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IDENTIKIT DEL LAUREATO-INSEGNANTE

Lungi dall’essere un corpo omogeneo, l’universo degli insegnanti è al suo interno molto differenziato. Significative le differenze nei meccanismi e nei fattori di selezione e autoselezione in entrata dei laureati-insegnanti. Ciò riflette differenti motivazioni culturali, ma anche la presenza di asimmetrie nelle opportunità occupazionali e professionali, effettive o percepite. L’unico elemento comune a tutti sembra essere l’elevata quota e la lunga durata della condizione di precarietà. I risultati di una indagine della Fondazione Agnelli su dati Almalaurea.

Quali sono le caratteristiche dei laureati che decidono di dedicarsi all’insegnamento? Che cosa li differenzia dai colleghi che invece si tengono ben lontani da una carriera all’interno del sistema istruzione? A questa domanda, che riteniamo centrale quando si discute di riforme delle istituzioni scolastiche italiane, abbiamo cercato di rispondere inun’indagine, svolta per la Fondazione Giovanni Agnelli, sui laureati che hanno optato per l’insegnamento, presenti nella banca dati Almalaurea. Informazioni ed elementi utili al dibattito sono ricavabili anche dall’indagine sulla scuola secondaria superiore, svolta per la Fga nell’ambito del progetto Almadiploma. (1)

DIVERSI, MA UNITI DALLA PRECARIETÀ

Il rapporto preparato per la Fga utilizza alcune elaborazioni che consentono di caratterizzare il collettivo dei laureati-insegnanti a confronto con gli altri laureati. L’ipotesi comportamentale sulla quale si basano è che le scelte formative e occupazionali, oltre a essere condizionate dal background socio-culturale degli individui, siano indirizzate da motivazioni e aspettative economiche e socio-culturali. Sulla base di tali ipotesi, l’indagine identifica i tratti distintivi dei diversi collettivi di laureati-insegnanti, selezionati al fine di risultare omogenei rispetto ai percorsi formativi compiuti e, quindi, alle chance occupazionali.

L’universo degli insegnanti, di solito trattato come un corpo sostanzialmente omogeneo, è invece al suo interno molto differenziato. In particolare, si evidenziano significative differenze nei meccanismi e nei fattori di selezione e autoselezione in entrata dei laureati-insegnanti, a seconda dei gruppi di corsi di laurea di provenienza e, quindi, delle scuole di sbocco (tabelle 1 e 2). (2)
Ciò riflette le differenti motivazioni culturali, in parte riconducibili al background degli individui, ma anche la presenza di asimmetrie nelle opportunità occupazionali e professionali, effettive o percepite, con le quali essi si confrontano a seconda della laurea posseduta e delle famiglie di origine. I comportamenti effettivi dei laureati-insegnanti rispondono, di conseguenza, in maniera diversa agli incentivi con i quali si confrontano. L’unico elemento comune riscontrato tra i diversi laureati-insegnanti è l’elevata quota di precari e la durata della condizione di precarietà. A cinque anni dalla laurea, solo il 38 per cento circa ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, contro circa il 49 per cento (il 74 per cento se si includono coloro che svolgono lavoro autonomo) degli altri colleghi in possesso della stessa laurea.

INDICAZIONI PER POSSIBILI INTERVENTI

La caratterizzazione non omogenea del corpo insegnante appare in linea con i risultati dell’indagine Pisa, che disegnano un quadro altrettanto articolato della scuola italiana in funzione delle discipline, del tipo di scuola e dei territori considerati.
Tale differenziazione offre una prima indicazione di policy: gli assetti organizzativi delle scuole e i meccanismi retributivi e di carriera degli insegnanti dovrebbero riconoscere, più di quanto si verifichi ora, la varietà di motivazioni e aspettative che riguardano sia le differenze tra ambiti disciplinari sia quelle tra livelli di istruzione e tipi di istituto superiore.
Una seconda indicazione, questa legata all’analisi delle aspirazioni o motivazioni dei laureati-insegnanti, è che per rendere più appetibile l’insegnamento per i laureati migliori, occorre giocare sia sugli incentivi retributivi e di carriera sia sulle motivazioni di natura culturale, che sembrano caratterizzare maggiormente le scelte dei laureati-insegnanti a confronto con gli altri laureati (tabella 3).
La terza indicazione di policy riguarda le condizioni di accesso all’insegnamento e scaturisce dalla lettura congiunta dei dati dell’indagine Pisa e di quelli relativi ai meccanismi di selezione e di autoselezione degli insegnanti per tipo di laurea/ambito disciplinare (tabella 1). Recuperi di efficacia ed efficienza nel sistema d’istruzione potrebbero essere ottenuti, soprattutto per le discipline di base, introducendo meccanismi che orientino le scelte formative dei futuri insegnanti sin dalle scuole medie superiori. A questo proposito, vi è da chiedersi quanto sia opportuno mantenere tuttora indiscriminato l’accesso all’insegnamento delle discipline di base e non prevedere, invece, una maggiore coerenza complessiva del percorso formativo degli insegnanti che si estenda, oltre al titolo di laurea, anche al tipo di scuola secondaria superiore frequentato.

(1)Entrambe le due indagini sono disponibili sul sito della Fondazione Agnelli.
(2) I dati riguardano 1500 laureati-insegnanti a 5 anni dalla laurea.

Tabella 1. Alcune caratteristiche dei laureati che hanno optato per l’insegnamento, intervistati a cinque anni dalla laurea, a confronto con gli altri laureati (numeri indice)

 

Tabella 2: Aspetti di soddisfazione per il lavoro svolto dai laureati pre-riforma 2002 intervistati a cinque anni dalla laurea a confronto con gli altri laureati: numeri indice.

(1) comprende i gruppi agrario, architettura, chimico-farmaceutico

Tabella 3. Laureati del 2002: importanza attribuita al momento della laurea a vari aspetti del lavoro ideale cercato, per professione svolta a cinque anni (valori medi su giudizi standardizzati)

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Pietro Blu Giandonato

    Sono docente di scuola superiore in ruolo da pochi anni, senza averlo mai fatto prima (ho vinto il concorso del 1999). Non faccio solo questo, e forse ciò mi consente di immaginarmi ancora non pienamente dentro la scuola. Ma insegnare mi piace e ci tengo a farlo al meglio che posso. Forse la mia giovinezza professionale come docente non mi fa avere terrore nero dell’introduzione della meritocrazia, e cerco di capire in che modo si possa mettere su un sistema capace di valutare l’operato e la professionalità del sistema scolastico, al di là delle solite indagini OCSE/PISA/INVALSI, spesso fini a se stesse e dietro le quali ci nascondiamo tutti, dal Ministero ai singoli professori. Ho cercato, ho letto, mi sono informato. In maniera obiettiva credo. Ma non ho trovato risposte soddisfacenti. Il lavoro della Fondazione Agnelli è accurato e importante, ma purtroppo ciò che manca è una proposta di legge o di riforma scolastica che sia davvero sopra le parti. Non lo è l’unica attualmente in discussione in parlamento, a firma dell’on.Aprea (http://www.homolaicus.com/scuola/aprea.htm), sulla quale purtroppo non si può che affermare: la strada verso l’inferno è lastricata di buone intenzioni.

  2. giovanni paoli

    Il test P.I.S.A. ha rivelato che quei paesi che hanno ottenuto i migliori risultati – come la Finlandia – hanno un sistema di reclutamento e di formazione del corpo insegnante completamente diverso dal nostro. Vorrei metterne in evidenza tre punti: 1. a 18 anni si sceglie di diventare insegnante, come altri decidono di diventare ingegneri, e si accede in facoltà a numero chiuso dove la formazione pedagogica è fondamentale (i nostri insegnanti, soprattutto del secondario, sono pedagogicamente analfabeti); 2. dopo l’università un anno di tirocinio svolto in tre scuole diverse del paese dà l’idoneità all’insegnamento; 3. come logica conseguenza non esistono i concorsi – una abitudine inutile dei paesi latini – ma esistono richieste di assunzione delle singole scuole sulla base di curriculum e colloqui. Finché non si entrerà in una logica di questo tipo – buona formazione pedagogica e responsabilità personale di chi assume e di chi viene assunto – a mio avviso i problemi della scuola resteranno insoluti.

  3. Guido Robotti

    Probabilmente chi mi ha preceduto nell’inviare un commento ha avuto esperienze negative. Credo che definire pedagicamente analfabeti gli insegnanti sia una generalizzazione un po’ forzata. E’ in atto una forte e massiccia revisione degli strumenti didattici da parte di molti docenti e supportato da diverse istituzioni. Ritengo, per esperienza personale, che la professionalità e la maturità cui stanno giungendo gli insegnanti della scuola superiore (non conosco le altre) sia importante e significativa. Il problema principale sta purtroppo in un continuo tentativo da parte di chi non conosce i problemi di denigrare una categoria che nella maggiornaza dei casi è invece molto attiva e professionalmente preparata.

  4. Disperato

    L’analisi statistica è importante e doverosa base di qualsiasi teorizzazione, soprattutto su grandi numeri come in questo caso. Resta che chi vive il sistema di reclutamento attuale non può non annotare (in modo sparso, consentitemi) che: 1) lo Stato datore di lavoro è il più grande sfruttatore di lavoro precario d’Italia; 2) che non esiste il minimo criterio di assunzione basato sul merito (ma solo sulla "resistenza" ai percorsi infernali dei punteggi in graduatoria su cui si dovranno un giorno svelare le mostruosità); 3) che non esiste il minimo criterio di valutazione nell’esercizio della professione basato sul merito; 4) che la retribuzione tiene alla larga le menti migliori; 5) che le logiche pazzesche dei trasferimenti uccidono a favore della disoccupazione intellettuale (purtroppo ma ovviamente principalmente meridionale) anche le minime isole d’eccellenza; 6) che senza assunzioni dirette da parte dei Dirigenti Scolastici di responsabilità individuali non cambierà mai nulla (oggi gli ex presidi tengono solo al numero degli alunni per motivi vari); 7) che è impensabile, pazzesco e autolesionista consentire agli insegnanti che ne hanno possibilità di fare anche altro mestiere.

  5. Nadia

    Leggo in uno dei commenti precedenti che gli insegnanti delle scuole superiori sono definiti "pedagogicamente" ignoranti. Sono un docente universitario di Chimica e ho avuto l’opportunita’ di tenere dei corsi all’interno di un SSIS. Vi posso assicurare che se c’e’ stato qualcosa di abnormemente sopravvalutato in quei corsi sono proprio gli aspetti pedagogici- didattici, o meglio presupposti tali. Intendo dire che se i contenuti dei corsi di pedagogia e didattica sono quelli che io ho visto li’, forse sarebbe meglio che nessun aspirante insegnante ne frequenti mai uno! Un buon corso su come si insegnano le singole discipline (perche’ ognuna ha un suo metodo di insegnamento ottimale) sarebbe molto piu’ utile di astratti concetti generici sulle "tacite conoscenze" ed altre invenzioni di questo tipo. Secondo la teoria delle "tacite conoscenze" anche l’uomo primitivo conosceva la teoria della relativita’. E’ solo mancato un docente che gliela abbia "risvegliata".

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