l’Europa. Ma la ripresa è destinata a durare? I dati positivi di oggi sono dovuti in larga parte alle riforme del mercato del lavoro introdotte negli ultimi tre anni. Invece di proseguire su questa strada, si parla ora di aumento dei sussidi di disoccupazione e di ripensamenti sull’innalzamento dell’età per la pensione. Un ritorno al passato molto rischioso, non solo per la Germania.

L’ALIBI DEL MERITO

Quando si parla di ricambio generazionale inceppato in Italia, alcuni sostengono la tesi che la variabile età di per sé non conti e che l’unico criterio da adottare sia quello del merito. C’è però il rischio che questo argomento sia un pretesto per lasciare irrisolta la questione generazionale. Almeno per quattro motivi. Eppure, se non si affronta seriamente il problema, saremo destinati ad accentuare la nostra naturale propensione a difendere il benessere acquisito anziché investire sul futuro.

Un unico contratto e tante delucidazioni

Con il rallentamento della crescita dell’occupazione, certificato dalle ultime indagini sulle forze lavoro, vengono al pettine i nodi irrisolti delle riforme del mercato del lavoro degli ultimi quindici anni. E al persistente dualismo territoriale, si sovrappone il dualismo fra contratti permanenti e contratti temporanei. Un problema reale che abbiamo cercato di affrontare con una proposta di riforma pubblicata su lavoce.info più di due anni fa. Molti lettori ci hanno chiesto spiegazioni a riguardo e vogliamo qui offrire risposte ad alcuni dei quesiti più frequenti.

Quattro tappe per riformare il mercato del lavoro in Francia*

Rendere più sicuri i percorsi professionali e più efficace il sistema di indennità di disoccupazione cambiandone il finanziamento. Oltre a razionalizzare le procedure di licenziamento. Si tratta di riforme possibili per il mercato del lavoro francese. A patto di realizzarle contemporaneamente per ottenere l’assenso delle parti sociali. Una volta in atto, permetterebbero di ridurrebbe il numero dei senza lavoro, aprirebbero prospettive più stimolanti per i giovani. Soprattutto, garantirebbero una maggiore crescita economica.

Il gap manageriale del vecchio continente *

Perché l’Europa cresce meno degli Stati Uniti? Tra le varie cause, una non viene quasi mai citata: la differenza nelle pratiche manageriali. E la stessa letteratura economica non è di grande aiuto. Una ricerca recentemente condotta mostra come le pratiche manageriali abbiano un forte impatto sulla produttività d’impresa. E come mercati concorrenziali e lavori flessibili siano rilevanti per un management efficiente.

Quando il lavoro è intermittente

Il contratto di lavoro intermittente (o lavoro a chiamata) è stato fin dall’inizio tra le più controverse innovazioni introdotte dalla legge Biagi. Ma quanto viene usato? In che forma? Da quali aziende? I dati del Centro Impiego del Veneto possono aiutarci a fissare dimensioni e caratteristiche dell’adozione di questa formula che nel corso del tempo è stata sempre più utilizzata, ma che potrebbe sparire in seguito alla riforma del welfare.

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