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Categoria: Moneta e inflazione Pagina 31 di 36

I PRIMI DIECI ANNI DELL’EURO *

Il 1º gennaio 1999 nasceva l’area euro. Caratterizzata da un’architettura istituzionale senza precedenti: la sua vera novità è la relazione che intercorre tra la politica monetaria unica e la molteplicità delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri. Benché al debutto della moneta unica fossero molte le incertezze e gli interrogativi, il primo decennio dell’euro è stato una storia di successo. Oggi vale la pena di ricordare quelle sfide originarie per riconoscere nella crisi attuale l’opportunità di rafforzare la governance europea.

SE IL PETROLIO NON INFIAMMA L’INFLAZIONE*

Dal 2002 al 2008 l’economia americana si è trovata nella morsa di uno shock petrolifero comparabile per entità alle due crisi provocate dai paesi Opec negli anni Settanta e Ottanta. Eppure gli effetti sono stati molto diversi, a partire da un’inflazione core rimasta sostanzialmente stabile. Un risultato che dipende da una lunga serie di fattori, nessuno dei quali sembra predominante, ma ognuno dei quali gioca un ruolo. Con un po’ di fortuna e politiche sagge, non è più necessario che gli shock alimentari ed energetici abbiano quegli effetti devastanti che invece hanno avuto in passato.

IL DECENNIO PERDUTO DEL GIAPPONE

Torna la paura della deflazione, intesa nel senso di diminuzione generalizzata dei prezzi. Utile allora guardare cosa è accaduto in Giappone, che ha sperimentato la stagnazione per dieci anni. Almeno ufficialmente, perché in realtà la crisi serpeggia ancor oggi: il Nikkei non è lontano dal minimo di gennaio 2003 e da aprile 2008 il paese è di nuovo tecnicamente in recessione. Il reddito è sceso solo nel biennio 1998-99 mentre i prezzi sono calati nel 1995, dal 1999 al 2003 e nel 2005. E la spesa in consumi delle famiglie dei lavoratori replica la discesa dei prezzi al consumo.

UN UOMO SOLO CONTRO LA DEFLAZIONE

La discesa dei prezzi di oggi potrebbe trasformarsi in deflazione e aggravare così la crisi. E’ il timore di Ben Bernanke, che per questo ha portato il Fed Funds Rate quasi a zero, per dare fiato ai consumatori e agli investimenti. Ma il presidente della Fed è anche l’unico a combattere questa battaglia. Perché gli Stati Uniti sono nel periodo di transizione fra due presidenti e l’Europa si muove con una lentezza da pachiderma. Soprattutto per la posizione della Germania.

SE LA FED PUNTA AL TASSO ZERO: TRE DOMANDE A TOMMASO MONACELLI

Cosa significa azzeramento (o quasi) del tasso di interesse?

“La decisione di cui parliamo è una decisione di portare a zero – o meglio a un intervallo compreso tra 0 e 0,25 – il costo a cui le banche ufficialmente possono scambiare fondi tra di loro o attingere fondi direttamente dalla Banca centrale americana. EÂ’ un modo per riconoscere il fatto che le condizioni nel mercato del credito negli Stati uniti vanno sempre più peggiorando e che c’è necessità di incentivare le banche a scambiarsi fondi tra di loro. EÂ’ una decisione abbastanza irrilevante perché il mercato e quindi gli scambi fra le banche erano già arrivati a tassi vicini allo zero e quindi la Fed non sta facendo altro che seguire quello che il mercato ha di fatto ratificato da diversi mesi.”

Lei quindi non giudica positivamente questa operazione senza precedenti della Federal Reserve?

No, la giudico come qualcosa di assolutamente inevitabile e prevedibile, la cosa interessante sarà vedere da qui in poi come la Fed condurrà la politica monetaria perché è chiaro che i tassi di interesse – che significa quanto costa dare e prendere a prestito denaro – non possono andare sotto lo zero. Quindi, quanto i tassi raggiungono un livello prossimo allo zero, la banca centrale non ha più modo di stimolare lÂ’economia e di rendere il denaro più a buon mercato. Da qui in poi sarà interessante vedere quali strumenti verranno utilizzati e su questo aspetto ci sono moltissime ipotesi che vengono fatte.”

Secondo lei come si regolerà di conseguenza la Banca Centrale Europea?

 “La Bce ha un poÂ’ più di margine perché sta partendo da tassi di interesse più alti; è stata più graduale nel ridurre i tassi perché lÂ’acuirsi della crisi è stato meno violento però la sensazione è che la crisi si stia deteriorando anche in Europa. Credo dunque che arriveremo a decisioni di ulteriore ribasso dei tassi anche da parte della Bce e a livello di tassi che in Europa non si vedevano da decenni.”

SE IL BANCHIERE CENTRALE METTE MANO AI SUOI ATTREZZI

La Banca Centrale Europea ha abbassato il tasso di riferimento dello 0,75 per cento. Un taglio consistente che tuttavia lascia ancora un buon margine di discesa senza trascurare la stabilità macroeconomica. Negli Stati Uniti, invece, il tasso della Fed si avvicina pericolosamente allo zero. Con il rischio che si rendano inefficaci i diversi strumenti strategici del banchiere centrale, dalle operazioni di mercato aperto al manovrare correttamente le aspettative. Come si stanno comportando, in concreto, i governatori degli istituti di Francoforte, Washington e Londra?

PIU’ CORAGGIO CONTRO LA DEFLAZIONE

L’effetto benefico della deflazione sul potere d’acquisto dei consumatori è solo temporaneo e non deve far dimenticare gli effetti nefasti di più lungo periodo. Le famiglie devono perciò riprendere a consumare, consentendo alle aziende di assumere e investire. I paesi europei con i conti in ordine dovrebbero varare al più presto un’espansione fiscale che aumenti il reddito netto dei consumatori sottoposti a più stringenti vincoli di liquidità e con la più alta propensione al consumo. Tra questi Stati non c’è l’Italia, che però beneficerebbe di un aumento delle esportazioni.

VENTI DI DEFLAZIONE

I consumatori italiani si preoccupano molto dell’inflazione. Invece nei prossimi mesi il pericolo da cui l’Italia e l’economia mondiale in generale dovranno guardarsi potrebbe essere la riduzione generalizzata dei prezzi. I venti deflazionistici soffiano sulla scia del rallentamento indotto dalle restrizioni del credito seguite alla crisi dei mutui che pian piano si sta trasmettendo a tutta l’economia americana prima e poi all’Europa. Ma di deflazioni non se ne sono più viste dopo gli anni Trenta. Ed è particolarmente difficile combattere un fenomeno che non si conosce.

PIU’ ALTI I TASSI, PIU’ FORTI LE CRITICHE

La Bce rialza i tassi nonostante le pressioni dei politici europei. Perché cedere a quelle richieste equivarrebbe a una perdita netta di credibilità. Ma anche dai tecnici sono arrivate critiche. Eppure il modo migliore di condurre la politica monetaria è muovere i tassi oggi affinché le previsioni di inflazione da qui a 18-24 mesi appaiano in linea con determinati obiettivi. A condizione, però, che la banca centrale spieghi con chiarezza come e perché le sue decisioni di oggi influiscono sulla elaborazione delle previsioni stesse. Proprio quello che la Bce non fa.

UN BEL DAZIO ANTI-INFLAZIONE?

Il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, di fronte ad una platea amica a Mogliano Veneto (TV), ha lanciato la sua idea: ci vorrebbe un dazio europeo per aumentare la produzione agricola interna, difendere il mercato dei prodotti agricoli e, in tal modo, combattere l’aumento dei prezzi dei cereali. Non ci posso credere, direbbe Aldo del popolare trio Aldo, Giovanni e Giacomo. L’inflazione in giugno ha raggiunto il 3,8%, mai così alta da 12 anni. Pane e pasta hanno contribuito a questo aumento rispettivamente con un +13% e +22% annuo. E il ministro, non contento di ciò che passa il mercato mondiale di questi tempi, vuole anche tassare le importazioni di cereali. E’ vero che una tassa sulle importazioni, dicono i libri di economia, favorisce i produttori interni a discapito di quelli esteri. Ma lo fa a discapito del benessere complessivo dell’economia perché incoraggia produttori forse italiani ma certamente inefficienti. E lo fa togliendo i soldi dalle tasche dei consumatori. A giudicare dai dati sull’inflazione, gli italiani con i problemi più grossi per arrivare alla fine del mese sono i consumatori, non i produttori, tanto meno i produttori di cereali che continuano a godere dei supporti di reddito garantiti dalla Politica Agricola Comune dopo la riforma del 2003. Almeno la Robin Tax di Tremonti è una tassa sui profitti che non aumenta i costi di produzione e quindi di per sé potrebbe non essere trasferita sui prezzi finali (anche se sulla benevolenza di petrolieri e banchieri sarebbe meglio non fare conto). Ma un dazio sulle importazioni di grano, no: aumenterebbe di sicuro i costi e sarebbe trasferito pari pari su più alti prezzi dei cereali, del pane e della pasta. Ministro Zaia, non sarebbe meglio ripensare alla sua idea ed evitare così di far piovere sul bagnato?

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