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UN DECALOGO SULLA SPESA

Tagliare la spesa pubblica non è poi così semplice. Perché gran parte va in interessi, pensioni e stipendi, capitoli sui quali i vari governi sono già intervenuti. Ridurre i bilanci di sanità, scuola, giustizia e altri servizi richiederebbe una revisione del confine pubblico-privato. Gli interventi possono essere solo strutturali con risparmi nel lungo periodo. Positiva allora la formazione della task force ministeriale perché mostra la volontà politica di agire davvero. Ma su questo tema fondamentale, il governo dei tecnici poteva sfruttare meglio il poco tempo a sua disposizione.

LO “SPREAD” DELLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

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SE PER GLI AVVOCATI NON BASTA IL CODICE DEONTOLOGICO

Evidenze empiriche rigorose, nonché le denunce dei cittadini sugli accadimenti relativi alle cause di separazione e affidamento, suggeriscono che tra gli avvocati siano diffusi i comportamenti in violazione del codice deontologico. Come ciò possa avvenire nonostante l’esistenza di un articolato sistema sanzionatorio e quanto siano diffuse queste pratiche resta oscuro, gettando un’ombra sulle finalità della regolamentazione del mercato dei servizi legali. A fare luce, può contribuire l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con un’indagine conoscitiva.

MA DOVE VANNO GLI IMMIGRATI?

Dopo due decenni di stallo, tra il 2001 e il 2011 la popolazione italiana ha ripreso a crescere, grazie all’Â’arrivo degli immigrati o ai nuovi nati figli di immigrati. Lo certificano i dati del censimento divulgati dall’Â’Istat.
In quali aree del paese sono affluiti o sono nati (nel periodo 2001-2011) questi cittadini stranieri? Come mostra la nostra elaborazione dei dati Istat, prevalentemente nelle regioni del Nord, dove i nuovi stranieri arrivati o nati rappresentano tra il 5,5 e il 6 per cento della popolazione residente a fine 2011. E contribuiscono in maniera significativa allo sviluppo economico di queste aree.

EFFETTO PRESIDENTE SULL’ECONOMIA

Il legame tra economia e risultati elettorali funziona anche in senso inverso: lÂ’’esito delle elezioni ha con ogni probabilità un effetto sullÂ’’andamento futuro delle variabili macroeconomiche come la crescita, la disoccupazione e lÂ’’inflazione. Dal punto di vista teorico ciò è tanto più vero quanto più sono distanti le piattaforme programmatiche dei candidati, sia sulla carta che, soprattutto, nei fatti.

DALLA POLITICA ALLÂ’ECONOMIA

Sempre focalizzandoci sul caso degli Stati Uniti, secondo il modello tradizionale del ciclo economico-politico, quando il presidente in carica è un democratico lÂ’’inflazione è in media più elevata e la disoccupazione è più bassa che sotto un presidente repubblicano; dal punto di vista empirico tale conclusione si basa sull’Â’analisi diretta dei dati storici relativi al secondo dopoguerra. Il problema di questa metodologia è che non si riesce a isolare lÂ’’effetto opposto, che va dalle variabili economiche allÂ’’esito elettorale.
Sotto questo profilo, i mercati predittivi inerenti a una certa gara elettorale sono uno strumento utile per valutare in maniera rigorosa lÂ’’effetto della probabilità di vittoria di un candidato o dellÂ’’altro sullÂ’’andamento di variabili macroeconomiche e finanziarie rilevanti. L’Â’idea consiste nellÂ’’analizzare la correlazione tra quotazione sui mercati predittivi dopo che i seggi elettorali sono stati chiusi e lÂ’’andamento contemporaneo di alcune variabili finanziarie rilevanti: la bontà di questo approccio sta nel fatto che, per definizione, lÂ’’andamento del mercato predittivo non è più influenzato dallÂ’’andamento delle variabili economiche, in quanto i cittadini si sono già espressi tramite il voto.
A questo proposito, Eirik Snowberg, Justin Wolfers ed Eric Zitzewitz sfruttano lÂ’’andamento oscillante dei mercati predittivi dopo la chiusura delle urne nel 2004, quando inizialmente gli exit poll davano la vittoria a John Kerry, per poi essere sonoramente smentiti dalla riconferma di George W. Bush. (1) Ebbene, lÂ’’effetto della vittoria di Bush consiste in un apprezzamento tra l’Â’1,5 e il 2 per cento dei mercati azionari, molto probabilmente a motivo della minor tassazione sulle plusvalenze (capital gain) prevista da Bush, e in un aumento dei tassi di interesse nominali, che è verosimilmente dovuto a un aumento del tasso di interesse reale sottostante, e non dellÂ’’inflazione attesa. Secondo gli autori, l’aumento dei tassi di interesse reali potrebbe essere ricollegato alla maggiore propensione degli ultimi presidenti repubblicani a creare un deficit del bilancio federale.
LÂ’’appartenenza politica del presidente potrebbe avere un effetto anche sulle prospettive specifiche dei diversi settori dellÂ’’economia. Brian Knight ha studiato la questione analizzando lÂ’’effetto della contesa elettorale tra Bush e Al Gore nel 2000, ancora una volta sfruttando lÂ’’andamento dei mercati predittivi. (2) Knight mostra come una maggiore probabilità di vittoria per Bush abbia avuto effetti positivi sul settore del tabacco, mentre ha sortito effetti negativi sulle imprese concorrenti di Microsoft, e sui produttori di energia tramite tecnologie alternative. E si noti come questi risultati sono rinforzati dal fatto che le imprese che lÂ’’analisi indica come favorite da Bush sono proprio quelle che hanno sostenuto in maniera sistematicamente più generosa la sua campagna elettorale rispetto a quella di Gore, e viceversa per le imprese che appaiono come sfavorite.
È facile pensare ai mercati finanziari solo in termini speculativi, mentre si dimentica spesso la dimensione assicurativa, che è altrettanto fondamentale. Ciò vale anche in questo caso, nella fattispecie rispetto al rischio politico: cittadini abbienti che verosimilmente avrebbero pagato imposte più elevate sotto Gore che sotto Bush avrebbero potuto assicurarsi contro questo rischio fiscale acquistando prima delle elezioni quei titoli che sarebbero saliti di più nel caso avesse vinto il primo (ed eventualmente vendendo allo scoperto i titoli favoriti dal secondo).
E in Italia? Se nel 2013 ci sarà ancora una forma di bipolarismo politico, Mediaset è lÂ’’azienda giusta per fare arbitraggi tra variabili politiche ed economiche: chi è avverso al rischio e teme di essere svantaggiato da una vittoria del centrodestra dovrebbe acquistare azioni Mediaset. E viceversa dovrebbe venderle allo scoperto chi si aspetta svantaggi dal centrosinistra.

(1) Erik Snowberg, Justin Wolfers e Eric Zitzewitz [2007]. “Partisan Impacts on the Economy: Evidence from Prediction Markets and Close Elections” Quarterly Journal of Economics, May 2007, 122(2) 807-829. Disponibile qui.
(2) Brian Knight [2007] “Are policy platforms capitalized into equity prices? Evidence from the Bush/Gore 2000 Presidential Election.” Journal of Public Economics 91(1-2): 389-409. Disponibile qui. Per l’idea di mercati azionari collegati alle elezioni a fini assicurativi, si veda David Musto and Bilge Yilmaz [2003]. “Trading and voting.” Journal of Political Economy, 111. Disponibile qui nella versione working paper.

PREVEDERE LE PRESIDENZIALI USA. E VEDERE L’EFFETTO CHE FA

Dopo il ritiro di Rick Santorum, lo sfidante di gran lunga più credibile, è ormai certo che Mitt Romney sarà il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Adesso l’attenzione si sposta sulla scelta dei ticket presidente-vicepresidente e sulle elezioni di novembre. Ma chi sarà il vincitore? Lo indicano i mercati predittivi. Che aiutano anche a rispondere a due domande: che effetti ha l’andamento dell’economia sul risultato elettorale? E che dire degli effetti del risultato elettorale sulle prospettive economiche future?

FREQUENZE E TV NELL’ERA DI MONTI

Con la norma che annulla il beauty contest per l’assegnazione delle frequenze Tv e impone l’adozione di un’asta a titolo oneroso, per la prima volta un governo italiano cerca di mettere ordine nel sistema frequenziale. È un buon avvio anche se il successo dell’asta dipenderà da molti fattori.  E tuttavia la questione richiede chiarezza e trasparenza. In particolare, sul pacchetto delle frequenze in banda 700 MHz, che dal 2015 saranno riservate ai servizi di larga banda mobile. Il meccanismo di attribuzione sembra troppo articolato e soprattutto produrrà scarsi introiti per lo Stato.

SE COMUNE VIRTUOSO FA RIMA CON MAFIOSO

Individuare una definizione condivisa di virtuosità è oggettivamente difficile. Si dovrebbe poi cercare di andare al di là del mero ambito finanziario e contabile, anche per evitare di inserire nella lista dei “buoni” comuni commissariati per infiltrazioni mafiose, come invece è accaduto. Una possibile alternativa è quella di privilegiare non tanto gli enti, quanto le spese e le politiche virtuose. In un’ottica pluriennale, i premi destinati agli enti locali in regola con i parametri potrebbero confluire in un fondo per l’attuazione di programmi ritenuti prioritari.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie a tutti i lettori dei commenti, rispondo brevemente per punti ricalcando alcune delle osservazioni mosse.
1) Nei concorsi inglesi c’è l’ostacolo della domanda (application) che richiede un impegno significativo nella compilazione. Ottima osservazione, infatti per l’accesso al mondo del lavoro pubblico o privato le capacità attitudinali sono spesso molto più importanti delle competenze specifiche. In questo senso l’università di provenienza ha un impatto enorme perché Università come Oxford o Cambridge (e molte altre, naturalmente) offrono opportunità di crescita formativa extracurriculare e orientamento che sono tanto importanti quanto la preparazione accademica vera e propria, se non di più. E’ un altro esempio di una cultura basata più sulle competenze (transferable skills) che sui titoli. Un laureato che si sia dimostrato un finissimo giurista o matematico ma che non abbia dimostrato qualità manageriali e attitudine al ‘public service’ difficilmente passerà il concorso. Ottimi studiosi possono essere pessimi dirigenti pubblici.
2) Le università dovrebbero pubblicare le posizioni occupazionali dei loro laureati. Sono pienamente d’accordo e in Inghilterra molte università lo fanno, anche se a dire la verità tutte si tengono sul vago. È sicuramente un principio di trasparenza che andrebbe adottato. In Italia sarebbe interessante chiedere, oltre alla posizione professionale, il numero di giorni retribuiti lavorati all’anno.
3) La consultazione del ministero è tendenziosa. Purtroppo è vero, alcune domande obbligano a scegliere una soluzione per ripesare i voti anche quando il rispondente è contrario per principio. Può comunque essere interessante vedere, tra i contrari al ripesamento, quale opzione sia la meno osteggiata ma sarà un dato da non strumentalizzare.
4) Il sistema ‘pesi della laurea’ applicato al settore pubblico trasformerebbe le aspettative di chi si iscrive all’università. Concordo naturalmente che il voto di laurea sia un traguardo molto importante. Non sono però convinto che la maggioranza dei liceali si iscriva all’università pensando ai concorsi pubblici (almeno, mi auguro di no), anche perché questi sono aperti solo ad alcune classi di laurea in scienze sociali e legge. Più in generale, valorizzare i percorsi individuali vuol dire anche lasciare spazio alle commissioni per valutare il valore reale dei titoli caso per caso, senza imbrigliarsi in una gerarchia dei titoli sanzionata dallo stato– perlomeno, questa è l’esperienza anglosassone. Peraltro anche in Italia è già così per molti tra i concorsi migliori e più competitivi, come in Banca d’Italia dove il requisito d’accesso è un voto minimo di 105.
Se posso finire con una provocazione, si potrebbe cogliere l’occasione per abbandonare il nostro culto per i titoli e smettere di dare la qualifica di “dottore” a tutti i laureati. Soltanto in Italia non ci sono mai nomi propri – siamo tutti dottori. Si tratterebbe di poca cosa, simbolica al più, ma essere dottori solo fino al confine è francamente un po’ imbarazzante.

SCANDALI NELLA SANITÀ: C’È BISOGNO DI GOVERNO

I recenti scandali nella sanità, legati al rapporto tra Servizio sanitario nazionale e settore privato, mettono in evidenza la debolezza del sistema di governance in un settore particolarmente esposto al rischio di utilizzi impropri delle risorse pubbliche e spesso di vera e propria corruzione. Pur senza mettere in discussione il ruolo delle Regioni, la questione va affrontata attraverso politiche nazionali. La scommessa è riuscire a disegnarle senza ricadere in un centralismo ottuso. Ma se vogliamo ridurre sprechi e inefficienze non ci sono alternative.

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