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SETTE ANNI CON LAVOCE.INFO

Sette anni fa abbiamo inaugurato questo sito. E mai come adesso siamo contenti di averlo costruito. Per almeno tre buone ragioni. Perché l’economia è una scienza più che mai vitale. Perché si agitano nubi nere sull’informazione italiana, soprattutto economica: E perché il futuro de lavoce.info non è nelle mani né del governo, né della pubblicità, ma solo dei lettori. E questa libertà oggi è un dono preziosissimo. Che anche in futuro utilizzeremo per continuare a svolgere la funzione di cane da guardia sull’operato del governo, chiunque sia al potere.

LA CIAMBELLA E IL BUCO

Le critiche del ministro Tremonti all’Istat lasciano allibiti. L’accertamento dello stato di disoccupazione è fatto in modo stringente, sulla base di un insieme di quesiti che mirano a rilevare una situazione oggettiva. E’ un sistema utilizzato in tutti i paesi sviluppati, che consente confronti credibili nel tempo e nello spazio. Minare la credibilità dell’informazione statistica ufficiale o ridurre gli spazi di autonomia di istituzioni con cruciali funzioni tecniche e scientifiche non aiuta a uscire dalla crisi. A meno che non si vogliano illudere i cittadini con finzioni.

IL COMMENTO ALL’ARTICOLO DI PISAURO-VISALLI

La critica costruttiva sulle proposte di riforma della pubblica amministrazione è sempre utile, anche quando non condivisibile. L’articolo di Pisauro e Visalli pubblicato il 4 giugno 2009 su lavoce formula alcune critiche e suggerisce alcune proposte. Cominciando dalle prime, gli Autori individuano due limiti della riforma:
1- Un primo limite "culturale" sarebbe l’idea che "la produttività dipenda innanzitutto dagli sforzi degli individui e in secondo ordine dalle norme di legge e non dai modelli organizzativi, dagli obiettivi e dalla distribuzione delle risorse sul territorio";
2- in secondo luogo, il sistema di valutazione, coordinato dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, sarebbe troppo centralizzato e monolitico.
A fronte di queste critiche l’articolo accenna tre proposte:

a) spostare l’enfasi sugli uffici e non sugli individui, dotandoli di sistemi di contabilità industriale che misurino la produttività anche nella PA;
b) indirizzare il lavoro della commissione verso la costruzione di modelli di valutazione che permettano di comparare le performance collettive, specifici per ciascuna amministrazione e che la aiutino a ridefinire il proprio modello organizzativo;
c) legare l’incentivazione non ad una gratifica annuale ma al percorso di carriera.

La risposta all’articolo è semplice, sia perché le critiche sono infondate, sia perché alle soluzioni proposte il decreto delegato già offre precise risposte.
Con riferimento alle critiche, si può facilmente dimostrare che:

NON E’ VERO CHE GLI SFORZI INDIVIDUALI NON CONTANO

Un’altrettanto enorme letteratura, rispetto a quella in verità non citata nemmeno a titolo esemplificativo dagli Autori, dimostra che lo sforzo individuale e le risorse umane sono centrali per migliorare la produttività e l’efficacia, non meno dei modelli organizzativi. A differenza, qui vogliamo citare, sia pur a titolo di esempio, O’Toole Jr., Meier K., (2008); Pfeffer J.,(2007); Lazear EP & Shaw KL (2007); Jacobs RL & Washington C., (2003); Wood S (1999); Koch MJ & McGrath RG, (1996). Le riforme, attuate o in corso, nelle più avanzate esperienze internazionali (Regno Unito, Canada, ecc.) mostrano che l’attenzione sulle modalità di riconoscimento del merito dei dipendenti pubblici rimane centrale. Non si tratta quindi di un limite culturale, bensì della valorizzazione dell’asset fondamentale della PA, e cioè l’impegno dei dipendenti.

NON E’ VERO CHE IL DECRETO NON SI INTERESSA DEGLI OBIETTIVI

La definizione degli obiettivi e il loro collegamento con le risorse disponibili sono i cardini del ciclo di gestione della performance introdotto dalla riforma. L’art. 5 afferma che gli obiettivi devono soddisfare delle caratteristiche metodologiche precise. Devono essere: rilevanti e pertinenti rispetto ai bisogni della collettività; specifici e misurabili; sfidanti; riferibili ad un arco temporale determinato; commisurati a standard definiti a livello nazionale e internazionale; confrontabili e correlati alla quantità e alla qualità delle risorse disponibili. "Buoni" obiettivi sono essenziali per valutare le performance: senza scomodare l’ampia letteratura scientifica a riguardo (solo a titolo esemplificativo, Chun & Rainey, 2005), basta leggere i documenti programmatici di qualche amministrazione pubblica per comprendere come gli obiettivi delle strutture, prima ancora che degli individui, non soddisfino i requisiti metodologici elementari, rendendo vana o addirittura controproducente la valutazione delle performance. Tant’è vero che dai rapporti consuntivi sul raggiungimento degli obiettivi di tante amministrazioni, emergono in genere livelli dal 90% al 100%: o siamo in presenza della Pubblica Amministrazione più efficiente del mondo o, evidentemente, c’è qualcosa che non va. Il decreto interviene e assegna agli attori del sistema di valutazione (commissione centrale, organismi indipendenti, dirigenti, organi di indirizzo politico) responsabilità precise. È un passo innovativo che crea le condizioni per risolvere il "vizio originario" del nostro sistema di programmazione e valutazione strategica.

NON E’ VERO CHE IL DECRETO NON SI INTERESSA DEL LIVELLO ORGANIZZATIVO

Il decreto non prescrive modelli organizzativi specifici, ma questo è ovvio. Il decreto riconosce che il problema fondamentale non sono né i giusti principi (già largamente presenti nelle norme), né l’imposizione di modelli organizzativi astrattamente ottimali, bensì un corretto sistema di incentivi, materiali e non. Sarebbe insensato assegnare a norme di legge la fissazione di specifici modelli organizzativi che pertengono all’autonomia di ogni singola amministrazione. La logica della riforma è invece quella di determinare, attraverso la creazione di un nuovo sistema di incentivi, basato sulle leve della trasparenza, della misurazione, della responsabilità e della premialità, una pressione forte sui risultati, lasciando alle amministrazioni l’autonomia di definire i più opportuni assetti organizzativi per conseguirli. Per ovviare agli evidenti problemi di ineffettualità delle riforme precedenti si è scelto di agire attraverso un mix di strumenti tali da spingere concretamente e continuamente le amministrazioni verso percorsi di miglioramento continuo dei processi e dei servizi.
A questo fine, la dimensione organizzativa – intesa non tanto nella sua accezione strutturale ma in termini di sistemi operativi – è presente nel decreto in modo matriciale. Infatti:
Tutto il decreto è incentrato sul binomio trasparenza-valutazione della performance, che si esplica in gran parte a livello organizzativo e non di singoli individui.

All’art. 4 si affronta il tema del "ciclo di gestione delle performance" che inquadra la valutazione a livello organizzativo nell’ambito degli altri sistemi operativi (pianificazione strategica, budgeting, rendicontazione, ecc.).
All’art. 7 si stabilisce che il "sistema di misurazione e valutazione della performance" deve consentire la valutazione organizzativa e individuale. È ben chiaro che i due livelli sono profondamente interconnessi, come insegna la letteratura organizzativa e manageriale e ci suggeriscono autorevoli istituzioni internazionali (OECD 1996, 1997, 2004 e 2005).
All’art. 9 si precisa che: a) la valutazione dei dirigenti è collegata agli indicatori di performance relativi all’ambito organizzativo di diretta responsabilità; b) la valutazione del personale è connessa al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo e/o individuali.
All’art. 10 si chiarisce che il piano e il rapporto di performance consentono, in relazione alle risorse disponibili, la valutazione della performance dell’amministrazione e non solo del personale dirigenziale e non.
All’art. 13, commi 4 e 5, scorrendo i compiti della Commissione, si rileva facilmente come molti di essi siano ascrivibili alla dimensione organizzativa piuttosto che a quella individuale (es. qualità dei servizi pubblici, benchmarking, ecc.).
4. Non è vero che il sistema di valutazione è troppo centralizzato e monolitico. Al contrario il sistema disegnato è flessibile e decentrato. Il modello non è univoco, ciò che è univoco sono i requisiti metodologici minimi. La differenza non è banale e un esempio può chiarirlo. Ogni amministrazione, coerentemente al proprio contesto interno ed esterno, definirà obiettivi suoi propri e specifici. Tali obiettivi però dovranno soddisfare dei requisiti minimi (se ne dovrà motivare la rilevanza, pertinenza, misurabilità, raggiungibilità, ecc.). Gli attori che parteciperanno alla definizione degli obiettivi, alla valutazione delle performance, ecc., sono interni alle singole amministrazioni e non centralizzati. Ciò che sarà centralizzato sarà la definizione dei requisiti minimi – che sarà competenza della commissione centrale – per garantire una valutazione corretta e la massima trasparenza esterna. Cosa c’è di centralizzato e monolitico in tutto ciò? Si può argomentare, al contrario, che sia un buon bilanciamento tra necessità di governance del sistema e autonomia delle singole amministrazioni.
Quanto alle soluzioni proposte dagli Autori, si può facilmente dimostrare che esse già sono contenute nel decreto:
Enfasi su uffici e non individui, e adeguati sistemi di misurazione. Oltre a quanto già argomentato, appare molto limitativo e anche un po’ anacronistico individuare nei (soli) sistemi di contabilità industriale la soluzione per la misurazione delle performance delle pubbliche amministrazioni. Infatti, quest’ultima ha una natura multi-dimensionale (una citazione per tutti: il modello del valore pubblico di Moore). La riforma va ben oltre la mera introduzione della contabilità industriale, ma comporta la definizione di un sistema multidimensionale di misurazione delle performance (non solo input ma anche output e outcome in una logica di balanced scorecard).
Indirizzare il lavoro della Commissione verso la costruzione di sistemi di misurazione che permettano di comparare le performance collettive. All’art. 13, comma 4, tra i compiti della Commissione è previsto già il ruolo di accompagnare la costruzione di sistemi di misurazione che permettano di comparare le performance a livello sia organizzativo che individuale (benchmarking) per aiutare ciascuna amministrazione a ridefinire il proprio modello organizzativo.
Legare l’incentivazione non ad una gratifica annuale ma al percorso di carriera. Forse è sfuggito, ma nell’ambito del decreto, la valutazione non è solo legata alla premialità economica ma anche al percorso di carriera (art. 24). Inoltre, la valutazione individuale positiva può dar luogo a incarichi specifici (art. 25). Non è illusorio quindi pensare che l’abbinamento di queste disposizioni abbia un impatto sulla motivazione, a breve e a lungo termine. Al contrario, pensare che la motivazione del personale possa essere spinta unicamente da prospettive di lungo termine sembra quanto meno anacronistico e rispecchia una visione della PA d’antan.
In conclusione, desideriamo ringraziare gli Autori, dal momento che ci hanno consentito di chiarire e comunicare meglio logiche e aspetti di una riforma che, essendo complessa, può risultare non pienamente intelligibile ad una prima e non approfondita lettura. Certo, se i loro spunti ci fossero giunti nell’ambito delle varie occasioni di consultazione sui contenuti del decreto – alle quali peraltro uno di loro è stato personalmente ma vanamente invitato a partecipare – sarebbero stati apprezzati meglio e prima.

LA REPLICA DEGLI AUTORI AL COMMENTO DI HINNA E TRONTI

Nella cortese risposta al nostro articolo del 4 giugno, i Consiglieri del Ministro segnalano che lo spirito della riforma è in linea con le nostre osservazioni. Ne siamo lieti. Se l’enfasi della Riforma e della costituenda Commissione sarà focalizzata su impostare e governare un sistema per misurare la performance delle varie amministrazioni, comprendere i livelli di produttività di uffici simili in territori diversi, confrontare tali livelli con attività comparabili di altre amministrazioni in Italia e all’Estero, il Paese ne beneficerà. Se poi questa perfomance si articolerà oltre che in banali sistemi di contabilità industriale per misurare produttività e costo per singolo servizio anche in moderni sistemi di balanced score card in cui si misurino anche i livelli di servizio, la soddisfazione degli utenti e dei dipendenti, ecc., saremo probabilmente all’avanguardia in Europa. Se infine le singole Amministrazioni Pubbliche stimolate dal confronto troveranno la forza e la creatività di ridefinire il proprio modus operandi, ridurre gli organici in eccesso e accorpare strutture sovrapposte o ridondanti, allora potremo dire che il Paese ha fatto un balzo in avanti. Non resta che fare ottimi auguri ai futuri componenti della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche. Ne avranno bisogno.
La dimensione organizzativa è certamente presente nella riforma. Ce ne eravamo resi conto. Tuttavia, nonostante i chiarimenti, continuiamo a pensare che vi sia un eccesso di enfasi sulla valutazione individuale e che lo schema (monolitico?) 25-50-25 possa rivelarsi una forzatura. Ne comprendiamo la motivazione, a fronte di sistemi di valutazione che spesso classificano tutti a pari merito al primo posto. Ma la cura scelta può aggravare il male. Nessuno nega che l’apporto individuale sia importante anche nella pubblica amministrazione. Il problema è che in gran parte delle attività pubbliche il lavoro è organizzato (e non può essere altrimenti) per gruppi, dove in genere il contributo individuale è difficilmente enucleabile e misurabile (ovvero è molto costoso farlo). La questione diventa allora come disegnare meccanismi retributivi incentivanti per i singoli all’interno del gruppo. La soluzione (il riferimento di partenza è Bengt Holmstrom) è riferire gli incentivi alla performance del gruppo nel suo complesso e non certo organizzare tornei tra i singoli. Se si forza la situazione, in assenza di un meccanismo di valutazione trasparente e accettato da tutti i componenti del gruppo, si corre il rischio di minare la percezione che i singoli hanno dell’equità dello schema retributivo con effetti negativi proprio sulla performance che si vorrebbe incentivare. Tutti uguali allora? Certamente no. Gli incentivi attribuiti al gruppo consentono un’ampia differenziazione. Un esempio è l’esperienza dell’Agenzia del territorio (il vecchio Ufficio del Catasto), dove il premio di produttività ai dirigenti (in quanto responsabili di uffici) è individuale, mentre quello erogato agli impiegati è differenziato solo per ufficio e varia, per i 122 uffici, su una scala da 1 a 8. Soprattutto, questi incentivi rispondono all’obiettivo di premiare la performance in termini del servizio erogato dall’ufficio. Se una squadra di vigili del fuoco spegne l’incendio con successo, non è chiaro quale vantaggio si ottenga da una graduatoria che distingue, nella squadra, chi è più bravo, chi è mediamente bravo e chi è un po’ scarso o poco volenteroso. Insomma, l’invito è a distinguere e a procedere per gradi. Benissimo gli incentivi annuali individuali, dove sono possibili, ma senza modelli unici del tipo 25-50-25, lasciando che a decidere sulla forma della distribuzione siano i dirigenti. Senza dimenticare però che gli incentivi individuali annuali non sempre sono sensati e che comunque alla fine ciò che interessa è la performance a livello di unità produttive.
Riguardo alla questione delle carriere. Gli artt. 24 e 25 non erano sfuggiti. Ma affinché le carriere funzionino come meccanismo incentivante occorre che la struttura delle carriere stesse sia stabile nel tempo e i percorsi di avanzamento siano ben definiti. Cosa che non ci sembra avvenga oggi. Sarà pure anacronistico (?) ma in organizzazioni con rapporti di lavoro permanenti e dove spesso i singoli sviluppano nel corso della loro vita lavorativa competenze idiosincratiche (vale a dire non facilmente spendibili altrove) la motivazione del percorso di carriera resta la più potente. Basta peraltro guardare ai meccanismi che governano le burocrazie di eccellenza (ce ne sono anche in Italia).
È più di decennio che nella nostra pubblica amministrazione è stato introdotto un sistema di definizione degli obiettivi e valutazione dei risultati. Siamo tutti d’accordo sul fatto che l’esito finora non sia stato soddisfacente. Nonostante, come dicono Hinna e Tronti, i giusti principi siano già largamente presenti nelle norme. La nuova riforma è apprezzabile nell’enfasi che pone su trasparenza e valutazione. Importante è non ricadere negli errori del passato, sviluppare sistemi di misurazione, senza dimenticarne limiti e ambiti, e ricordare che le norme di legge, anche eccellenti, sono la premessa ma, se si vogliono ottenere risultati concreti, non possono sostituire la difficile pratica del lavoro nello specifico e nelle singole strutture sui processi, sugli strumenti, sulle risorse, sugli assetti organizzativi.

CHI VINCE CON LA MANOVRINA

Deluso chi si attendeva misure più incisive a sostegno del reddito dei soggetti più poveri. Il governo annuncia un allargamento per via amministrativa della platea della social card, ma restano comunque invariate le risorse stanziate. L’incentivo Tremonti è una detassazione, parziale e temporanea, degli investimenti comunque finanziati. Non premia le imprese che rafforzano la struttura patrimoniale o quelle che hanno difficoltà di accesso al credito. La norma sostiene solo il settore meccanico. E rischia di essere particolarmente onerosa per il bilancio pubblico.

SE NASCE IL PARTITO DEL SUD

Come si spiega il successo elettorale della Lega? E perché si parla di un possibile Partito del Sud? Se, storicamente, il dibattito politico si concentrava sui trasferimenti fra gruppi sociali, oggi le decisioni ad alta tensione, per le quali la rappresentanza è importante, riguardano sempre più la distribuzione territoriale delle risorse. Il peso politico dei gruppi di interesse caratterizzati socialmente è quindi destinato a diminuire, e ad aumentare quello delle aggregazioni caratterizzate geograficamente. Interessi ricomponibili in un modello federale.

EDITORI SENZA TRANSPARENCY

La Consob adegua all’Europa la diffusione dell’informativa finanziaria italiana: le società quotate e i gestori di risparmio possono utilizzare sistemi informatici per le comunicazioni obbligatorie al mercato. Ma la nuova norma non è piaciuta agli editori dei giornali, che perderebbero pubblicità per 50 milioni. E dalla loro parte, oltre al Governo, trovano uno schieramento bipartisan in parlamento e lo stesso presidente della Consob, Cardia. Che zitto zitto dà le dimissioni per vedersele respingere. E mettere così in difficoltà i commissari Consob non allineati.

GIORNALI, PREVISIONI E ALTRI VENEFIZI

Apprendiamo che buona parte delle responsabilità della crisi sono attribuite dal Presidente del Consiglio ai giornali che parlano della crisi stessa e creano “sfiducia e paura, nel pubblico di consumatori, che così indugiano in comportamenti di risparmio invece che di spesa”. E poi che “non si deve continuare a parlare di una crisi profonda, chi lo fa porta nei consumatori una paura che modifica le abitudini degli acquisti. Da qui si verifica la regressione negli ordini delle aziende”. Insomma la crisi è propagata da chi ne parla e fa previsioni pessimiste.
La mente corre a frasi lette e rilette in gioventù…

“Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malíe. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi” (A. Manzoni, I promessi sposi, Einaudi-Gallimard, pp. 457-458).
“In principio, dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi una vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro” (ibidem, p. 461).

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Nella maggior parte i commenti non si soffermano sugli aspetti toccati nell’articolo ed esprimono opinioni molto tranchant. Ciò è tanto più significativo in quanto avevo tentato di mettere a fuoco problemi specifici in un’ottica tutt’altro che “di promozione”. E’ un dato su cui riflettere. Non che mi dispiaccia confrontarmi con visioni “radicali” del problema della previdenza privata in Italia e nel mondo, ma è difficile rispondere alle osservazioni di questi lettori senza cadere in una logica da tifoserie contrapposte. Ci provo lo stesso, anche se non so quanto sia costruttivo.
I fondi pensione sono uno strumento ambivalente; così come il TFR, la pensione pubblica, le pensioni di invalidità civile (se distribuite su base clientelare)…
Il TFR negli anni 80 (quelli con l’inflazione a due cifre) era considerato uno “scippo” a danno dei lavoratori dipendenti; non era affatto ritenuto un istituto “progressista”.
La pensione pubblica sembrava lo strumento ideale per garantire una vecchiaia dignitosa, tuttavia oggi non lo è più perché la demografia ha costretto la politica a introdurre cambiamenti sostanziali nel sistema della previdenza obbligatoria e a ridurne la copertura.
I fondi pensione rappresentano un’opportunità di diversificazione dei rischi (compreso quello “politico”) che comunque ricadono sul risparmio previdenziale. Se correttamente gestiti, a costi contenuti e tenendo conto delle caratteristiche reddituali, anagrafiche, patrimoniali degli iscritti, possono rappresentare un valido strumento (volontario) a disposizione dei lavoratori.
Si denuncia che oggi, nel contesto di una crisi per certi versi epocale, i fondi pensione accusino rendimenti molto negativi; ciò è indubitabile, ma sarebbe sbagliato dedurne che questa sia una tendenza intrinseca, come sarebbe stato altrettanto sciocco esaltare in assoluto i rendimenti positivi degli anni scorsi. La sfida è garantire ai lavoratori un rendimento netto superiore nel lungo periodo al TFR e la mia opinione è che tale obiettivo sia alla portata dei fondi pensione (anche grazie al contributo addizionale dei datori di lavoro e ai benefici fiscali) purché essi adottino metodologie gestionali efficienti, meccanismi perequativi, forme di garanzia, strumenti di trasparenza e consulenza e tutta un’altra serie di strumenti da utilizzare nell’esclusivo interesse degli iscritti.
Penso sia giusto tentare di far funzionare al meglio ciò che abbiamo e evitare gli anatemi.
Quanto all’unico commento riferito davvero all’articolo e all’obiezione in esso contenuta sulla “contraddittorietà” della mia affermazione secondo cui persone prossime al pensionamento non dovrebbero essere iscritte a linee a elevato rischio finanziario, posto che, correttamente, non mi viene attribuita la paternità della seconda affermazione, non vedo in quale contraddizione sarei caduto. Peraltro, al di là della nota di stile, non capisco, caro lettore, il suo ragionamento. Indipendentemente dalla bontà e razionalità delle scelte fatte a venti, trenta, quaranta anni di età, (alcune sue notazioni sulle criticità di tali scelte sono anche condivisibili), negli ultimi anni della fase di accumulazione occorre consolidare il montante e porlo al riparo da fattori di rischio, perché, in caso di shock, non si ha il tempo per recuperare perdite che decurtano l’intero capitale accumulato.

PS
I gestori in Italia non possono “scappare con la cassa” perché i patrimoni dei fondi sono affidati in custodia – per legge – a una banca depositaria.
 

IL POSTO PUBBLICO? SI EREDITA

A parità di istruzione, genere, età, stato civile, area geografica e altri parametri, la probabilità di entrare nella pubblica amministrazione aumenta del 44 per cento per gli individui il cui padre lavora nel settore pubblico. Ma il nepotismo non è solo fonte di iniquità, ha anche costi rilevanti per le organizzazioni pubbliche, costrette a impiegare lavoratori meno competenti. E’ essenziale un meccanismo che premi o penalizzi economicamente i responsabili delle selezioni sulla base della qualità delle scelte effettuate.

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