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IL REDDITO DEL POLITICO ITALIANO E AMERICANO *

In Italia l’indennità parlamentare annua, in termini reali (misurate in euro 2005), è aumentata da 10.712 euro nel 1948 a 137.691 euro nel 2006, il che significa un aumento medio del 9,9 per cento all’anno e un incremento totale del 1185,4 per cento. Negli Stati Uniti, la retribuzione lorda (in dollari del 2005) è cresciuta da 101.297 dollari nel 1948 a 160.038 dollari nel 2006 (con un aumento del 58 per cento), ovvero in incremento dell’1,5 per cento all’anno. Nello stesso periodo, il Pil pro capite è aumentato del 449,5 per cento al tasso annuale del 3,2 per cento in Italia e del 241,7 per cento, a un tasso di crescita annuo del 2,1 per cento, negli Stati Uniti.
La figura 1 e la figura 2 mostrano per entrambi i paesi un improvviso e sostenuto aumento delle retribuzioni dei parlamentari negli anni ’60, seguito da un significativo calo negli anni ’70 (a causa soprattutto dell’elevata inflazione). Ma, mentre negli Usa gli stipendi sono rimasti costanti in termini reali dopo il 1980, quelli dei parlamentari italiani hanno continuato a crescere del 3,9 per cento.
Come si può vedere dai grafici durante la prima repubblica i legislatori italiani risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi statunitensi fino alla fine degli anni ’80, anche se il differenziale si è ridotto nel corso di questo decennio. Dal 1994, dall’inizio cioè della seconda repubblica, si osserva il fenomeno inverso. Lo stipendio medio dei membri del parlamento italiano supera quello dei colleghi statunitensi e la forbice si è ampliata tra la fine degli anni’90 e i primi anni 2000.
Alcune considerazioni sono cruciali per comprendere gli andamenti mostrati nelle figure. Mentre il 1948 segna l’alba della Repubblica italiana, a quel tempo il sistema americano era già una democrazia consolidata con una stabile struttura istituzionale. La politica rappresentava già un settore lavorativo ed essere deputato al congresso era un impiego a tempo pieno. In Italia non accadeva lo stesso. Inoltre, è importante sottolineare che, diversamente dagli Stati Uniti, ai deputati e senatori italiani era concesso mantenere le loro professioni durante il mandato parlamentare (fatta eccezione per l’impiego in altre istituzioni pubbliche o private controllate direttamente o indirettamente dal governo e per le occupazioni a tempo pieno). Con ciò si voleva evitare un peggioramento delle loro condizioni economiche, visto che a quel tempo le indennità parlamentari erano relativamente basse. Dopo 1965, il trattamento economico dei parlamentari è migliorato sensibilmente, non soltanto in confronto a quello dei membri del Congresso americano, ma anche rispetto agli stipendi del settore privato in Italia, rendendo piuttosto controversa un’eventuale doppia occupazione. Infatti, nel 1985, l’indennità parlamentare di un deputato o sentore, espressa in termini reali (84.229 euro), era 4,2 volte superiore allo stipendio medio annuo di un lavoratore del settore privato (20.268 euro) e nel 2004 risultava pari a 146.533 euro e quindi 6,5 volte superiore alla retribuzione reale media di un privato (22.712 euro). Eppure i parlamentari italiani possono continuare a ottenere retribuzioni addizionali, oltre all’indennità parlamentare. Questo non è consentito negli Stati Uniti, se non per piccole somme.

* Tratto dal libro "Classe dirigente – L’intreccio tra business e politica" a cura di Tito Boeri, Antonio Merlo e Andrea Prat (Università Bocconi Editore)

L’AFFITTO LANGUE ANCHE CON LA CEDOLARE SECCA

Riuscirà l’introduzione di una tassazione con cedolare secca del 20 per cento a ridare fiato al mercato delle case in affitto in Italia? Sarà molto difficile. Le simulazioni mostrano qualche vantaggio solo per i proprietari collocati negli scaglioni di redditi Irpef più elevati, mentre per quelli degli scaglioni più bassi il nuovo sistema potrebbe risultare addirittura svantaggioso. I guadagni sarebbero ancora più limitati se i vincoli di gettito portassero a un aumento del canone imponibile.

RYANAIR, ENAC, CONSUMATORI E TASSE IMPLICITE

L’Enac, l’ente governativo che regola il trasporto aereo civile in Italia, ha multato Ryanair per 3 milioni di euro a seguito della mancata assistenza ai passeggeri rimasti a terra durante il blocco dei voli causato dall’eruzione del vulcano islandese. Non sono in grado di giudicare né le colpe della compagnia aerea né l’adeguatezza della sanzione. È giusto che chi viola i diritti dei consumatori paghi. Tuttavia, l’Enac ha sostenuto che “la quasi totalità delle altre compagnie aeree risultano invece aver prestato la dovuta assistenza”: “quasi” non significa tutte. Se altre non lo hanno fatto  –le esperienze personali suggeriscono che i disservizi sono stati diffusi, anche a causa dell’enormità dell’evento– devono essere trattate con la stessa severità. Diversamente, si alimenta l’impressione che l’Enac abbia ingaggiato una guerra contro Ryanair (e le altre compagnie low-cost), osteggiandone le politiche di imbarco (la vicenda dei documenti di riconoscimento dello scorso dicembre) e sorvegliando con particolare solerzia il suo operato. Ryanair fa volare ogni anno milioni di Italiani a prezzi imbattibili, con tassi di puntualità superiori della media dei concorrenti. Indurre la compagnia a lasciare il mercato italiano sarebbe una disdetta per milioni di consumatori, oltre che per i dipendenti della compagnia e per l’indotto. D’altra parte, farebbe felici i “campioni nazionali” su cui il Governo ha investito tanta credibilità, Alitalia in primis e, in misura minore, Trenitalia. Purtroppo, i provvedimenti del Governo riguardo alle politiche per la concorrenza vanno nella direzione di proteggere gli incumbents, con buona pace per i consumatori. Personalmente, non ho nessuna nostalgia di quando si volava sono con compagnie di bandiera. Le tariffe più alte che paghiamo nei settori con poca concorrenza sono vere e proprie tasse implicite  a favore dei produttori. Politiche che scoraggiano le compagnie low-cost ad operare in Italia riducono la concorrenza e sono assimilabili ad aumenti di queste tasse implicite. Non se ne sente il bisogno, particolarmente adesso che le tasse “esplicite” sono destinate a crescere.

QUELLE PAROLE DEL SINDACO SUGLI IMMIGRATI

Lettera aperta al sindaco di Milano, Letizia Moratti. Che qualche giorno fa ha proposto un’equazione tra immigrati clandestini e criminalità. Parole che non sembrano suffragate da analisi e studi approfonditi. Perché i dati di una ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti su otto comuni del Nord Italia e il primo censimento dei senzatetto a Milano offrono una lettura ben diversa della situazione. A partire dal fatto che quasi tutti gli immigrati passano per una condizione di irregolarità prima di ottenere il permesso di soggiorno.

PAROLA D’ORDINE: STABILITÀ

Una crisi bancaria tende a diventare una crisi del debito sovrano e viceversa. Una legge che vale anche nel caso della Grecia e degli altri paesi a rischio. Per l’area euro si tratta di una sfida del tutto particolare perché ha un mercato bancario integrato, ma il debito sovrano resta nazionale. E utilizzare la Bce per sostenere i paesi in difficoltà significa solo rendere molto più grave il problema. Sempre più urgente la creazione di un Fondo europeo. I fondi messi a disposizione per il meccanismo di stabilizzazione potrebbero rappresentare il suo capitale iniziale.

UN PREMIO TROPPO PICCOLO PER IL MERITO

Almeno negli enti locali, la riforma Brunetta rischia di fallire proprio nel suo punto di forza, il rilancio della meritocrazia. In media ai dipendenti pubblici meritevoli sarà riconosciuto un premio appena superiore ai 400 euro. Troppo poco per indurre i più passivi e improduttivi a mutare atteggiamento. Intanto, però, il nuovo sistema di valutazione determinato dalla riforma è assai complesso e richiede notevoli sforzi organizzativi. Con il rischio che a crescere sia la spesa per le consulenze necessarie per comprendere e applicare il sistema.

FARMACI: QUI LA SPESA È ALTA E SQUILIBRATA

La spesa totale per farmaci nel 2009 è stata di quasi 13 miliardi di euro. Scende la quota a carico del sistema sanitario nazionale e cresce quella a carico dei cittadini, essenzialmente per l’aumento dei ticket regionali. Per alcune Regioni si tratta di una misura obbligatoria dovuta a gravi disavanzi o allo sforamento dei tetti di spesa programmati. Si conferma comunque un continuo aumento dell’uso di medicinali, non sempre giustificato da effettiva necessità. I possibili ulteriori risparmi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio tutti per gli interventi. Difficile rispondere in dettaglio a tutti, anche perché in vari casi non c’è alcuna domanda ma solo affermazioni — a volte un po’ apodittiche. Cerco di rispondere almeno ad alcuni.
Roberto Corsini propone in modo semi-serio un’imposta sul patrimonio per ridurre drasticamente il debito. Ha ragione: insieme alla ripresa della crescita, quello è l’unico modo per ridurre l’enorme debito pubblico italiano in modo significativo. Ma occorre un grande clima di solidarietà sociale e di fiducia verso la leadership politica perché questo accada, ovvero per usare le sue parole occorre potersi fidare.
Non sono però d’accordo con lui (anche se capisco l’intento ironico delle sue parole) sul fatto che a parte questo si possa continuare a evadere le imposte e rubare come ora (e in passato): il debito pubblico ricomincerebbe a crescere inesorabilmente, vanificando gradualmente lo sforzo realizzato con l’imposta patrimoniale. Il nostro debito di oggi, a oltre il 120% del PIL, è in buona parte che la somma di tutte le imposte evase e di tutte le tangenti e ruberie degli scorsi decenni, con l’aggiunta degli interessi, naturalmente. Se non si allarga seriamente la base imponibile (combattendo l’evasione fiscale e vietando definitivamente i condoni, magari con una norma costituzionale), saremo sempre punto e daccapo con problemi di sostenibilità fiscale.
Combattere seriamente l’evasione fiscale avrebbe anche l’effetto di riequilibrare la distribuzione del reddito e della ricchezza, che come giustamente da notare Paolo Serra in questi ultimi decenni sisquilibrata a favore dei ceti più abbienti: niente di più regressivo dell’evasione fiscale e dei condoni a cui abbiamo assistito in questi decenni, soprattutto considerando che il lavoro dipendente è l’unico a non evadere le imposte. Fra l’altro, l’evasione fiscale massiccia dei ceti abbienti è uno dei motivi centrali della stessa crisi greca.
Massimiliano Claps solleva un punto molto importante: il rischio che una massiccia manovra simultanea di "rientro" fiscale in tutte le economie deboli dell’area euro possa stroncare la ripresa. E’ una preoccupazione molto giusta, e credo che sia una domanda che si stanno ponendo in tanti. In parte, l’effetto recessivo della manovra di rientro fiscale dei paesi deboli potrebbe (e dovrebbe) controbilanciata da un’espansione da parte delle economie relativamente) forti. Anche in questo sarebbe cruciale un vero coordinamento europeo delle politiche fiscali. Purtroppo la Germania non sembra intenzionato a farlo, in parte perché non sembra aver capito che deve sviluppare una leadership politica corrispondente al suo peso economico nella UE.
Un’altra lucina di speranza viene dal fatto che non sempre il consolidamento fiscale ha effetti recessivi: anzi, proprio quando segnala un netto cambiamento di regime in direzione di una maggior "rettitudine" fiscale e sostenibilità della finanza pubblica, può paradossalmente avere effetti espansivi. E’ già successo, e lo abbiamo documentato in vari studi (F. Giavazzi e M. Pagano, “Can Severe Fiscal Contractions be Expansionary?  Tales of Two Small European Countries” NBER Macroeconomics Annual, 1990, e “Non-Keynesian Effects of Fiscal Policy Changes: International Evidence and the Swedish Experience”, Swedish Economic Policy Review, Vol. 3, 1, 1996; F. Giavazzi, T. Jappelli e M. Pagano, “Searching for Non-Linear Effects of Fiscal Policy”, European Economic Review, Vol. 44, giugno 2000, e “Searching for Non-Monotonic Effects of Fiscal Policy: New Evidence”, Monetary and Economic Studies, ottobre 2005).
Antonio Aghilar indica una forte inflazione come un rimedio. Certamente un po’ di inflazione in più (se inattesa) aiuterebbe un po’ le finanze pubbliche di un paese come il nostro, e probabilmente ci sarà se la BCE inizia davvero a comprare titoli di Stato dei paesi deboli dell’area dell’euro. Ma non illudiamoci che questo possa sostituire la disciplina fiscale. Dopo un po’ i tassi di interesse si adegueranno riflettendo la maggiore inflazione. Per inciso, in risposta a Francesco De Simone: i tassi non possono che salire dal bassissimo livello attuale, sotto la spinta congiunta delle aspettative di inflazione e i dubbi sull’andamento delle finanze pubbliche… se, come scrive Franco Debenedetti, dobbiamo avere "fieri dubbi sulla possibilità che i governi adottino politiche (di rientro fiscale) e i paesi le accettino con chiarezza."
Infine, a chi propone di abbandonare la costruzione europea e di ritornare all’Europa degli Stati e staterelli, faccio osservare che attualmente quel poco che contiamo sulla scena internazionale dipende in buona misura dal fatto di essere riusciti a costruire l’Unione Europea, sia pure in modo tuttora molto imperfetto e squilibrato. E a chi si lamenta delle conseguenze della moneta unica, rispondo con le parole di uno di voi (Giampaolo): "L’euro è una stata un’opportunità per migliorare, sono trascorsi dieci anni, non è colpa della moneta se non abbiamo sfruttato i bassi tassi di interesse per ‘mettere ordine’ in casa e ora sono arrivati i momenti critici." Ora siamo costretti a mettere ordine in casa se non vogliamo che l’opportunità per migliorare scompaia definitivamente!

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molte grazie ai lettori per i commenti e per il tentativo di dibattito auto-regolamentato stile blog che è purtroppo non proprio adatto al format del nostro sito.
Una maggioranza relativa dei lettori prevede che la Grecia uscirà dall’euro o almeno condivide l’idea di far uscire la Grecia (o di consentirne un’uscita parziale, convertendo in dracme una parte del debito greco) come modo per risolvere i problemi attuali. Per due ragioni principali: i governi greci non hanno rispettato i vincoli e le regole di contabilità fiscale e i privati si sono arricchiti con l’immobiliare dopo aver omesso di dichiarare i loro redditi. Ricordo però che il problema di oggi non è tutta colpa dei greci. Il caso greco ha fatto da cartina di tornasole per far emergere alcuni problemi irrisolti nel funzionamento dell’Unione monetaria. La mia preferenza va ad una soluzione che preveda di dare un’altra possibilità ai greci, magari in un quadro di medio-termine di nuove regole di funzionamento dell’Unione che leghi l’andamento di deficit e debiti in modo più diretto e introduca sanzioni più efficaci (la sospensione temporanea del diritto di voto) rispetto a quelle che sono rimaste non applicate durante i primi anni di vita dell’Emu. La predisposizione di un fondo di stabilizzazione dell’unione – avvenuta durante il week-end dell’8-9 maggio – sembra andare in questa direzione e infatti le Borse hanno risposto bene. Ma per evitare altri casi come la Grecia, bisognerà cambiare il trattato di Maastricht, il che sarà necessariamente più complicato. Passata la buriana, il consenso per i cambiamenti evaporerà e saremo da capo con la navigazione a vista. Con nuovi pericoli per la stabilità dell’euro, derivanti dal cambiamento strisciante della missione della Bce.
Qualcun altro mette in luce che in termini di moralità pubblica le somiglianze tra Italia e Grecia sono più di quante ci piacerebbe ammettere. Questo è rilevante perché ci renderebbe quasi inadatti ad importare il modello del welfare europeo che, da noi, diventerebbe quasi necessariamente un modello in cui sono riconosciuti i diritti di tutti e i doveri di nessuno. E’ un modo di dire che l’ambito pubblico (all’interno del paese e all’estero) per paesi come la Grecia e l’Italia è condannato al Tanto Paga Pantalone. Non è sempre e necessariamente così. Ci sono tanti casi di buon governo e di civismo anche in Italia e in Grecia. Fanno un po’ fatica a farsi strada, questo è vero.
Per l’Italia la strada di sospendere il pagamento degli interessi sul debito non è praticabile. E’ del tutto equivalente a fare default sulla restituzione dello stock di debito e si tradurrebbe in un’esclusione dal mercato dell’emissione di nuovo debito come è successo ai paesi latino-americani o, come minimo, in un aumento del costo dell’indebitamento futuro.
Alcuni lettori propongono elementi politico-strategici difficili da valutare su un periodo di tempo breve come quello di una crisi finanziaria. Mi sembra condivisa l’idea che, sotto sotto, ci sia un complotto di pochi che ci guadagnano, quelli che fanno insider trading beneficiando della conoscenza anticipata delle fluttuazioni dei cambi o gli americani che vogliono segnalare alla Cina che è meglio investire nell’area del dollaro. Per rimediare alcuni chiedono di chiudere le agenzie di rating. Sul Sole 24 Ore di domenica 9 maggio (pag. 8) c’era un articolo interessante che mostrava l’elevata profittabilità delle Big Three (Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch) e il loro azionariato diffuso, che contrasta con l’idea di un complotto. Le teorie del complotto partono solitamente dal presupposto inquietante che ci sia qualcosa di nascosto che sfugge a tutti e ci fa muovere come burattini. Magari sono teorie vere. Io non ci credo, soprattutto perché sono difficili da verificare. Se esiste una teoria alternativa basata su qualche elemento osservabile e che esclude un complotto, ammetto di propendere per quella teoria. Ma è una mia preferenza personale.
Infine, nelle risposte ai commenti di solito non parlo dei singoli (come Trapattoni). Ma devo fare un’eccezione per il commento di francocordiale che comincia con una frase che non dimenticherò: “Non essendo un economista, ragiono in termini di buon senso”. E pensare che invece, in varie occasioni, ho tentato di “vendere” la microeconomia agli studenti del primo anno con la frase: “Vedrete, la microeconomia non è difficile, è in molti casi una esposizione grafica e analitica del buon senso”.

UN PIANO BRADY TARGATO EUROPA

I mercati hanno emesso il loro verdetto: la Grecia non può pagare il suo debito. I vari programmi di aggiustamento hanno dunque basse probabilità di successo. Meglio ristrutturare il debito greco. Magari seguendo l’esempio del piano Brady predisposto per i paesi emergenti alla fine degli anni Ottanta. Francia e Germania potrebbero assumersi l’onere di garantire nuovi titoli che permetterebbero alla Grecia di ridurre l’onere del debito e allo stesso tempo di ritornare su un sentiero di crescita sostenibile e sostenuta. Sarebbe un modello anche per il futuro.

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