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PENSIONI E CRESCITA

Il governo pensa di congelare l’indicizzazione delle pensioni al di sopra di un certo importo. Sarebbe più equo indicizzare quelle pensioni alla crescita economica, così come avviene in Svezia. Un intervento che permetterebbe di ottenere risparmi sostanziali sulla spesa pensionistica. Ma ancor più importante determinerebbe una compartecipazione dei pensionati alle perdite o ai guadagni dell’economia. Perché sin quando le pensioni saranno una variabile indipendente, la crescente popolazione dei pensionati non avrà alcun interesse a sostenere politiche per la crescita.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo per i numerosi e stimolanti commenti. Si tratta di un tema ovviamente sentito e rilevante per il paese. Rispondiamo accorpando alcuni punti che ricorrono in vari commenti.

Perché dovrebbero pagare i pensionati per la crescita? E i diritti acquisiti?

Occorre rendersi conto che i lavoratori dipendenti pubblici hanno già le carriere bloccate dal blocco degli scatti di anzianità, i dipendenti privati (i cui salari sono al palo da anni) hanno rischiato e rischiano il licenziamento o la CIG, i giovani precari vedono sempre più ridotte le possibilità di trovare lavoro. La spesa pensionistica conta per più di un terzo della spesa corrente. In questo quadro generale non si può non chiedere anche ai pensionati di fare la loro parte. Allora sembra più corretto – sia per equità sia per rendere tutti i cittadini partecipi del problema della crescita (seguendo quindi un criterio economico) – legare la crescita delle pensioni nel tempo (attenzione: non il livello della prima prestazione!) all’andamento dell’economia. Viceversa interventi ad hoc sull’indicizzazione prestano il fianco a manipolazioni che dipendono dai problemi di cassa e di chi vorrà avvantaggiare il governo di turno.
Il sistema svedese di indicizzazione è un sistema che introduce un meccanismo “automatico” proprio nello spirito della riforma Dini, che una volta introdotto non si può più ritoccare nel suo meccanismo di fondo.
Quindi chi pensa che la nostra proposta è lesiva dei diritti acquisiti, dovrebbe considerare che tutte le volte che ci sarà nel futuro un aggiustamento al meccanismo di indicizzazione si toccheranno i diritti di qualcuno a vantaggio di altri. Noi vogliamo ridurre questo arbitrio dei politici di turno.

Non si toccano mai quelli che evadono. In questo modo si favorisce l’evasione.

E’ chiaro che l’evasione è un tema a monte (e di questo ci siamo più volte occupati nel sito lavoce), ma, come diciamo sopra, anche modifiche ad hoc dell’indicizzazione possono ridurre l’incentivo a contribuire. Il vantaggio della nostra proposta è che se tutti si paga qualcosa nei periodi negativi, tutti si beneficia nei periodi di crescita.

Retributivo. Preservare chi ha veramente pagato per 30-40 anni. Le baby-pensioni.

Siamo pienamente d’accordo sull’idea che occorre mantenere il più possibile l’equità attuariale, ma proprio per questo un meccanismo “automatico” definisce ex ante le regole del gioco.  Proteggere le pensioni più basse garantisce che questi pensionati non cadano sotto la soglia di povertà.
Il fatto che le pensioni in essere sono per lo più retributive rafforza la nostra argomentazione perché le pensioni retributive hanno in larga parte beneficiato di tassi di rendimento interno molto elevati – certamente più elevati di quelli che godranno i pensionati di domani.
Proprio su questo sito abbiamo più volte argomentato di accelerare la riforma Dini o introdurre o correttivi attuariali proprio per ridurre alcune iniquità del sistema precedente che ha permesso a molti baby- pensionati di uscire da lavoro con una pensione piena.

Gli svedesi

In realtà nel caso della riforma pensionistica sono gli svedesi che hanno “copiato” la riforma italiana del 1995. Però in Svezia è stata applicata in tempi molto rapidi e introducendo da subito le regole automatiche di aggiustamento (quella dell’indicizzazione, ma anche le revisioni dovute all’aumento della speranza di vita)

Scala Mobile

Non capiamo francamente cosa la nostra proposta abbia a che vedere con la scala mobile

PENSIONI ALLA SVEDESE

Il governo pensa di congelare l’indicizzazione delle pensioni al di sopra di un certo importo. Sarebbe più equo indicizzare quelle pensioni alla crescita economica, così come avviene in Svezia. Un intervento che permetterebbe di ottenere risparmi sostanziali sulla spesa pensionistica. Ma ancor più importante determinerebbe una compartecipazione dei pensionati alle perdite o ai guadagni dell’economia. Perché sin quando le pensioni saranno una variabile indipendente, la crescente popolazione dei pensionati non avrà alcun interesse a sostenere politiche per la crescita.

I CONTROLLI NELLA LEGGE CHE NON SI LEGGE

Il decreto sviluppo interviene sui controlli amministrativi, non solo fiscali, operati da qualsiasi amministrazione, centrale e locale. Il tema della semplificazione dei controlli è molto caro alle imprese e l’intento del governo è ovviamente condivisibile, purché non vada a detrimento del rispetto delle regole. La norma però presenta difficoltà sia interpretative che di attuazione, affronta più la coda che la testa del problema e il suo impatto sulla crescita rischia di essere così incerto da sollevare dubbi sulla sua collocazione in un decreto con carattere di urgenza.

L’AUSTERITÀ VISTA DA SINISTRA

Il rigore di bilancio sembra essere una strada obbligata per paesi indebitati come il nostro. Ma nella gestione del bilancio pubblico si possono adottare strategie diverse, che portano comunque a un controllo della spesa. Per esempio, per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici, si punta all’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita. Che però è una misura regressiva: colpisce di più i più poveri. Si potrebbe invece pensare a un tetto per le pensioni più elevate. Insomma, le scelte tecniche o inevitabili non esistono.

POVERA PENSIONE DEI PARASUBORDINATI…

C’è molta preoccupazione per la copertura previdenziale dei lavoratori parasubordinati. Le stime indicano un livello non lontano dagli assegni sociali. Il problema però non sono tanto le aliquote di contribuzione, quanto il reddito medio annuale percepito da questi lavoratori. Basso, perché in media sono impiegati solo sei mesi l’anno. La copertura previdenziale sarebbe adeguata se alla maggiore flessibilità nel mercato del lavoro facesse da contraltare una retribuzione corrispondente alla reale produttività e tale da compensare la minore tutela offerta.

Riforme in progress per le pensioni del Regno Unito

Il sistema pensionistico nel Regno Unito è complesso e dal 1998 ha subito varie riforme. Da una parte, si è ampliata la platea dei beneficiari della pensione pubblica, le cui indennità forfetarie sono diventate più generose. Dall’altra, si è alzata l’età di pensionamento, incoraggiato i piani aziendali e ridotto le pensioni indicizzate al salario. L’obiettivo è fare in modo che il reddito da pensione sia adeguato. Diminuirà così il numero di pensionati che necessitano dei sussidi condizionati alla prova dei mezzi. Ma nuovi interventi sono dietro l’angolo.

 

È un’incompiuta la riforma francese delle pensioni

Dopo scioperi e proteste, in Francia è stata approvata la riforma delle pensioni. E si deve dar merito al governo francese di aver affrontato un tema così controverso. Tuttavia, la stabilità finanziaria è assicurata solo per pochi anni e non si sa quali misure si dovranno prendere dopo il 2018, quando il deficit riprenderà a crescere. La riforma delle pensioni 2010 può anche essere caratterizzata come regressiva. In questo senso, le critiche dell’opposizione e del sindacato non sono del tutto infondate.

 

La risposta ai commenti

Ringraziamo i lettori per gli utili commenti, che ci consentono di precisare alcuni aspetti del nostro pensiero che per motivi di spazio erano rimasti fra i tasti.
Anche se abbiamo affrontato una questione specifica, relativa a una categoria di lavoratori, e anche se il nostro punto di vista dà particolare attenzione alle professioni intellettuali e liberali, c’è alla base un problema generale di grande importanza, civile ed economico: l’età del pensionamento. Pochi ormai hanno dubbi che tale età debba essere aumentata e resa più flessibile. Il rischio di “gerontocrazia” c’è solo se prendiamo l’accezione generico-populistica del termine. Se intendiamo il fatto (empirico e non ideologico) che la percentuale di “anziani” in servizio è molto alta, in sé questo non è né un bene né un male. L’esempio (solo un esempio, non un confronto sistematico) che abbiamo fatto menzionando Harvard intendeva sottolineare che una università di assoluta eccellenza non sembra aver timore di avere docenti anziani: una volta tanto potrebbe essere bello seguire un esempio di questo genere (non pensiamo valga la pena imitare università di basso livello, abbiano o non abbiano molti anziani nei loro ranghi). Se però si desidera riequilibrare l’età media dei professori, il rimedio efficiente ed equo è assumerne di nuovi, giovani e bravi, procedura che sia nei fatti che nella logica è del tutto indipendente da quella di eliminare i vecchi. Sembra invece che alcuni non abbiano il timore, che a noi sembra molto fondato, che si possa decidere di mandare in pensione gli ultrasessacinquenni e non assumere nessuno al loro posto. Il timore è forte, perché, come notano anche Brugiavini e Weber nella loro risposta ai commenti ricevuti, il costo dei professori pensionati continuerà ad essere sostenuto dai contribuenti: le pensioni sono pagate dall’Inpdap, gli stipendi dall’Università, ma si tratta sempre del bilancio dello Stato e le due somme, in virtù della natura retributiva del sistema pensionistico, sono più o meno dello stesso importo (come si sa, non esiste un pasto gratis). Né potrà essere d’aiuto la parte della proposta PD, cui si accenna nei commenti, dove si menziona la possibilità che ai pensionati forzati vengano conferiti (perché poi dal CdA?) contratti per la didattica; in questo modo, oltretutto, i soggetti in questione verrebbero pagati due volte, dall’Inpdap e dall’Università (come, assurdamente, avviene già in parte anche oggi), e ci sarebbero meno spazio e meno risorse per i giovani!
Infine, sembra anche poco noto all’opinione pubblica che il ricambio generazionale è comunque imminente nei fatti. Il CUN stima una fuoriuscita di circa 1500 docenti l’anno, con conseguente pensionamento, entro il 2018, del 50% degli ordinari e del 25% degli associati attuali. Il pensionamento a sessantacinque anni indurrebbe invece un deflusso di circa 3000 persone l’anno, aprendo una voragine non solo a livello scientifico-culturale ma anche sul piano didattico-organizzativo. Noi ci spereremmo tanto, ma qualcuno crede veramente che sia possibile assumere 3000 nuovi docenti l’anno per i prossimi anni? Se ce la facessimo ad averne almeno 1500, scelti con criteri seri, noi saremmo contenti.

Se il pensionamento è forzoso

Molto ci sarebbe da dire sull’’annunciata riforma dello stato giuridico dei docenti universitari, ma un aspetto che si segnala negativamente è la proposta, ben accetta da maggioranza e opposizione e sostenuta con grande favore da qualche autorevole editorialista, del pensionamento a 65 anni. A meno di non immaginare tentazioni populiste da parte dei suoi sostenitori, è difficile trovare una ratio. In un momento in cui si è capito che, come conseguenza dell’’allungamento delle vite umane, è necessario prolungare il tempo di lavoro, altrimenti i conti economici saltano, e anche il nostro governo si muove in tale (giusta) direzione, che senso può avere quello di andare controcorrente per una specifica categoria di lavoratori? A parte che la attuale struttura demografica del personale universitario indurrà a breve comunque una forte ondata di pensionamenti, perché l’’operazione di “svecchiamento” dovrebbe servire a far entrare in servizio giovani universitari e non giovani magistrati, giovani medici o giovani qualcos’’altro?

COMPORTAMENTI DA FREE RIDER

E’ noto che, considerando l’’economia nel suo insieme, non esiste conferma dell’’idea che l’’anticipo dei pensionamenti favorisca l’’occupazione (Fenge e Pestieau, Social security and early retirement, MIT Press, 2005). Il carico ulteriore sul sistema pensionistico può far aumentare le aliquote contributive e, dato il meccanismo a ripartizione, alzare il costo del lavoro e quindi indurre maggiore disoccupazione. Brugiavini e Weber, proprio su lavoce.info spiegano che l’’abbassamento della pensione danneggerebbe gli stessi giovani, anziani di domani che si vedrebbero ridurre la pensione perché verserebbero meno contributi. Certo, se un solo settore riduce l’’età della pensione mentre gli altri la aumentano, si comporta da free-rider perché trasferisce sul resto della popolazione i costi generati, e può nell’’immediato realizzare l’’obiettivo di assumere nuovi lavoratori al posto degli espulsi. È altrettanto certo, però, che tale comportamento è socialmente inefficiente, e, come negli esempi che facciamo agli studenti, può scatenare una sequenza imitativa per cui anche gli altri settori puntano alla riduzione dell’’età pensionabile, con conseguenze facilmente immaginabili: si sa che ciò che è razionale per un individuo o un gruppo (ammesso che possa esprimere una qualche volontà collettiva), non sempre lo è per la società nel suo complesso.

UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ

Si è detto che il pensionamento anticipato libererebbe l’’università da persone improduttive. Senza negare che queste persone esistano, non si capisce perché l’’età debba essere un criterio per individuarle. Ad Harvard quasi il 10 per cento dei professori “in servizio attivo” ha più di settant’’anni; e di Harvard non si può certo dire che vi abbondino persone improduttive. La via maestra per limitare le difficoltà che abbiamo nell’’incentivare la produttività è quella di concepire un sistema di retribuzione e avanzamento di carriera che premi l’’impegno nella ricerca e nella didattica (binomio inscindibile). Su questo, le proposte di riforma di governo e opposizione tacciono (o sono quantomeno carenti e confuse).
La teoria economica non fornisce dunque appiglio alcuno per giustificare anticipi del pensionamento. (Si consideri anche che i professori anziani svolgono le loro attività di ricerca e di insegnamento a costo quasi zero per lo Stato, essendo il loro stipendio di poco superiore alla loro pensione.) Ma questa non è solo una questione economica, non è solo una questione di teoria. E’ una questione di civiltà, di organizzazione della vita associata, di rispetto e di valorizzazione delle persone, di promozione della cultura e del sapere. È del tutto insensato e, lasciatecelo dire, richiama un sinistro eugenismo, pensare che eliminare da un’’aula di insegnamento o da un laboratorio scientifico chi continui a dimostrare entusiasmo e capacità possa essere una cosa positiva, e non un impoverimento netto per un paese. Quando la durata media della vita era settant’’anni, i professori di università andavano in pensione a settantacinque; oggi che la durata media è ottantacinque anni, si vogliono mandare in pensione a sessantacinque. Oltre che palesemente assurda e incoerente, la proposta Gelmini-Meloni risulta anche incompatibile con una qualsiasi concezione di società veramente aperta, colta e liberale.

Nota degli autori: AB ha 48 anni (molto distante dall’’essere anziano), FR 61 anni (quasi anziano, ma non ancora).

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