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PIU’ DONNE IN PARLAMENTO MA CON SCARSO POTERE

Cresce la presenza femminile nel Parlamento italiano. In questa legislatura ha finalmente superato quota 20 per cento. Ma il numero di senatrici e deputate non è l’unico indicatore per verificare lo stato delle disuguaglianze di genere in politica. Bisogna considerare anche la concentrazione in particolari settori di attività e in determinati livelli d’inquadramento o responsabilità. Si scopre così che il ruolo delle parlamentari nel dirigere e orientare i processi decisionali è addirittura diminuito. Prova ne sono le commissioni permanenti delle due Camere.

IMPRENDITRICE? IL BANCHIERE NON SI FIDA

Le donne hanno difficoltà ad ottenere finanziamenti bancari per attività di impresa e di investimento. Una ricerca mostra che i problemi tra le banche e le clienti nascono proprio sulla capacità di negoziare le condizioni di accesso al credito. Ma qui gioca un ruolo cruciale l’intermediario finanziario. Le sue caratteristiche ideali comprendono capacità di mediazione, di relazione, di ascolto e comprensione. Forse per migliorare la situazione basterebbe che ad ascoltare le istanze di imprenditrici e professioniste fosse un operatore bancario di genere femminile.

UN COMMENTO DI RUGGERO PALADINI A “LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIÙ DISEGUALE”

Commentando la proposta della CGIL (in sostanza un nuovo scaglione da 150mila in poi con aliquota al 48%) Larcinese, alla fine dell’articolo, osserva che non è detto che essa sia “la risposta più appropriata alla crescita delle diseguaglianze nel nostro paese: la proposta della CGIL toccherebbe di fatto solo chi le tasse le paga, ossia prevalentemente il lavoro dipendente, per quanto ben remunerato”.
L’osservazione va modificata, nel senso che ai livelli di reddito sopra i 150mila vi sono percettori di redditi diversi dal lavoro dipendente, che non evadono (o se evadono, lo fanno in misura molto ridotta). I dati delle dichiarazioni Irpef dell’anno 2005 ci dicono che il 56% dei circa 115mila contribuenti dichiara redditi da lavoro dipendente; in aggiunta ai pensionati si arriva quasi all’83%. Tuttavia su un ammontare di reddito complessivo di 32 miliardi (il 4,6% dell’intera base imponibile) i redditi da lavoro dipendente e da pensione rappresentano “solo” il 45% del totale. Vi sono quasi 30mila professionisti che dichiarano il 21% dei 32 miliardi, e 34mila percettori di redditi di partecipazione che dichiarano il 16%. Questi ultimi redditi sono quelli dichiarati in Irpef dei membri di srl o azionisti di spa che, avendo partecipazioni qualificate, devono dichiarare una quota dei redditi in Irpef.
Vi sono poi i titolari di redditi d’impresa; si tratta di poco più di 10mila contribuenti, con redditi complessivi che costituiscono solo il 6% dei 32 miliardi. Qui la domanda nasce spontanea: il 2005 è stato un anno di crescita bassa (0,6% di Pil), ma è possibile che tra milioni di imprenditori solo 10mila (lo 0,4%) siano i “ricchi”? Da notare che i professionisti, che sono molti di meno, hanno nello stesso anno un numero di “ricchi” triplo (il 3,4% dei professionisti).
L’impressione è che i contribuenti che dichiarano redditi alti sono quelli che non evadono (o lo fanno in misura molto limitata), perché sono lavoratori dipendente (o pensionati), ma anche liberi professionisti che, per diverse ragioni non possono o non vogliono farlo, o azionisti di società di medie e grandi dimensioni (dove si può eludere, ma molto meno evadere). In tutte le province i notai sono la categoria con reddito dichiarato più alto, ma anche tutti coloro che prestano servizi per il settore pubblico o per le grandi imprese non si trovano nelle condizioni di evadere, anche se lo volessero.
Con questa modifica l’osservazione di Larcinese sembra condivisibile: a quei livelli di reddito si trovano soprattutto coloro che non possono (ed in qualche caso anche non vogliono) evadere. Il che di per sé non implica che la proposta della CGIL sia da condannare a priori; in fondo altre volte, come è avvenuto nel 1997 con il contributo per l’Europa, un prelievo fiscale è caduto sulle spalle dei più onesti (per scelta o per necessità). Ma non vi è dubbio che la strada maestra è quella del contrasto dell’evasione, per ridurre il fenomeno ad una dimensione fisiologica. Dal fatto di “pagare tutti, pagare meno” l’economia italiana non avrebbe che benefici.

LA CONCORRENZA DEGLI ALTRI

L’efficacia di un’autorità antitrust dipende in larga misura dal capitale umano a disposizione e dalla sua specifica competenza. Stona perciò alquanto con il ruolo che l’Autorità intende ritagliarsi scoprire che larga parte dei suoi funzionari e dirigenti non sono assunti con rigide procedure concorsuali, ma attraverso vie molto meno trasparenti. Ancora più grave se si dovesse accertare che una parte dei dipendenti dell’Autorità non ha le competenze necessarie, perché ciò metterebbe in discussione l’equilibrio di poteri su cui si fonda tutto il sistema.

NEL FUTURO IL NUCLEARE. SUL PRESENTE IL SILENZIO

L’accordo Italia-Francia per un ritorno del nostro paese al nucleare è un colpo a effetto fondato su un’illusione. Quella che vede nell’elettronucleare la soluzione ai problemi della sicurezza energetica, del clima e dei costi dell’energia. Ma anche a regime il contributo del nucleare sarà ridotto. E su tutte le questioni quello che accadrà nel 2030 dipende dalle altre scelte in materia energetica che nel frattempo il nostro governo avrà o non avrà fatto. Senza dimenticare le difficoltà su localizzazione degli impianti, rispetto dei tempi di costruzione e finanziamenti.

L’ACCORDO SEPARATO DEL 22 GENNAIO 2009: QUALI ULTERIORI PROVE DI DIALOGO?

L’accordo recentemente siglato da tutte le confederazioni sindacali e imprenditoriali, a eccezione della Cgil, con una presenza del Governo più in veste di datore di lavoro pubblico che non di soggetto dispensatore di risorse normative e finanziarie, è stato giustamente definito “di portata storica”, perché innesta numerosi germi concertativi e cooperativi al sistema di relazioni industriali del nostro paese, ciò che in Italia costituisce una novità assai rilevante. La questione è se l’innovazione si rivelerà soltanto tentata o anche effettiva.
Vi è un punto su cui la cesura rispetto al passato è drastica al punto da essere indigeribile per la Cgil: la derogabilità in peius dei contratti nazionali da parte dei livelli inferiori. La giurisprudenza in verità ha ammesso il principio della derogabilità in peius del contratto collettivo nazionale a opera del contratto aziendale per il prevalere del criterio cronologico su quello gerarchico, anche con riguardo a materie non devolute alla competenza contrattuale decentrata (Cass. 18/6/2003, n. 9784); nel contempo però ha sempre e costantemente affermato la natura privatistica e non istituzionale della rappresentanza negoziale, per cui deve essere salvaguardata la libertà di adesione sindacale individuale sancita nell’art. 39, c. 1, della Costituzione e, di conseguenza, salvo diverse e specifiche previsioni legislative (da ultimo v. art. 5, c. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001), deve ammettersi la possibilità di manifestare un dissenso esplicito sull’accordo da parte dei singoli lavoratori, e non solo di quelli iscritti ad altri sindacati o non iscritti ad alcun sindacato, ma anche di quelli iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (Cass. 28/5/2004, n. 10353). Sicché l’”effetto utile”, sotto il profilo del migliore aggancio delle previsioni contrattuali alle reali dinamiche produttive e di sviluppo dell’impresa di riferimento, potrebbe essere ampiamente frustrato dall’esercizio individuale della facoltà di dissenso.
La previsione dell’accordo separato interconfederale sembra, su questo versante, non apportare nulla di nuovo all’attuale quadro giudico. Tanto rumore per nulla? No, non è così, il clamore è giustificato dal fatto che comunque esistono vincoli endoassociativi sindacali che sono serviti a scongiurare conflitti fra i diversi livelli e sovvertimenti degli assetti regolativi dati dal protocollo sociale del luglio 1993 e che rimane radicata l’idea per cui il contratto nazionale mantiene la funzione di definire gli standard minimali e inderogabili del lavoro. Per cui l’affermazione esplicita secondo cui al livello aziendale tutto può essere consentito, si appalesa difficile da accettare, sia perché intacca il principio di non duplicità di intervento regolativo sulle stesse materie, sia perché svincola tale effetto da qualunque filtro o soglia di rappresentatività minimale, di fatto legittimando accordi sindacali aziendali derogatori, sottoscritti anche da sigle sindacali minoritarie in azienda o aderenti ad organizzazioni non comparativamente più rappresentative nella categoria di riferimento. Né può dirsi che tale derogabilità in peius sia stata circoscritta alle sole ipotesi di grave difficoltà finanziaria o produttiva dell’impresa, poiché, a tali causali, si sono aggiunte lo «sviluppo economico e occupazionale», e dunque si è aperto ad ogni possibile condizione gestionale, organizzativa e patrimoniale.
Comprese le ragioni di ostilità della Cgil rispetto al testo proposto, ma parimenti comprese e condivise le contrapposte esigenze ad una valorizzazione della produttività aziendale, al più stretto collegamento tra performance aziendali e livello delle retribuzioni garantite ai dipendenti, alla necessità di dare maggiore flessibilità alle imprese in funzione degli effettivi andamenti gestionali registrati, forse alcuni spazi ulteriori di mediazione ci sono e si potrebbe ancora tentare di «ricucire». D’altronde, rivedere le regole della contrattazione collettiva, della rappresentatività sindacale, degli incentivi alla qualità ed al miglioramento di prodotti e servizi, senza la diretta partecipazione del maggiore sindacato in Italia, rischia di generare un innalzamento vertiginoso delle tensioni sociali ed un acuirsi dei conflitti giuridici, legati al permanere di due contemporanei sistemi di relazioni industriali, uno fondato ancora sull’accordo del 1993, l’altro imperniato sull’accordo del 2009. Che cosa si potrebbe allora fare per dare maggiore fiato, spinta, capacità flessibilizzante al contratto di secondo livello, senza peraltro rinunciare al riparto di competenze ed abdicare alla funzione inderogabile e distributiva del contratto nazionale?
La risposta ci sembra univoca. Fermi restando tutti gli altri punti qualificanti dell’intesa, il delicato nodo dei rapporti fra contratti di differente livello si potrebbe sciogliere attraverso un alleggerimento dei contenuti del contratto nazionale, in modo da preservarne la funzione inderogabile minimale senza pesanti ipoteche sugli esiti (anche flessibilizzanti) della contrattazione integrativa, da cui discenda una riallocazione delle materie verso il basso, pur secondo direttrici prefissate a livello centrale (confederale o nazionale). Con un siffatto spostamento in periferia del baricentro regolativo si offrirebbero maggiori chance di esplicazione al contratto aziendale, mantenendo fermo peraltro un riparto di competenza precostituito e non oggetto di continue revisioni ed aggiustamenti in corso d’opera, fonte oltre tutto di possibili fenomeni di dumping sociale (per una più ampia articolazione, v. Pizzoferrato, Il contratto collettivo di secondo livello come espressione di una cultura cooperativa e partecipativa, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, p. 434 ss.).
Ci sembra infatti di molta minore consistenza l’altra critica avanzata al testo dalla Cgil, in relazione alla prefigurazione di un modello che non dia sufficiente tutela del salario. A parte il fatto che le opinioni sono divergenti in ordine al livello di rivalutazioni prodotte dal IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), comparate al tasso di inflazione programmata, resta comunque che l’allineamento all’inflazione reale deve avvenire nel corso di validità del contratto; che viene riconfermato un meccanismo di copertura economica tra la scadenza di un contratto nazionale e la stipula del rinnovo; e che viene previsto un elemento economico di garanzia già nel contratto nazionale, a compensazione della carenza di contrattazione sul premio di risultato per situazioni di difficoltà finanziaria e produttiva.
Insomma, l’impressione è che l’accordo del 22 gennaio 2009 sia estremamente utile ed opportuno, soprattutto nella parte relativa al rilancio della produttività ed alla sua diretta connessione con le dinamiche retributive, con conseguente valorizzazione regolativa del contratto aziendale; ci sembra anche che le sue previsioni possano essere in massima parte condivise anche dalla stessa Cgil; il vero problema è rappresentato, a nostro avviso, dalla derogabilità in peius dei contratti nazionali a opera dei contratti di secondo livello, ma anche su questo terreno potrebbero ricercarsi soluzioni condivise che non affievoliscano la carica innovativa dell’accordo ma nello stesso tempo non intacchino un principio così diffuso nel mondo del lavoro, o attraverso un sistema di robusti filtri che diano garanzie di effettivo consenso a livello aziendale o attraverso un ridisegno, come detto, a monte delle funzioni regolative fra livelli, con sottrazione di competenze alla sede nazionale. D’altronde non si vede come possa prospettarsi una riforma della struttura contrattuale senza una parte importante del sindacalismo confederale: il rischio è quello di ulteriori lacerazioni sociali e di un’esplosione della vertenzialità giudiziaria con ricadute negative sulla competitività delle imprese e sui livelli occupazionali. Le forme ed i modi di una ricomposizione del quadro sindacale non mancano alla luce del percorso di riforma in esame, la cui operatività, secondo quanto stabilito dal par. 2, è posticipata alla definizione di ulteriori accordi interconfederali specificativi e attuativi, ancora tutti da costruire e sperimentare.
Rimane poi, decisivo, in primo piano, il tema della riduzione della pressione fiscale e contributiva sul lavoro, che ha raggiunto ormai livelli insostenibili per il sistema economico italiano e che non è più sopportata dalla coscienza sociale della maggioranza dei cittadin: dall’unanimità e trasversalità dei consensi, si deve passare ad una inequivocabile, perché piena e strutturale, implementazione fattuale, in carenza della quale ogni sforzo sul versante contrattuale si rivelerebbe vano.

Nota In senso contrario, paventano un eccessivo costo a carico dei contribuenti dato dal minore gettito all’erario, Boeri-Garibaldi;
per una condivisibile critica di tale posizione, Il commento di Giorgio Santini.

IL MONDO DEL TESTAMENTO BIOLOGICO

In Italia da anni si discute di testamento biologico. Eppure siamo ancora lontani da una legge giusta che tuteli il diritto di tutti all’autodeterminazione. Può essere allora utile uno sguardo alle normative adottate da altri paesi occidentali. Ne emerge il fatto che in nessun caso il riconoscimento giuridico del testamento biologico ha spianato la strada all’eutanasia. Il principio di autodeterminazione viene interpretato nella sua accezione di consenso informato. E la discussione si è incentrata sul suo esercizio nelle situazioni di sopravvenuta incapacità.

PIU’ CHE UN CONTENZIOSO, UNA SIMONIA FISCALE

Novità nell’accertamento di imposte sui redditi, Iva e di altre imposte indirette. Il contribuente ha ora la possibilità di fruire di un significativo abbattimento delle sanzioni se aderisce alla determinazione del tributo operata, in via unilaterale, dall’amministrazione finanziaria. Se l’intento di potenziare l’azione di contrasto all’evasione è meritevole, l’intervento ha una connotazione ambigua: confonde esigenze operative con altre più contingenti, come il fare cassa. E rende sostanzialmente superflua l’osservanza di comportamenti fiscalmente virtuosi.

L’OTTIMISMO DELLA PREVISIONE*

Un’ondata di revisioni al ribasso della crescita si abbatte sulle stime ufficiali di governi e organizzazioni internazionali, che continuano a restare ancorate a un certo ottimismo. Una situazione già vista all’epoca della crisi asiatica del 1997. Allora come ora l’idea è che pubblicare stime pessimistiche peggiori la situazione. Ma è accettabile che organizzazioni multilaterali e governi facciano un uso strategico dell’informazione? Soprattutto, che cosa succede alle aspettative quando gli operatori di mercato si trovano ad affrontare continue revisioni al ribasso?

TELECOM ITALIA: QUANDO L’INDUSTRIA FINANZIA LE BANCHE

Gli azionisti di Telecom Italia sono soprattutto istituzioni finanziarie, ben liete di incassare i consueti lauti dividendi in un periodo di crisi. In questo modo però il denaro non va dalle banche alle imprese, come sarebbe naturale, ma fa il percorso inverso. E gli investimenti sulla nuova rete? Tra scarse risorse e perdurante incertezza istituzionale, Telecom rinvia e diluisce gli impegni. Occorre chiarezza sulle scelte di fondo della politica. Pensando anche ai ritardi nell’informatizzazione del nostro paese.

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