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L’ACCORDO SEPARATO DEL 22 GENNAIO 2009: QUALI ULTERIORI PROVE DI DIALOGO?

L’accordo recentemente siglato da tutte le confederazioni sindacali e imprenditoriali, a eccezione della Cgil, con una presenza del Governo più in veste di datore di lavoro pubblico che non di soggetto dispensatore di risorse normative e finanziarie, è stato giustamente definito “di portata storica”, perché innesta numerosi germi concertativi e cooperativi al sistema di relazioni industriali del nostro paese, ciò che in Italia costituisce una novità assai rilevante. La questione è se l’innovazione si rivelerà soltanto tentata o anche effettiva.
Vi è un punto su cui la cesura rispetto al passato è drastica al punto da essere indigeribile per la Cgil: la derogabilità in peius dei contratti nazionali da parte dei livelli inferiori. La giurisprudenza in verità ha ammesso il principio della derogabilità in peius del contratto collettivo nazionale a opera del contratto aziendale per il prevalere del criterio cronologico su quello gerarchico, anche con riguardo a materie non devolute alla competenza contrattuale decentrata (Cass. 18/6/2003, n. 9784); nel contempo però ha sempre e costantemente affermato la natura privatistica e non istituzionale della rappresentanza negoziale, per cui deve essere salvaguardata la libertà di adesione sindacale individuale sancita nell’art. 39, c. 1, della Costituzione e, di conseguenza, salvo diverse e specifiche previsioni legislative (da ultimo v. art. 5, c. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001), deve ammettersi la possibilità di manifestare un dissenso esplicito sull’accordo da parte dei singoli lavoratori, e non solo di quelli iscritti ad altri sindacati o non iscritti ad alcun sindacato, ma anche di quelli iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (Cass. 28/5/2004, n. 10353). Sicché l’”effetto utile”, sotto il profilo del migliore aggancio delle previsioni contrattuali alle reali dinamiche produttive e di sviluppo dell’impresa di riferimento, potrebbe essere ampiamente frustrato dall’esercizio individuale della facoltà di dissenso.
La previsione dell’accordo separato interconfederale sembra, su questo versante, non apportare nulla di nuovo all’attuale quadro giudico. Tanto rumore per nulla? No, non è così, il clamore è giustificato dal fatto che comunque esistono vincoli endoassociativi sindacali che sono serviti a scongiurare conflitti fra i diversi livelli e sovvertimenti degli assetti regolativi dati dal protocollo sociale del luglio 1993 e che rimane radicata l’idea per cui il contratto nazionale mantiene la funzione di definire gli standard minimali e inderogabili del lavoro. Per cui l’affermazione esplicita secondo cui al livello aziendale tutto può essere consentito, si appalesa difficile da accettare, sia perché intacca il principio di non duplicità di intervento regolativo sulle stesse materie, sia perché svincola tale effetto da qualunque filtro o soglia di rappresentatività minimale, di fatto legittimando accordi sindacali aziendali derogatori, sottoscritti anche da sigle sindacali minoritarie in azienda o aderenti ad organizzazioni non comparativamente più rappresentative nella categoria di riferimento. Né può dirsi che tale derogabilità in peius sia stata circoscritta alle sole ipotesi di grave difficoltà finanziaria o produttiva dell’impresa, poiché, a tali causali, si sono aggiunte lo «sviluppo economico e occupazionale», e dunque si è aperto ad ogni possibile condizione gestionale, organizzativa e patrimoniale.
Comprese le ragioni di ostilità della Cgil rispetto al testo proposto, ma parimenti comprese e condivise le contrapposte esigenze ad una valorizzazione della produttività aziendale, al più stretto collegamento tra performance aziendali e livello delle retribuzioni garantite ai dipendenti, alla necessità di dare maggiore flessibilità alle imprese in funzione degli effettivi andamenti gestionali registrati, forse alcuni spazi ulteriori di mediazione ci sono e si potrebbe ancora tentare di «ricucire». D’altronde, rivedere le regole della contrattazione collettiva, della rappresentatività sindacale, degli incentivi alla qualità ed al miglioramento di prodotti e servizi, senza la diretta partecipazione del maggiore sindacato in Italia, rischia di generare un innalzamento vertiginoso delle tensioni sociali ed un acuirsi dei conflitti giuridici, legati al permanere di due contemporanei sistemi di relazioni industriali, uno fondato ancora sull’accordo del 1993, l’altro imperniato sull’accordo del 2009. Che cosa si potrebbe allora fare per dare maggiore fiato, spinta, capacità flessibilizzante al contratto di secondo livello, senza peraltro rinunciare al riparto di competenze ed abdicare alla funzione inderogabile e distributiva del contratto nazionale?
La risposta ci sembra univoca. Fermi restando tutti gli altri punti qualificanti dell’intesa, il delicato nodo dei rapporti fra contratti di differente livello si potrebbe sciogliere attraverso un alleggerimento dei contenuti del contratto nazionale, in modo da preservarne la funzione inderogabile minimale senza pesanti ipoteche sugli esiti (anche flessibilizzanti) della contrattazione integrativa, da cui discenda una riallocazione delle materie verso il basso, pur secondo direttrici prefissate a livello centrale (confederale o nazionale). Con un siffatto spostamento in periferia del baricentro regolativo si offrirebbero maggiori chance di esplicazione al contratto aziendale, mantenendo fermo peraltro un riparto di competenza precostituito e non oggetto di continue revisioni ed aggiustamenti in corso d’opera, fonte oltre tutto di possibili fenomeni di dumping sociale (per una più ampia articolazione, v. Pizzoferrato, Il contratto collettivo di secondo livello come espressione di una cultura cooperativa e partecipativa, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, p. 434 ss.).
Ci sembra infatti di molta minore consistenza l’altra critica avanzata al testo dalla Cgil, in relazione alla prefigurazione di un modello che non dia sufficiente tutela del salario. A parte il fatto che le opinioni sono divergenti in ordine al livello di rivalutazioni prodotte dal IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), comparate al tasso di inflazione programmata, resta comunque che l’allineamento all’inflazione reale deve avvenire nel corso di validità del contratto; che viene riconfermato un meccanismo di copertura economica tra la scadenza di un contratto nazionale e la stipula del rinnovo; e che viene previsto un elemento economico di garanzia già nel contratto nazionale, a compensazione della carenza di contrattazione sul premio di risultato per situazioni di difficoltà finanziaria e produttiva.
Insomma, l’impressione è che l’accordo del 22 gennaio 2009 sia estremamente utile ed opportuno, soprattutto nella parte relativa al rilancio della produttività ed alla sua diretta connessione con le dinamiche retributive, con conseguente valorizzazione regolativa del contratto aziendale; ci sembra anche che le sue previsioni possano essere in massima parte condivise anche dalla stessa Cgil; il vero problema è rappresentato, a nostro avviso, dalla derogabilità in peius dei contratti nazionali a opera dei contratti di secondo livello, ma anche su questo terreno potrebbero ricercarsi soluzioni condivise che non affievoliscano la carica innovativa dell’accordo ma nello stesso tempo non intacchino un principio così diffuso nel mondo del lavoro, o attraverso un sistema di robusti filtri che diano garanzie di effettivo consenso a livello aziendale o attraverso un ridisegno, come detto, a monte delle funzioni regolative fra livelli, con sottrazione di competenze alla sede nazionale. D’altronde non si vede come possa prospettarsi una riforma della struttura contrattuale senza una parte importante del sindacalismo confederale: il rischio è quello di ulteriori lacerazioni sociali e di un’esplosione della vertenzialità giudiziaria con ricadute negative sulla competitività delle imprese e sui livelli occupazionali. Le forme ed i modi di una ricomposizione del quadro sindacale non mancano alla luce del percorso di riforma in esame, la cui operatività, secondo quanto stabilito dal par. 2, è posticipata alla definizione di ulteriori accordi interconfederali specificativi e attuativi, ancora tutti da costruire e sperimentare.
Rimane poi, decisivo, in primo piano, il tema della riduzione della pressione fiscale e contributiva sul lavoro, che ha raggiunto ormai livelli insostenibili per il sistema economico italiano e che non è più sopportata dalla coscienza sociale della maggioranza dei cittadin: dall’unanimità e trasversalità dei consensi, si deve passare ad una inequivocabile, perché piena e strutturale, implementazione fattuale, in carenza della quale ogni sforzo sul versante contrattuale si rivelerebbe vano.

Nota In senso contrario, paventano un eccessivo costo a carico dei contribuenti dato dal minore gettito all’erario, Boeri-Garibaldi;
per una condivisibile critica di tale posizione, Il commento di Giorgio Santini.

TELECOM ITALIA: QUANDO L’INDUSTRIA FINANZIA LE BANCHE

Gli azionisti di Telecom Italia sono soprattutto istituzioni finanziarie, ben liete di incassare i consueti lauti dividendi in un periodo di crisi. In questo modo però il denaro non va dalle banche alle imprese, come sarebbe naturale, ma fa il percorso inverso. E gli investimenti sulla nuova rete? Tra scarse risorse e perdurante incertezza istituzionale, Telecom rinvia e diluisce gli impegni. Occorre chiarezza sulle scelte di fondo della politica. Pensando anche ai ritardi nell’informatizzazione del nostro paese.

L’OTTIMISMO DELLA PREVISIONE*

Un’ondata di revisioni al ribasso della crescita si abbatte sulle stime ufficiali di governi e organizzazioni internazionali, che continuano a restare ancorate a un certo ottimismo. Una situazione già vista all’epoca della crisi asiatica del 1997. Allora come ora l’idea è che pubblicare stime pessimistiche peggiori la situazione. Ma è accettabile che organizzazioni multilaterali e governi facciano un uso strategico dell’informazione? Soprattutto, che cosa succede alle aspettative quando gli operatori di mercato si trovano ad affrontare continue revisioni al ribasso?

PIU’ CHE UN CONTENZIOSO, UNA SIMONIA FISCALE

Novità nell’accertamento di imposte sui redditi, Iva e di altre imposte indirette. Il contribuente ha ora la possibilità di fruire di un significativo abbattimento delle sanzioni se aderisce alla determinazione del tributo operata, in via unilaterale, dall’amministrazione finanziaria. Se l’intento di potenziare l’azione di contrasto all’evasione è meritevole, l’intervento ha una connotazione ambigua: confonde esigenze operative con altre più contingenti, come il fare cassa. E rende sostanzialmente superflua l’osservanza di comportamenti fiscalmente virtuosi.

REGIONI IN CONFLITTO PER I FONDI EUROPEI

Le regioni contribuiranno a costruire una rete di protezione per i disoccupati privi di ammortizzatori sociali. Utilizzando le loro dotazioni del Fondo Sociale Europeo. Ma le regioni del Sud – più povere – dispongono di una quota del Fondo superiore a quelle del Centro-Nord, mentre queste ultime hanno più disoccupati. Trasferire i fondi dal Sud al Centro-Nord? Sarebbe possibile, ma il Governo ha scelto una strada diversa, che lascia inutilizzata per questo scopo una parte delle risorse europee e accolla un onere allo Stato.

LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIU’ DISEGUALE

La Cgil ha proposto un’imposta di solidarietà: un aumento di aliquota dal 43 al 48 per cento sui redditi superiori ai 150mila euro. L’extra-gettito servirebbe a finanziare interventi in favore di disoccupati e precari. Misure simili sono già state adottate nel Regno Unito e Stati Uniti. Tuttavia, nel nostro paese non è probabilmente la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze perché toccherebbe di fatto solo il lavoro dipendente, senza incidere sull’evasione fiscale. Ma è ora che il problema della distribuzione del reddito torni in primo piano.

UNA PROPOSTA DA NON ACCETTARE*

La recente proposta della Presidente della Confindustria di lasciare per un anno nelle casse delle aziende il flusso del TFR versato alla Tesoreria dello Stato (si tratta del TFR accantonato per i lavoratori delle imprese con più di 50 addetti, per un ammontare per il 2009 pari a circa 4,2 mld di Euro), riporta l’attenzione sulle peculiari modalità con le quali in Italia si è inteso finanziare la previdenza complementare.
All’estero, generalmente, i contributi alla previdenza complementare sono a carico delle imprese datrici di lavoro in quanto i fondi pensione costituiscono uno dei principali strumenti di “fidelizzazione” della forza lavoro all’azienda; nel tempo, i piani pensionistici sono divenuti in tali esperienze una componente essenziale del reddito dei lavoratori nell’età anziana e perciò anche un elemento rilevante delle relazioni sindacali.
In Italia le dichiarazioni contenute in primis nei testi legislativi (v. art.1 lettera c) legge delega 243/2004 “ sostenere e favorire lo sviluppo della previdenza complementare…”e l’art. 1 del D.Lgs. 252/05 che assegna alla previdenza complementare il compito di “assicurare” ai lavoratori una copertura previdenziale integrativa), non sembra abbiano avuto adeguata eco nel contesto produttivo: le risorse messe a disposizione della previdenza complementare dal sistema delle aziende sono assai esigue (il contributo a carico dei datori di lavoro è mediamente poco superiore all’uno per cento del salario lordo).
Poi c’è il TFR che è uno dei pochi ammortizzatori sociali di cui dispone il Paese e che, soprattutto in momenti di crisi, rappresenta un elemento di parziale ristoro finanziario per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. Inoltre, il TFR è stato in questi anni la principale fonte contributiva che ha reso possibile l’adesione dei lavoratori dipendenti ai fondi pensione: senza l’apporto dei flussi di TFR l’accantonamento dei lavoratori a fini di previdenza complementare si ridurrebbe a ben poca cosa, considerando le scarse disponibilità di reddito e di risparmio e gli oneri imposti dalla contribuzione alla previdenza obbligatoria.
Nel 2007, si è inserito sulla scena un nuovo attore, lo Stato, che ha destinato a se stesso la quota di TFR dei lavoratori delle aziende sopra i 50 addetti non devoluta ai fondi pensione, e che si sta avvalendo di tali somme per finanziare iniziative variamente finalizzate.
Ma il TFR è da sempre anche una fonte di autofinanziamento per le imprese: queste infatti approfittando del contenuto livello di rendimento, che per legge devono riconoscere al TFR accantonato in azienda per i propri dipendenti, lo utilizzano per il conseguimento di obbiettivi produttivi. Appare comprensibile dunque che in un simile frangente di crisi le imprese possano proporre di fare appello a tale risorsa per fronteggiarne gli effetti.
La proposta di mantenere il TFR nelle aziende va nondimeno valutata anche da un altro punto di vista: qualora fosse accolta, questa avrebbe probabilmente una ricaduta sulle possibilità, già messe a dura prova dalla crisi in corso, di sviluppo della previdenza complementare nell’anno appena iniziato. Sappiamo che difficoltà di crescita delle adesioni alla previdenza complementare si sono avute maggiormente nel contesto delle piccole imprese, dove il TFR non destinato a previdenza complementare resta in azienda; ora un altro fronte di potenziale conflitto d’interessi in capo ai datori di lavoro sarebbe riaperto anche nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni nelle quali la previdenza complementare è cresciuta in questi anni di più e, ancora di più, dall’avvio della riforma.
Occorrerebbe, invece, trovare nuove e più proficue strade per conciliare gli interessi dei fondi pensione, delle imprese e dello Stato, ad esempio promuovendo iniziative comuni sul fronte dei finanziamenti di opere di pubblica utilità. Inutile sottolineare, peraltro, che si tratta di un tema che richiede seri e molteplici approfondimenti.

* L’autore è Commissario Covip

CASA BIANCA, CASA DI VETRO

Appena insediato, Obama ha annunciato il suo impegno per un governo trasparente e partecipativo. E certo la trasparenza è indispensabile per migliorare i servizi pubblici e ridurre i rischi. A patto però che i cittadini possano utilizzare davvero l’informazione ricevuta. Che dunque va proposta in maniera chiara e semplificata e in modalità che coincidano con i tempi e i luoghi in cui vengono prese le decisioni. Deve essere standardizzata e comparabile, perché gli utenti abbiano la possibilità di scegliere e premiare coloro che offrono prodotti e servizi migliori.

GLI HEDGE FUND? DIAMOGLI UNA REGOLATA *

Le regole servono per imporre comportamenti ispirati alla prudenza a tutti i grandi operatori del sistema finanziario, compresi gli hedge fund. A quelli di notevoli dimensioni in grado di causare un danno sistemico si potrebbe applicare lo stesso sistema di norme imposto alle banche. E se la regolamentazione diretta è difficile e costosa, si può utilizzare quella indiretta, propria delle borse. In ogni caso, hanno oggi un’occasione unica per dimostrare alla collettività che l’evasione fiscale non è la loro unica ragion d’essere.

QUANDO LO STATO NON PAGA

Il ritardo con il quale la pubblica amministrazione regola i propri debiti commerciali è mostruoso. E ogni anno genera una domanda di credito da parte delle imprese di circa 67 miliardi di euro. Nel decreto anticrisi c’è un timido tentativo di intervenire aumentando la liquidità dei crediti verso la Pa, favorendone la monetizzazione o la cessione a intermediari finanziari. Tuttavia, manca ancora una totale consapevolezza dei costi che una simile situazione procura non solo al sistema produttivo, ma agli stessi conti dello Stato.

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