Lavoce.info

Categoria: Argomenti Pagina 816 di 1087

UN ANNO DI GOVERNO: SANITÀ

 

I PROVVEDIMENTI

Le politiche sanitarie che hanno caratterizzato il primo anno di governo possono essere riassunte intorno a tre grandi temi: le risorse da destinare al sistema, la gestione delle situazioni di dissesto finanziario, la ri-definizione delle politiche per la salute all’interno del sistema di welfare.
Per quanto riguarda il primo tema, quello delle risorse, la definizione del Patto per la salute con il precedente governo (e, soprattutto, la definizione di piani di rientro per le Regioni in difficoltà che attribuivano chiare responsabilità agli amministratori regionali) aveva contribuito a stabilizzare la spesa. Con il nuovo governo questa politica di “concertazione istituzionale” viene in qualche modo abbandonata, nel segno di un rigore forse più enunciato che perseguito. Il Dl 112/08 con il quale si è anticipata la Finanziaria chiede infatti al Servizio sanitario nazionale sforzi di razionalizzazione non indifferenti, soprattutto nel biennio 2010-2011. Per il 2009, con il Dl 154/08 si sono trovati un po’ di soldi in più rispetto alle prime proposte attraverso l’utilizzo del Fondo per le aree sottosviluppate, ma ciò non muta l’intonazione generale della politica del governo votata al contenimento della spesa. I suggerimenti alle Regioni, resi espliciti in occasione delle discussioni sul nuovo Patto, sono i soliti: riduzione degli standard di posti letto, riduzione delle spese per il personale, introduzione di forme di compartecipazione alla spesa. Anche le risorse in conto capitale, sia quelle per l’edilizia ospedaliera sia quelle riservate al Mezzogiorno nell’ambito del Quadro strategico nazionale, si azzerano o procedono con tempi molto lunghi.
Per quanto riguarda il secondo tema, la gestione dei dissesti finanziari, concentrati in poche realtà regionali, in particolare Lazio, Campania e Sicilia, le decisioni del governo rispetto alle ipotesi iniziali di commissariamento si sono rivelate molto più accomodanti: si è scelta la strada di affidare ai governatori la possibilità di essere “commissari” di se stessi. Si è anche agitato lo spettro del “fallimento politico”, cioè la possibilità di tornare alle urne in caso di dissesto; ma non si è mai passati dalle parole ai fatti.
Infine, per quanto riguarda il terzo tema, già a partire dalla scomparsa del ministero per la Salute, si è voluta tracciare una rotta di lungo periodo per ri-definire le politiche per la salute nell’ambito del Welfare. Il tema è stato affrontato attraverso il Libro verde prima e il recentissimo Libro bianco poi. La tendenza individuata è una ancora più marcata de-ospedalizzazione, un miglioramento dei servizi territoriali, una più forte integrazione con le politiche assistenziali, la massima attenzione all’efficienza nell’impiego delle risorse. Un concetto, questo, ribadito anche dal richiamo ai costi standard nel Dl sul federalismo appena approvato. Principi in gran parte condivisibili, ma rispetto ai quali il governo non ha ancora prodotto risultati apprezzabili.

GLI EFFETTI

Riusciranno le Regioni, in particolare quelle in grave disavanzo, a rispettare i vincoli finanziari imposti dal governo centrale? Le prospettive non sono confortanti. La storia insegna che il governo della spesa dipende sia dalla qualità delle amministrazioni regionali sia dalle aspettative delle stesse circa l’intervento ex-post dello Stato in caso di crisi finanziaria. Ma la qualità delle amministrazioni migliora troppo lentamente e le aspettative di ripiano a favore delle Regioni “canaglia” sono in qualche misura sostenute dallo stesso governo centrale. Da questo punto di vista, il commissariamento di se stessi, pur in presenza di un “affiancamento” da parte del governo centrale, non va nella direzione giusta: è lo spettro della perdita di sovranità la “punizione” che potrebbe fornire gli incentivi giusti per una buona gestione. E perdita di sovranità vuol dire “restituzione” della stessa al governo centrale, e adozione da parte di quest’ultimo di quei provvedimenti, impopolari, che le Regioni non sono in grado di adottare.
La ri-definizione delle politiche per la salute nell’ambito generale del Welfare appare una buona idea, che potenzialmente potrebbe portare a un ripensamento dell’intera struttura dell’intervento pubblico in campo sociale. Che non vuol dire però tagliare i posti letto, ma pensare a un nuovo Stato sociale che riesca finalmente a garantire a tutti i cittadini l’eguaglianza delle opportunità, la traduzione “tecnica” dei livelli essenziali delle prestazioni prevista dalla Costituzione.

OCCASIONI MANCATE

Da un governo che può contare su una larga maggioranza ci si sarebbe potuti aspettare meno incertezze, anche perché alcuni elementi di contesto richiedono e addirittura favoriscono azioni energiche.
L’accorpamento in un unico ministero di Sanità e Politiche sociali avrebbe (almeno) potuto favorire il rilancio delle politiche per la non autosufficienza, per le quali l’integrazione fra sociale e sanitario è fondamentale. Al contrario, l’Italia continua a restare agli ultimi posti in Europa per l’assistenza agli anziani, puntando esclusivamente sulle pensioni. L’impegno sulla non autosufficienza avrebbe potuto essere inserito in quel ridisegno delle politiche sociali di cui il Paese ha da tempo bisogno, a maggior ragione in tempo di crisi. E le esperienze delle Regioni più avanzate indicano ormai in modo chiaro come procedere.
Un altro aspetto completamente trascurato è quello dell’appropriatezza: esiste ormai ampia evidenza che una maggiore attenzione all’appropriatezza e alla sobrietà d’esercizio produce effetti positivi sulla qualità dei servizi e sulle dimensioni della spesa. Un governo che fa della lotta agli sprechi la propria bandiera deve promuovere il buon uso dei servizi sanitari (a partire dal pronto soccorso), dei farmaci (in particolare dei generici), degli esami di laboratorio (procedendo nelle politiche già avviate dal precedente governo di accentramento dei laboratori e nella diffusione dei punti prelievo), della diagnostica per immagini (razionalizzando l’offerta), nella revisione di alcune tariffe, e così via.
Sul fronte degli investimenti, il governo è ancora in tempo per non perdere l’occasione per metter mano al problema della sicurezza delle strutture sanitarie, soprattutto nelle Regioni più arretrate. I piani di rientro non possono limitarsi alla gestione corrente; investimenti sbagliati o fondi inutilizzati devono far scattare interventi sostitutivi, per evitare che l’incapacità delle amministrazioni regionali si scarichi sulla testa dei cittadini.

UN ANNO DI GOVERNO: LAVORO

 

I PROVVEDIMENTI

In materia di lavoro, il provvedimento principale del governo è stata un’estensione del principio della deroga degli ammortizzatori sociali. Attraverso gli ammortizzatori in deroga, il governo individua di volta in volta i settori, i lavoratori e le imprese che possono accedere alle indennità. Le deroghe saranno finanziate per un ammontare stimato dal governo fino a 8 miliardi di euro in due anni, da recuperare da un accordo con le Regioni concluso nei primi mesi dell’anno.
È stata anche introdotta una forma di ammortizzatori sociali per i lavoratori a progetto mono-committenti, quei lavoratori che hanno un solo datore di lavoro. L’ammortizzatore corrisponde a non più del venti per cento della loro retribuzione con un massimale pari a 2.600 euro.
Il governo ha detassato gli straordinari nel maggio del 2008 (per poi cancellare la norma qualche mese dopo) e si è impegnato a detassare gli incrementi di salario legati a incrementi di produttività nell’ambito dell’accordo sulla riforma del modello contrattuale. L’accordo è opera delle parti sociali e non del governo. 

GLI EFFETTI

Èmolto difficile stimare gli effetti degli ammortizzatori sociali in deroga, anche perché sono uno strumento largamente discrezionale. In aggiunta, ciascuna Regione dovrà attuare gli accordi attraverso apposite leggi regionali. Si sente parlare spesso della possibilità di usare, da parte delle Regioni interessate, i fondi sociali europei per finanziare gli ammortizzatori in deroga, ma in molti casi i provvedimenti legislativi regionali non sono ancora stati definiti.  
La detassazione degli straordinari è una misura durata troppo poco per avere effetti significativi. Una indagine di Banca d’Italia segnalava il rischio di riduzioni nelle assunzioni proprio mentre esplodeva la crisi. Anche da qui la decisione di annullare il provvedimento. 
La detassazione dei premi di produttività, per diventare pienamente esecutiva, dovrà aspettare i rinnovi contrattuali, dove peraltro vi è il problema della mancata sottoscrizione del nuovo modello contrattuale da parte della Cgil.

OCCASIONI MANCATE

Il governo non ha introdotto un sussidio unico per tutti i lavoratori precari e non ha affrontato la questione del contratto unico di lavoro, nonostante le aperture della Confindustria e, ultimamente, anche di importanti esponenti della Cgil.

DISCRIMINATI PERCHÉ CLANDESTINI

La lotta all’immigrazione clandestina dichiarata con il pacchetto sicurezza ha portato all’introduzione nel codice penale di un’aggravante per i reati commessi dai “clandestini”. Lo stesso reato, quale che sia, è considerato dalla legge più grave ed è punito più severamente se a commetterlo è uno straniero irregolare. Si tratta di un’irragionevole discriminazione fondata su una mera condizione personale, in spregio del principio costituzionale di uguaglianza.

UN ANNO DI GOVERNO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

 

I PROVVEDIMENTI

In materia di pubblica amministrazione, l’atto più significativo del governo Berlusconi nel suo primo anno di vita è stato il cosiddetto decreto Brunetta. Ed è su questo che ci soffermiamo.
La riforma contiene più di un elemento di novità, ma lo sforzo maggiore è rivolto a indurre le singole amministrazioni a fare quello che sinora non hanno fatto: dotarsi di un sistema di valutazione della qualità dei loro servizi e della produttività dei loro dipendenti. E far discendere da questi risultati la differenziazione dei compensi. Èsolo uno, anche se forse il più importante, dei tanti aspetti toccati dalla bozza del decreto, ma vale la pena analizzarlo meglio.
Nel provvedimento si promuove la costituzione di una sorta di Autorità che si dovrà avvalere della attività dei nuclei di valutazione e dei servizi di controllo che già operano all’interno di ciascuna amministrazione. La natura di questi nuclei dovrà cambiare e questo rappresenta un mutamento significativo rispetto alla situazione attuale.

GLI EFFETTI

Èdifficile prevedere se un sistema di questo tipo funzionerà. Certamente, vengono poste alcune premesse interessanti, mai sperimentate prima e quindi in grado di produrre qualche novità significativa. Rimangono comunque punti oscuri. Soprattutto, non è chiaro se l’Autorità avrà le competenze e le risorse necessarie per svolgere una azione di monitoraggio e di controllo di portata così vasta. Il decreto prevede che questa funzione sia distribuita tra una pluralità di soggetti istituzionali. E si sa cosa succede in queste circostanze: tanti soggetti responsabili, ma poi è difficile trovare uno che prenda le decisioni necessarie e incisive.
Sarà interessante soprattutto verificare se i nuclei di valutazione e i servizi di controllo esterno saranno in grado di svolgere un ruolo di “terzi” nei confronti delle unità amministrative di appartenenza e se saranno in grado di rilevare e di denunciare all’Autorità i comportamenti opportunistici di queste ultime tendenti a eludere i compiti loro assegnati. D’altra parte, non si vede come la prevista Autorità possa funzionare senza opportuni “terminali” che controllino da vicino l’attività delle singole unità amministrative su questo difficile e scivoloso terreno della valutazione dei risultati raggiunti.
La riforma del governo insiste molto sulla valutazione dei singoli dipendenti “all’interno” delle singole amministrazioni. La riforma mette in campo una batteria di interventi che può apparire sin troppo ricca e complessa da gestire. Si introduce una pluralità di premi ( “bonus per le eccellenze”,  “premio per l’innovazione”, oltre alle progressioni economiche orizzontali e verticali). Inoltre, tutti i dipendenti devono essere inseriti in una graduatoria di merito, con la distribuzione di  un premio elevato al primo 25 per cento dei dipendenti più meritevoli, un premio medio al secondo 50 per cento e niente all’ultimo 25 per cento. Tentativi di obbligare le amministrazioni a forzare la distribuzione dei premi sono stati fatti in passato, e anche in modo meno complicato, ma non hanno dato alcun risultato. Le amministrazioni non li hanno mai applicati. Sarà la volta buona?
Proprio per questo motivo maggiore attenzione andrebbe dedicata alla distribuzione dei premi sulla base della valutazione dei risultati raggiunti da ciascuna unità amministrativa nel suo insieme. Mettere a confronto i risultati delle diverse unità amministrative è importante, come importante è far discendere dalle differenze riscontrate conseguenze concrete in termini di distribuzione delle risorse complessive. Risorse che sono necessarie per finanziare i premi da distribuire poi all’interno di ciascuna di esse.Èquanto, ad esempio, si vuole fare per le università: le risorse maggiori devono andare agli atenei che hanno raggiunto i migliori risultati. Occorre fare lo stesso anche per le altre amministrazioni: tribunali, scuole, enti di ricerca, prefetture, ambasciate e così via.
La distribuzione differenziata delle risorse e dei premi deve essere prevista nel contratto collettivo nazionale di lavoro laddove si fissano le regole per lo svolgimento della contrattazione di secondo livello. In quella sede si devono fissare le risorse di cui ogni amministrazione può disporre, i tetti di spesa da rispettare e gli aumenti retributivi di carattere accessorio che si possono elargire .Èin questa fase, che occorre discriminare le diverse amministrazioni: da una parte quelle che hanno aggiunto gli obiettivi, che hanno i migliori standard di servizio, che hanno messo in campo un efficiente sistema di valutazione interno, che hanno riscosso i migliori apprezzamenti dei cittadini clienti, dall’altra tutte le altre amministrazioni, che non hanno fatto niente di tutto ciò o che lo hanno fatto in misura insufficiente. Le prime vanno premiate. Le seconde no.

OCCASIONI MANCATE

Nel decreto, di fatto, si prevede che la Autorità trasmetta al “tavolo” dei rinnovi dei contratti nazionali una valutazione comparativa dei risultati raggiunti dalle amministrazioni dello Stato e del parastato. Ma il tutto si riduce a poche righe in un comma che si nasconde all’interno di una serie di altre misure specifiche. Tutto questo dovrebbe essere molto più chiaro nel decreto. Dovrebbe rappresentare il fulcro della attività di valutazione che ruota attorno all’Autorità. Si prevede invece tutta una serie di controlli sui risultati della contrattazione decentrata da parte del ministero per la Pubblica amministrazione, dell’Aran, della Ragioneria generale dello Stato, della Corte dei conti. Manca però un chiaro riferimento alla necessità che, alla fine, spetti all’Autorità raccogliere ed elaborare tutte queste verifiche al fine di garantire che le risorse per la contrattazione integrativa siano distribuite tra le diverse amministrazioni sulla base dei risultati raggiunti. Vi è tutto il tempo per ripristinare in modo più chiaro questo legame tra contrattazione e valutazione. 
Se la preoccupazione del governo è di evitare una commistione pericolosa tra contrattazione e valutazione, questa è fondata. Ma qui non si tratta di conferire alla contrattazione la funzione di decidere modi e contenuti del processo di valutazione, come, sbagliando, si è fatto in passato. I sindacati e la contrattazione non devono entrare nel processo di valutazione. Ma il problema è un altro: occorre che la contrattazione tenga conto dei risultati di una valutazione che, per la prima volta, dovrebbe essere fatta da organi indipendenti. Approfittiamo di questa annunciata rivoluzione!
Va osservato, inoltre, che è meglio privilegiare la valutazione delle strutture rispetto alla valutazione dei singoli dipendenti. Le ricerche condotte su questo tema confermano che si ottengono risultati migliori se si valutano i gruppi anziché i singoli lavoratori. Certo occorre fare entrambe le cose, ma il decreto pur insistendo molto sulla valutazione delle strutture, sembra troppo concentrato sul differenziare i compensi tra i singoli dipendenti, per colpire i “fannulloni” e premiare i meritevoli. Giusto, ma non basta.

UN ANNO DI GOVERNO: INFORMAZIONE

 

I PROVVEDIMENTI

Il quadro delle misure varate dal governo nel suo primo anno di vita relative ai settori dell’informazione è estremamente scarno.

Televisione

  • All’interno del pacchetto anticrisi varato dal governo nel novembre 2008 è stato abolito il regime di Iva agevolata al 10 per cento stabilito dalla legge 507/95 per gli abbonamenti alle tv a pagamento su piattaforma satellitare e via cavo. Nel nuovo regime l’Iva, che riguarda essenzialmente gli abbonati ai canali Sky, passa al 20 per cento.
  • È stata ventilata dal ministro Bondi l’ipotesi di eliminare la raccolta pubblicitaria dalle reti del servizio pubblico. La proposta non ha a oggi conosciuto un seguito né è stata precisata maggiormente.
  • È in fase di completamento la nomina dei vertici delle reti Rai e delle principali testate giornalistiche del gruppo televisivo pubblico.

Stampa

  • Nella manovra finanziaria per il 2009 non è prevista alcuna misura di rilievo a sostegno del settore della carta stampata, mentre è previsto qualche taglio a misure di agevolazione alle spedizioni postali dei giornali.

GLI EFFETTI

L’azione del governo si è caratterizzata quindi per la totale assenza di interventi complessivi, a fronte di una crisi significativa dei settori dei media, colpiti dalla caduta degli investimenti pubblicitari e, per i giornali, delle vendite. Assenza che contrasta con l’attivismo ad esempio del governo francese, che ha varato un piano di sostegno a favore dei giornali per 600 milioni di euro nel triennio 2009-11 e che ha abolito la raccolta pubblicitaria sulle reti pubbliche. Non possiamo che notare come lo spoil system che da sempre caratterizza le reti pubbliche si stia ripetendo con particolare impudicizia, e non possiamo non ricordare con preoccupazione come un mondo della carta stampata in strutturale difficoltà economica ben difficilmente sia in grado di svolgere il suo ruolo istituzionale di watchdog verso i poteri pubblici.

UN ANNO DI GOVERNO BERLUSCONI – PARTE II

Proseguiamo il bilancio dei 12 mesi del governo in carica con una seconda serie di schede, ciascuna delle quali dedicata a una materia. Quali sono stati i provvedimenti dell’esecutivo? Quali i loro effetti nel tempo? E le occasioni mancate?

POLITICHE PER LE FAMIGLIE, di Daniela Del Boca
FEDERALISMO, di M. Flavia Ambrosanio e Massimo Bordignon
FISCO, di Silvia Giannini e Mari Cecilia Guerra
INFORMAZIONE, di Michele Polo
INFRASTRUTTURE, di Andrea Boitani
LAVORO, di Pietro Garibaldi
SANITA, di Nerina Dirindin e Gilberto Turati
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, di Carlo Dell’Aringa

SE 50 ANNI DI COPYRIGHT VI SEMBRAN POCHI

La Commissione Europea dovrà presto esaminare un testo di direttiva che allunga da cinquanta a novantacinque anni i diritti d’autore di musicisti e case discografiche. Non è una buona idea. In primo luogo perché a beneficiarne sarebbero la majors della musica e non gli artisti. E non ha neanche giustificazioni economiche: in altri settori, come il farmaceutico, dove gli investimenti sono ben più rilevanti, il copyright è inferiore ai venti anni. Oltretutto, così facendo si rinuncia a esplorare le nuove opportunità e i nuovi modelli economici offerti dal digitale.

UN ANNO DI GOVERNO: INFRASTRUTTURE

 

I PROVVEDIMENTI

Con il decreto del luglio 2008 dedicato alla prima manovra economico finanziaria, il nuovo governo ha resuscitato le concessioni ai general contractors per le tratte non ancora avviate dell’alta velocità ferroviaria: Milano-Genova, Milano-Verona e Verona-Padova. Le concessioni, affidate a suo tempo senza alcuna procedura competitiva, erano state già revocate dai governi di centrosinistra nella XIII e XV legislatura e riportate alla luce dal centrodestra nella XIV legislatura.
In uno dei primissimi provvedimenti approvati dal governo (il Dl 59/2008) è stata inserita una disposizione che rinnova automaticamente e senza gare le convenzioni tra Anas e le concessionarie autostradali. In autunno, il ministro Tremonti ha avuto parole dure nei confronti dei concessionari autostradali, rei di non aver eseguito gli investimenti nei tempi previsti e aver nel frattempo intascato pedaggi giustificati proprio con la necessità di finanziare quegli investimenti. Da tanta severità è però emerso solo un rinvio degli aumenti tariffari in programma (ormai scattati) e una forma semplificata per gli adeguamenti tariffari futuri, con una nuova regola valida per 10 anni, e non più 5, che stravolge sostanzialmente il metodo del price cap. Tanto, per come lo si era applicato per i 10 anni precedenti…
Il cosiddetto “Collegato infrastrutture” al Dpef, sempre del luglio 2008, metteva bene in chiaro che il nuovo governo avrebbe puntato molto, almeno a parole, sulle grandi opere infrastrutturali. Viene rilanciato alla grande il ponte sullo Stretto di Messina. Altrettanto bene chiariva come del faraonico elenco di opere inserite nella Legge obiettivo del 2003 si era realizzato relativamente poco. Ma soprattutto si ammetteva come molte delle opere non avessero ancora trovato finanziamento, come il coinvolgimento dei privati fosse rimasto molto al di sotto di quanto a suo tempo sperato e come quindi assai più consistente avrebbe dovuto essere l’esborso di denaro pubblico in futuro. Al tempo stesso, si prevedeva un’ulteriore riduzione delle risorse destinate a investimenti pubblici (-11,5 per cento), al fine di risanare la finanza pubblica.
Il Dl 152 dell’11 settembre 2008 corregge, per la terza volta, il Codice dei contratti pubblici dando nuovo rilievo, per il project financing, alla gara “bifasica” con diritto di prelazione. Essa prevede che, nella prima fase, si competa sulla qualità del progetto e nella seconda sul prezzo. Il progetto del “promotore” che si è aggiudicato la prima fase viene posto a gara nella seconda, in cui, tuttavia il promotore stesso gode di un diritto di prelazione che gli attribuisce uno straordinario vantaggio e quindi può scoraggiare la partecipazione alla seconda fase della gara. Dato che è nella seconda fase che si fa il prezzo sarebbe proprio qui che si vorrebbe una partecipazione ampia e, dunque, una concorrenza accanita.
Con l’inasprirsi della crisi economica, alle grandi opere vengono attribuite taumaturgiche virtù anticongiunturali e si annuncia un massiccio finanziamento. Il primo “rifinanziamento” della Legge obiettivo, con il decreto anticrisi, è però modesto: 2,3 miliardi. Il 6 marzo 2009, finalmente, il Cipe stanzia altri fondi, peraltro ancora una volta in misura cospicua prelevati dal Fondo aree sottoutilizzate (Fas). Tale fondo ha un vincolo di destinazione: l’85 per cento al Sud e il 15 per cento al Centro-Nord. In gran parte sono fondi necessari a completare opere già cantierate da tempo e sulla via di battere nuovi record in materia di lentezza della realizzazione. 1,3 miliardi sono destinati al ponte sullo Stretto, mentre si ammette che l’opera non potrà essere avviata prima di 12-18 mesi. Le risorse destinate all’edilizia scolastica – che negli ultimi anni non solo ha mostrato le crepe ma ha fatto dei morti – sono briciole.

GLI EFFETTI

Non è semplice valutare gli effetti macroeconomici immediati delle misure adottate. È certo però che gli annunci, da soli, hanno scarsi effetti e i fondi “freschi” stanziati, e non semplicemente spostati da qualche altra destinazione, sono di dimensione assai ridotta. Sul piano metodologico, va rilevato che, ancora una volta, il Cipe, per approvare un maggior numero di progetti, ricorre allo stratagemma del “finanziamento parziale”, che permette forse di aprire più cantieri, ma non di completare le opere fino alla loro piena funzionalità. Come ha rilevato la Corte dei conti nel 2007, questa abitudine ha spinto alla frammentazione di progetti per lotti, spesso assai poco “funzionali”, al fine di massimizzare la probabilità di ottenere fondi dal Cipe, pregiudicando però la programmazione generale e finendo per accrescere i costi delle opere complessive, oltre che per allungarne i tempi di realizzazione.
Il governo ha inserito all’articolo 20 del decreto anticrisi norme per velocizzare le procedure esecutive dei progetti del quadro strategico nazionale e per modificare il relativo regime di contenzioso amministrativo. Non è ancora dato di sapere se tali misure abbiano già avuto qualche effetto positivo e, naturalmente, se l’avranno in futuro. Resta tuttavia il dubbio che tale “velocizzazione” non riesca a incidere sui lunghissimi tempi per la progettazione, le conferenze dei servizi, ecc. che caratterizzano la gestazione delle grandi opere italiane.
Il giudizio sul ripristino dei vecchi contratti per l’alta velocità lo affidiamo alle parole pronunciate da Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs, nel corso di un’audizione al Senato della Repubblica, in cui cercava di spiegare il fatto che un chilometro di Av in Italia costa circa il triplo che in Francia. “I contratti sottoscritti in Italia per la realizzazione della direttrice To-Mi-Na fanno riferimento alla convenzione Tav-Gc del 1991, che prevede la negoziazione diretta tra committente e general contractor nell’ambito di un affidamento sostanzialmente già effettuato. In tale caso, la congruità del prezzo che viene esperita prima dell’affidamento dal soggetto tecnico che supporta la committenza deve necessariamente tenere conto, oltre che dei costi di costruzione diretti, anche degli oneri organizzativi e finanziari, degli attrezzaggi e delle prestazioni previsti dall’affidatario in termini ed entità difficilmente contestabili. In un affidamento mediante gara, invece,  tali oneri incidono generalmente di meno, poiché gli stessi concorrenti, per poter aggiudicarsi l’affidamento,operano nel proprio ambito imprenditoriale specifiche ottimizzazioni organizzative e gestionali, tenendo conto di capacità, risorse, attrezzature già di loro proprietà, sinergie operative ed economiche realizzabili nell’esecuzione delle opere. Il ricorso ad una gara ad evidenza  pubblica avrebbe sicuramente comportato una riduzione dell’ordine del 14 ÷ 20 per cento”.
Infine, dai provvedimenti presi, la concorrenza non emerge come una delle principali preoccupazioni dell’esecutivo e anzi sembra essere vista, col plauso del quotidiano della Confindustria, come un ostacolo al “fare”. Chi cerca di difenderla è additato come un paladino del “non fare”. Eppure è ampiamente riconosciuto che la concorrenza costituisce un potente antidoto alla corruzione, che è notoriamente molto diffusa, e non solo in Italia, proprio nel settore dei lavori pubblici: l’evidenza empirica sul punto è ampia e univoca. Ed è altrettanto noto che la corruzione è non solo nemica del fare, ma anche nemica del fare bene e a costi ragionevoli..

UN ANNO DI GOVERNO: FEDERALISMO

I PROVVEDIMENTI

Che è successo nel primo anno del IV governo Berlusconi ai rapporti finanziari tra governi, o per dirla più semplicemente al federalismo fiscale? Nulla di nuovo rispetto al Berlusconi II e III. Allora come ora, dichiarazioni eclatanti a favore del decentramento e del federalismo, fatte apposta per far contenti pezzi della maggioranza, si sono accompagnate a comportamenti concreti che vanno esattamente nella direzione opposta.

Dal lato delle entrate:

Si è abolita l’Ici sull’abitazione principale, il più importante tributo comunale (costo stimato: 1,7 miliardi di euro). La cancellazione dell’imposta contrasta con il principio dell’autonomia tributaria sancito dalla Costituzione. E se anche fosse vero che le perdite di gettito saranno interamente coperte da trasferimenti, del che c’è da dubitare, almeno a sentire i sindaci che ancora aspettano di vedere i soldi, il risultato non è ovviamente lo stesso in termini degli incentivi.
Sempre in contrasto con l’obiettivo dell’autonomia tributaria, il Dl 93/2008, come l’analogo intervento deciso nel 2002, ha bloccato la possibilità di introdurre variazioni nell’addizionale comunale all’Irpef, così come dell’addizionale regionale sull’Irpef e sull’Irap. (1)
Ironicamente, la Ruef (aprile 2009) attribuisce il blocco dei tributi locali al desiderio di “sostenere i redditi e di ridurre la pressione fiscale”. Peccato che il blocco e la riduzione dell’Ici siano stati introdotti a pressione fiscale invariata, cioè con l’aspettativa che i due interventi saranno finanziati interamente da incrementi nei tributi erariali.

Dal lato delle spese:
Nell’ambito della manovra sulle spese per il 2009-2011, il contributo più rilevante al risanamento è stato richiesto agli enti locali, attraverso il patto di stabilità interno, con risparmi di spese correnti stimati in 3,4 miliardi di euro nel 2009, 5,5 nel 2010 e 9,5 nel 2011, somme che rappresentano circa il 40 per cento dei risparmi complessivi in ciascun anno. Per avere un punto di riferimento, i risparmi delle spese statali (per la parte corrente) sono stimati in 3, 3,5 e 6,3 miliardi di euro rispettivamente. Naturalmente, è tutto da vedere se questi risparmi di spesa siano conseguibili, soprattutto alla luce della presente crisi economica.
È stata fortunatamente messa da parte la proposta del Consiglio regionale della Lombardia sull’attuazione dell’articolo 119 del Titolo V della Costituzione (cosiddetta bozza Formigoni), nonostante che questa fosse enfaticamente prevista nel programma elettorale del Partito delle libertà. Al suo posto, è stata invece approvata definitivamente dal Parlamento la legge delega “Calderoli”, che riprende in molte parti l’analogo provvedimento presentato dal governo Prodi. La legge delega è piena di buoni principi, molto vaga e contraddittoria in alcune parti. Comunque, richiederà diversi anni per essere pienamente applicata. E nel frattempo?

(1) Se sarà davvero così. Il blocco della addizionale Irpef ha infatti scatenato un contenzioso tra Stato e comuni, che reclamano il diritto di portare avanti gli incrementi decisi nel 2008 per gli anni successivi e già iscritti nei bilanci di previsione. Per il momento, la Corte dei conti ha dato loro ragione. Si aspetta di vedere se il governo farò ricorso.

MONOETNICI A CASORIA

Secondo il Presidente del Consiglio l’Italia non è un Paese multietnico. Non è chiaro cosa voglia dire Silvio Berlusconi con questa affermazione. In Italia, secondo l’Istat, gli stranieri residenti sono circa 3,9 milioni su una popolazione totale di 60 milioni, quindi attorno al 6,5 per cento. Questa percentuale è inevitabilmente destinata a salire nei prossimi anni fino a raggiungere, secondo alcune proiezioni, il 10 per cento nel 2020. Uno su dieci stranieri residenti, ai quali si aggiungeranno gran parte degli italianissimi figli degli attuali stranieri. Ma la presenza di etnie diverse la osserva già ora chi accompagna i propri figli a scuola o semplicemente sente da loro racconti sui compagni di classe dai nomi come Jair, Biniam, Selma. La osserva chi va a correre al parco durante il weekend e vede partite in cui squadre composte da peruviani, filippini e italiani sfidano altre squadre composte da brasiliani, marocchini e italiani. La osserva chi ha parenti anziani assistiti da badanti lituane o donne eritree che fanno le pulizie in casa. La osserva chi rientra a casa la sera nelle carrozze stipate della metropolitana o chi guida per le strade delle nostre città e si vede chiedere l’elemosina ad ogni semaforo. Insomma, la multietnicità dell’Italia si vede dappertutto. Ovunque, tranne forse alle feste di compleanno delle diciottenni di Casoria.

Pagina 816 di 1087

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén