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Libere professioni in libertà vigilata

Due anni fa, nel novembre 2008, il ministro Alfano, al Congresso nazionale forense di Bologna, fece agli avvocati un discorso che suonava sostanzialmente così: “se mi portate un disegno di riforma sul quale concordino tutte le componenti e le voci dellÂ’avvocatura, io mi impegno a farlo passare in Parlamento”. Questo discorso avrebbe avuto un senso nel contesto dell’ordinamento corporativo. Dopo la sua abrogazione, la disciplina della professione forense deve intendersi come posta esclusivamente nellÂ’interesse dellÂ’amministrazione della giustizia e della collettività degli utenti del servizio. Sulle linee e sui contenuti della riforma, dunque, non poteva certo bastare un accordo limitato alle componenti interne dellÂ’avvocatura.

LA BOTTEGA DELL’AVVOCATO

Questo è sicuramente uno dei motivi per cui il disegno di legge, in un primo tempo affrettatamente licenziato dalla Commissione Giustizia del Senato, ha visto poi il proprio iter procedere con grande difficoltà, incagliandosi più volte, avversato fortemente dallÂ’antitrust, dalle associazioni imprenditoriali, da quelle dei consumatori e persino da quelle dei giovani avvocati. A tutte queste voci il ministro ha preferito non dare ascolto, mantenendo il proprio appoggio al  progetto approvato dal Consiglio Nazionale Forense, che segna un netto ritorno all’indietro rispetto al decreto Bersani del 2006.
Contro un principio preciso dell’ordinamento europeo e del nostro ordinamento nazionale, il progetto si propone di reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime (mercoledì scorso, al termine di un dibattito lungo e molto teso, il Senato ha approvato in prima lettura questa norma, che ribalta la regola posta dal decreto Bersani nel 2006); di reintrodurre il divieto della pubblicità commerciale per gli studi professionali; di reintrodurre la necessità (da tempo superata) dell’iscrizione all’albo anche per poter svolgere attività di consulenza stragiudiziale; di ribadire e rafforzare il divieto di costituzione degli studi legali in forma di società per azioni (consentita invece, sia pure con qualche opportuna limitazione, nella maggior parte dei Paesi occidentali); di rafforzare le barriere che devono essere superate dai giovani per accedere alla libera professione; di sfoltire drasticamente gli albi escludendone tutti coloro che esercitano la professione secondo un modello diverso da quello tradizionale (a tempo pieno, in modo esclusivo e continuativo per tutta la vita); di tornare ad attribuire esplicitamente all’Ordine una funzione di sostanziale rappresentanza degli interessi economici e professionali della categoria. Il modello di studio legale a cui si ispira questo progetto di riforma è quello tradizionale dello studio-bottega artigiana, nel quale il professionista opera a tempo pieno in modo continuativo ed esclusivo, in collaborazione con un numero limitato di colleghi e di collaboratori: ogni altra forma di esercizio della professione, secondo questo disegno, deve considerarsi sostanzialmente vietata.

DA CERNOBBIO AL SENATO

Soltanto poche settimane fa il ministro Tremonti proponeva di sancire esplicitamente nella Costituzione il principio per cui “tutto ciò che non è vietato è permesso”. In questo disegno di legge si dice sostanzialmente il contrario: “tutto ciò che non corrisponde al modello tradizionale di esercizio della professione forense è vietato”.
Deve aver provato qualche imbarazzo per questo progetto anche lo stesso ministro della Giustizia Alfano quando, meno di due mesi fa, al seminario Ambrosetti di Cernobbio, di fronte ai protagonisti dell’economia e della finanza globale e alla stampa internazionale, lo ha in parte sconfessato dichiarando pubblicamente che non era intenzione del Governo reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime. Ma mercoledì scorso in Senato il Governo è tornato a difendere il progetto nella sua interezza, comprese le tariffe minime inderogabili e tutti gli altri divieti mirati a perpetuare, rendendolo esclusivo, il modello tradizionale dello studio legale-bottega artigiana che piace tanto al Consiglio Nazionale Forense
L’imposizione di quel modello tradizionale come unico modo possibile di esercizio della professione da parte degli avvocati italiani, oltretutto, impedisce loro di competere ad armi pari con i colleghi stranieri, all’estero e persino sullo stesso nostro territorio nazionale. Ve lo immaginate uno studio legale italiano che prova a offrire i propri servizi sulla piazza di Londra o di Chicago dovendo rispettare questa legge, quindi non potendo raccogliere nel mercato azionario i capitali per gli investimenti necessari, non potendo di fatto promuovere una class action perché il divieto del patto di quota-lite non lo consente, non potendo neppure informare i potenziali clienti della propria esistenza per via del divieto della pubblicità? Gli studi di Londra e di Chicago, però, sono già venuti da noi, stanno già incominciando a prendersi il meglio del nostro mercato dei servizi legali, senza certo render conto al nostro Consiglio nazionale forense sul come hanno reperito i capitali necessari, quali tariffe applicano ai loro clienti, con quale tipo di contratto ingaggiano i collaboratori e così via.
La verità è che con questo disegno di legge si sta facendo unÂ’’operazione regressiva, che non va nell’Â’interesse del Paese, ma non va neppure nell’Â’interesse particolare della stessa avvocatura italiana.

Quelle banche ancora troppo fragili

Negli Stati Uniti la crisi finanziaria sembra ormai archiviata. Non si può dire lo stesso per l’Europa, che ha affrontato il problema affidandosi a una serie di false speranze. Mentre gli stress test sulle banche americane sono serviti a riconquistare subito la fiducia degli investitori, quelli condotti sugli istituti europei hanno prodotto risultati deludenti perché è mancata la necessaria trasparenza. Ma soprattutto perché il processo non ha innescato la ricapitalizzazione e ristrutturazione delle banche più deboli. Mantenendo così la fragilità del sistema.

 

Come vengono utilizzati i soldi rimasti della legge 488/92?

Come noto, le risorse per finanziare gli “storici” strumenti di incentivo alle imprese (legge n. 488, legge “Sabatini”, crediti d’imposta per occupazione e investimenti, ecc.) sono da tempo finite. Rimangono solo quelle derivanti dalle revoche dei vecchi incentivi già accordati, per rinuncia o decadenza dal diritto dei destinatari. Fino a pochi anni fa, nessuno sapeva nemmeno a quanto ammontasse questo “tesoretto”. Una norma della Finanziaria 2008 (governo Prodi), aveva disposto l’accertamento annuale di tali risorse e la loro destinazione ad un apposito fondo destinato a finanziare una pluralità di interventi soprattutto nel Mezzogiorno.(1)
Il governo Prodi è caduto prima di poter dare attuazione alla norma, avendo avuto solo il tempo di accertare – con il previsto decreto ministeriale annuale – l’ammontare delle risorse liberate per il 2008 (785 milioni di euro). Il governo successivo (Berlusconi), prima ancora di adottare il decreto annuale di accertamento delle economie per il 2009, con il decreto-legge n. 5 del 10 febbraio 2009 ha dirottato quelle risorse – valutate in ben 933 milioni di euro – a copertura dei nuovi incentivi alla rottamazione e a correzione dei saldi. Il decreto annuale di accertamento delle economie per lo stesso anno è stato poi adottato solo il 28 febbraio, segnalando l’importo di 375 milioni di euro per il 2009. Nel luglio 2009, con la legge n. 99 il governo ha poi prescritto nuovi vincoli di utilizzo, soprattutto legati a interventi nel Centro-Nord.(2) Tutte scelte legittime, comunque, che riflettono cambiamenti di priorità in gran parte dal Sud al Nord.
Il 4 maggio 2010 si è però prodotto un fatto grave sul quale non ci risulta sia sin qui intervenuto il sistema istituzionale dei controlli, a presidio della legittimità e legalità dell’azione del Governo, a partire dalla Corte dei conti e dal Parlamento.

Il quasi-dimissionario ministro Scajola con un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale oltre quattro mesi dopo, il 17 settembre 2010 a ministero ancora “decapitato”, ha destinato le risorse disponibili a due finalità estranee a qualunque prescrizione vigente di legge. Dei 152 milioni di euro accertati, infatti, 48 milioni di euro sono stati attribuiti alla programmazione negoziata nelle aree del Centro-Nord e 50 milioni sono stati addirittura destinati all’industria bellica degli armamenti, attraverso il rifinanziamento di una legge del 1993 (legge n. 237/93) per la quale il legislatore aveva previsto una copertura finanziaria solo fino al 2001. Dei restanti 54 milioni di euro non si fa menzione esplicita, ma a questo punto è facile supporre che siano andati ai soli interventi – tra tutti quelli contenuti nei lunghi e vani elenchi compilati dal legislatore – che erano associati a precisi importi: 50 milioni all’emittenza televisiva locale, 2 milioni ai sistemi di illuminazione del Veneto e 2 milioni ai “sistemi delle armi” di Brescia (forse raggiunti anche dall’altro finanziamento).

CHIEDIAMO PERTANTO AL NUOVO MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO PAOLO ROMANI:

Può darci un rendiconto completo di come sono stati utilizzati i risparmi della legge 488 in questa legislatura? Ed è possibile che un decreto ministeriale rifinanzi una legge statale, in carenza assoluta di fondamento normativo?

 

(1) Programma nazionale per l’inserimento lavorativo dei giovani laureati meridionali; la riduzione del costo del lavoro per tecnici e ricercatori in favore delle imprese innovatrici in start up; il sostegno alla ricerca nel settore energetico; il riutilizzo di aree industriali nel Mezzogiorno; la costruzione di centri destinati a Poli di innovazione.
(2) Tra questi compaiono obiettivi generici – quali il sostegno all’internazionalizzazione e al Made in Italy, la “valorizzazione dello stile e della produzione italiana”, gli incentivi ai distretti industriali, ecc. – assieme a interventi puntualmente specificati, come il sostegno ai “sistemi produttivi locali delle armi di Brescia” e ai “sistemi di illuminazione del Veneto”, per i quali la legge indica addirittura gli importi (2 milioni di euro per ciascuno).

Le fondazioni bancarie: una risposta a mucchetti

Lettera al Corriere della Sera

Caro direttore,

Massimo Mucchetti nel suo articolo di sabato 23 ottobre ci arruola al “partito di Geronzi”. La ragione? Un nostro intervento su lavoce.info sarebbe ripreso dal Foglio a sostegno di tesi dell’attuale Presidente di Generali. In questo intervento, coerentemente con quanto pensiamo e scriviamo liberamente da tanto tempo, sosteniamo che: 1) le fondazioni bancarie farebbero bene a diversificare il loro portafoglio per meglio svolgere le loro funzioni sociali; 2) avendo vertici di nomina politica, non dovrebbero nominare a loro volta i consiglieri delle banche, evitando ancor di più di sceglierli tra le proprie fila. Quanto alla nostra vicinanza a Geronzi, invitiamo a leggere su questo sito cosa abbiamo scritto sul curriculum dell’ex banchiere. Non ci risulta che Mucchetti abbia mai dato queste informazioni ai suoi lettori.

Cala il sipario sul diritto allo studio

Il fondo che finanzia le borse di studio per gli studenti universitari scenderà nel 2011 a 70 milioni di euro dagli attuali 96 milioni, tornando più o meno sui livelli del 1998. In Francia e in Germania la spesa annua per il sostegno agli studenti è di 1 miliardo e 400 milioni. E mentre in altri paesi il pacchetto di aiuti è uniforme su tutto il territorio nazionale, per gli universitari giovani i criteri di ammissione alle borse variano di Regione in Regione e talvolta anche all’interno di una stessa Regione. Perché nessuna voce si leva in difesa del diritto allo studio?

Ma la formazione continua paga

Se la formazione professionale per lavoratori disoccupati è poco efficace, le cose vanno meglio con la formazione continua degli occupati. Chi vi partecipa ottiene retribuzioni notevolmente più elevate, in particolare nelle piccole e medie imprese. Perché l’incentivo a finanziare corsi inutili e fittizi è minore e soprattutto perché è un tipo di formazione che avviene spesso in azienda. I sussidi pubblici sono gestiti dalle Regioni. Così nel periodo 1994-2005 la spesa per abitante varia dai 22,6 euro della Regione Calabria ai 286,7 euro del Trentino Alto Adige.

 

Se la locomotiva va nella direzione sbagliata*

L’avanzo della Germania è in gran parte verso la zona euro. E’ stato originato da un boom di produttività specifico alla manifattura tedesca. Il riequilibrio avrebbe richiesto l’apprezzamento del cambio reale della Germania: è avvenuto il contrario. La governance europea comporta ora che l’aggiustamento spetti ai paesi partner, senza compiti per i tedeschi. Ciò provoca effetti depressivi e distorsioni per la zona euro. Le strategie per la crescita dovrebbero accantonare la retorica manifatturiera e rimettere all’ordine del giorno la questione dell’efficienza dei servizi.

I dati sul federalismo? Solo per pochi intimi

È da aprile che il Ministero dell’Interno ha sospeso la fornitura in modalità download dei dati relativi ai bilanci dei comuni e delle province italiani, disponibili in precedenza sull’Osservatorio della Finanza Locale nel sito del ministero. I dati possono ancora essere scaricati, ma bisogna prendere i quadri di bilancio per ogni singolo comune o provincia e poi, se necessario, riaggregarli assieme. Per chiunque voglia fare analisi comparate sulla finanza degli enti locali italiani (ricercatori, funzionari e politici locali, semplici cittadini), uno spreco di tempo enorme, e tale spesso da rendere il lavoro semplicemente impossibile. A meno che non si abbia qualche “santo in paradiso”, nel caso concreto un qualche funzionario amico al ministero, che per pura cortesia si scarica di persona i dati e poi te li spedisce. Il ministero non ha offerto alcuna spiegazione per l’interruzione del servizio; si è inizialmente pensato a qualche problema tecnico, ma ormai sono passati sei mesi e neppure il più incapace dei tecnici avrebbe potuto metterci tanto.  Da notare che esistono viceversa imprese private, che a pagamento, offrono banche dati complete e che risultano al momento molto gettonate.
Una delle frasi preferite del senatore a vita Giulio Andreotti è, come noto, che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. Noi non vogliamo pensar male, ma la convergenza tra una riforma federale pasticciata e la scomparsa dei numeri che potrebbero consentire di valutarla solleva qualche interrogativo.  Si noti anche che uno degli obiettivi della riforma federale, come evidenziato nella Relazione sul Federalismo Fiscale pubblicata il 30 giugno 2010 è proprio quello di “assicurare il completo scambio di informazioni e la piena trasparenza nel monitoraggio di azioni e risultati” . Ma il primo passo per consentire la trasparenza è proprio l’accesso universale al dato, senza il quale non c’è né monitoraggio né critica razionale possibile.

PONIAMO DUNQUE UNA SEMPLICE DOMANDA ALL’ONOREVOLE ROBERTO MARONI:

Signor ministro, quando pensa di rendere nuovamente accessibili a tutti gli interessati i dati sui bilanci degli enti locali?

Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienzati

In Italia non ha molto senso parlare di università migliori di altre. Ci sono semmai scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dagli atenei cui appartengono. Distribuiti a macchia di leopardo, cosicché nessuno raggiunge quella massa di eccellenza critica necessaria per competere a livello internazionale. Stesso discorso vale per gli studenti più capaci. Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare solo i professori più bravi.

La risposta ai commenti

Mi sembra che lÂ’’essenza delle articolate argomentazioni del dott . Matteoli siano riconducibili a due punti essenziali:
1) Il privato, avendo obiettivi di profitto, può avere comportamenti opportunistici gravemente lesivi dell’Â’interesse pubblico.
2) il privato non investirà mai le rilevantissime somme necessarie a risistemare lo stato catastrofico del sevizio idrico italiano.

Una, devastante, obiezione alla prima argomentazione è che un sistema di gare non significa affatto privatizzazione del sistema: se imprese pubbliche offriranno condizioni più favorevoli in termini di costi, tariffe e qualità, vinceranno le gare, come è ovvio, e come è successo moltissime volte ovunque in Europa. Quindi non vi è alcun nesso tra gare e privatizzazione dell’Â’acqua, come strumentalmente si tende a far credere al fine di difendere ad oltranza uno status quo indifendibile. Non solo: la periodicità obbligatoria delle gare costituisce un incentivo potente allÂ’’efficienza e al rispetto delle condizioni di interesse pubblico espresse nel bando. Comportamenti inadeguati comprometterebbero gravemente la reputazione delle imprese inadempienti, anche nei confronti di gare in contesti diversi da quelli dove avessero inizialmente vinto. E alla reputazione le imprese private tengono moltoÂ….
La seconda argomentazione appare ancora meno difendibile: se occorrono moltissimi soldi per investimenti, necessari a “tappare le falle” delle passate gestioni (generalmente pubbliche), questi soldi occorrono comunque, indipendentemente da chi li spenda. Se si decide che li debbano pagare gli utenti, le tariffe dell’Â’acqua aumenteranno, e di molto. Se si decide che questi costi, per ragioni sociali, dovranno essere pagati dallo stato, cioè dai contribuenti, i gestori dei servizi idrici saranno pesantemente sussidiati, pubblici o privati che siano. Significa che si avranno meno risorse pubbliche per scuole o trasporti pubblici, scelta politica del tutto legittima. Cioè si trasferiranno risorse da servizi sociali politicamente giudicati meno prioritari ai servizi idrici.
Infine, che i privati abbiano obiettivi di profitto, cioè “egoistici”, è assolutamente ovvio, e per questo occorre una seria regolazione pubblica. Che amministrazioni pubbliche corrotte, o dove domina il “voto di scambio” (fattori talmente reali, che sono verificabili attraverso lÂ’’attuale vergognoso dissesto del sistema: meno manutenzione e più assunzioni clientelari, o appalti “agli amici”), esprimano obiettivi meno egoistici dei privati, mi sembra una argomentazione perlomeno ardua.

Ringrazio anche per i molti commenti costruttivi, ricordando che i limiti di spazio della Voce costringono a forti sintesi (tipo “bianco-nero”), il che ha anche dei vantaggi. Le argomentazioni rivolte a Matteoli rispondono alla maggiorparte di voi. Rimarco comunque che in molti commenti domina un tragico equivoco: gare=privatizzazione. Se imprese pubbliche saranno più efficienti, vinceranno le gare, magari al secondo giro. E’ successo in Svezia, in USA e in Germania per i trasporti pubblici, perché non dovrebbe succedere per l’acqua?

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